Alessandro Cimenti_La democrazia del concorso

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Il concorso di architettura nasce con l’obiettivo di dare alla luce un manufatto che sappia dare risposta e luogo alle istanze della committenza e, laddove è necessario, sappia consigliare una strada alternativa “migliore” rispetto a quella indicata dal bando.
Il fatto che in un concorso si confrontino numerosi professionisti è, a mio avviso, da considerarsi come uno strumento, una strategia che conduca all’obiettivo prefissato o quanto meno in quella direzione.
Paradossalmente se una determinata committenza fosse certa che un tale professionista sapesse risolvere meglio di chiunque altro il tema proposto, allora, in quel caso, diverrebbe inutile, anzi controproducente, il confronto di decine di architetti nell’ambito di un concorso; si otterrebbe dunque l’obiettivo principale senza ricorrere allo “strumento concorso”.
Organizzare un concorso di architettura, soprattutto se fatto bene, costa. Costa redigere un bando chiaro ed efficace, costa selezionare, organizzare e pagare una giuria all’altezza di saper valutare i lavori, costa publicare i risultati del concorso (mostra, catalogo e atti della giuria), costa perfino trovare i fondi per finanziare l’intero processo concorsuale: dall’ideazione, al collaudo dell’opera realizzata!
Oltre a questo esiste un costo non calcolable ma decisamente rilevante che è dato dal numero di progetti prodotti per ogni concorso di progettazione indetto.
Quanto detto può mettere in luce aspetti di grande complessità della macchina concorsuale, cui partecipano direttamente centinaia di persone e il cui esito investe, nel caso in cui l’opera venga realizzata, migliaia di cittadini. Diventa allora comprensibile, se non naturale, il fatto che qualunque concorso generi critiche più o meno accese, dal dissenso di architetti non premiati, a campagne denigratorie, eventualmente fuori luogo, di critici dell’arte.
A mio avviso il risultato di un concorso non dovrebbe essere una proposta capace di mettere tutti d’accordo (una democrazia non è tale senza dissensi) ma un manufatto scelto da una giuria responsabile capace di giustificare le scelte operate. Queste giustificazioni, insieme ai nomi di chi le ha prodotte, dovrebbero “viaggiare” insieme al progetto vincitore e costituirne la carta d’identità, la pagella, il motivo di esistere.
Se le scelte dovessero essere improprie, largamente criticabili, o assurde, queste provocherebbero un immediato discredito dei membri della giuria.
Ritengo che non sia credibile un operato capillare su scala nazionale di lobby formate da architetti che occupano a turno il ruolo di giurato così da favorire l’amico massone. Più probabilmente, a mio avviso, i casi di forte insoddisfazione sono casi in cui la giuria è composta da persone non all’altezza del compito, la cui difesa naturale è procedere non con delle scelte ma con delle “non scelte”, trovandosi infine a premiare dei progetti il cui pregio effettivo è stato quello semplicemente di “non essere”, perciò acriticabile.
Devo dire però che ritengo mediamente soddisfacenti i progetti vincitori dei concorsi nazionali, soprattutto quelli minori, di quest’anno, vinti da architetti italiani poco noti le cui soluzioni sia progettuali che comunicative ho apprezzato decisamente; il nostro studio è stato superato, a volte, da progetti che personalmente giudicavo superiori, in quel caso onore al merito e complimenti alla giuria.

[Alessandro Cimenti]