Hans Ulrich Obrist intervista Rem Koolhaas
Hans Ulrich Obrist:
Il suo libro S, M, L, XL (1995) contiene una parte sul Muro di Berlino come architettura. Mi parlerebbe di questo suo progetto per Berlino, uno dei suoi primi, risalente all’inizio degli anni Settanta?
Rem Koolhaas:
Alla fine degli anni Sessanta ero studente. Era la fine di un periodo caratterizzato, in generale, da un modo innocente di guardare all’architettura, e soprattutto da un ottimismo nei confronti del fatto che l’architettura potesse avere un ruolo nella liberazione dell’umanità. Io ero scettico a questo riguardo, e invece di andare a visitare le ville dell’area mediterranea o i villaggi di pescatori in Grecia - come faceva la maggior parte degli architetti in quel periodo - decisi di guardare al Muro di Berlino come architettura, per documentarlo e interpretarlo, per capire quale fosse il reale potere dell’architettura. Di fatto si trattò di una delle prime volte che mi recavo da qualche parte per lavorare direttamente sul campo. Non sapevo niente di Berlino e del Muro e rimasi totalmente sbalordito di fronte a molte delle cose che scoprii. Per esempio, non avevo quasi idea di come Berlino Ovest fosse imprigionata dal Muro; non avevo mai pensato veramente a quella condizione e al paradosso per cui Berlino Ovest, nonostante fosse circondata da un muro, fosse definita “libera”, mentre l’area al di là del Muro, molto più estesa, non era considerata tale. La seconda sorpresa la ebbi quando scoprii che il Muro non era di fatto un oggetto singolo, bensì un sistema che consisteva di diverse parti, che tutte insieme formavano una zona enorme: costruzioni che furono distrutte per far posto al Muro, sezioni di edifici ancora intatti, assorbiti o incorporati nel Muro, e muri aggiuntivi, alcuni dei quali massicci e moderni, altri più fragili. Questo fu uno degli aspetti più entusiasmanti: un solo muro che assumeva ogni volta un aspetto diverso.
HUO:
In permanente trasformazione.
RK:
Esatto, in permanente trasformazione. Era anche molto legato al contesto, poiché su ciascuno dei due lati mostrava un aspetto diverso, che si adattava a diverse circostanze. Rappresentava anche un primo confronto aperto con il lato orribile e potente dell’architettura. Da allora sono sempre stato accusato di aver assunto una posizione amorale o acritica, sebbene io ritenga personalmente che guardare e interpretare costituiscano di per sé un passo importante verso una posizione critica.
HUO:
Qual è la sua opinione riguardo alla scomparsa del Muro, al fatto che sia stato completamente eliminato?
RK:
Nei primi anni Ottanta abbiamo partecipato a numerosi concorsi per Berlino, che anticipavano le proposte avanzate in seguito alla caduta del Muro per la “vita futura del Muro”, alla ricerca di un nuovo inizio senza rimuovere tutte le tracce.
HUO:
L’edificio dell’IBA [Internationale Bauaustellung]?
RK:
Sì, ma non l’edificio attuale; in un primo concorso si trattava una soluzione molto più interessante, più aperta, in cui venivano usati muri per escludere l’impatto del Muro. Era solo attraverso una proliferazione di muri che si poteva vivere vicino al Muro. Pensammo che la zona del Muro potesse alla fine diventare un parco, una sorta di situazione protetta nell’intera città. Da allora ho sempre provato sgomento di fronte al fatto che la prima cosa a scomparire dopo la caduta del Muro sia stata ogni sua traccia; credo che sia folle che una parte così cruciale della memoria sia stata cancellata, e non per volontà delle imprese commerciali o immobiliari, bensì semplicemente nel nome della pura ideologia: una vera tragedia. Il paradosso è che ora questa scelta crea una “situazione cinese” completamente incomprensibile.
HUO:
Si può paragonare alla scomparsa dell’intera architettura industriale, documentata da Hilla e Bernd Becher?
RK:
Ma almeno quella scomparsa è stata accidentale, mentre quella del Muro è stata intenzionale e condotta nel nome della storia.
HUO:
Mi parlerebbe dell’edificio dell’IBA da lei realizzato?
RK:
A dire il vero, mi sentivo così offeso dall’idea generale di ricostruire i palazzi della zona di Friedrichstadt che non lavorai al progetto per quell’edificio. Fu Elia Zenghelis, il mio socio, a occuparsene, in quanto, non avendo partecipato al concorso, aveva un rapporto più oggettivo con l’area del Checkpoint Charlie. Per me passare da una proposta architettonica di un certo tipo a un’altra completamente diversa era inaccettabile, quindi non potevo farlo.
HUO:
Ma lei è profondamente coinvolto negli attuali progetti berlinesi.
RK:
Sì, e si tratta di un’esperienza molto stimolante, che dal punto di vista della mia storia personale è iniziata nei primi anni Ottanta. All’inizio degli anni Novanta ho partecipato al concorso per Potsdamer Platz, con il cui risultato non mi trovai d’accordo… Anzi, non tanto con il risultato, quanto con l’intero tema della discussione, con la sua asprezza e con le argomentazioni avanzate.
HUO:
Concorda con l’idea di Daniel Libeskind secondo cui non ci dovrebbe essere un piano generale, una soluzione complessiva, ma l’impostazione dovrebbe essere invece molto più eterogenea, eteroclita e frammentata?
RK:
I progetti belli erano molti, non solo quello di Libeskind ma anche quello di William Alsop; e anche il progetto di Hans Kollhoff era veramente interessante. In altre parole, non è che non ci fossero proposte stimolanti, e Alsop, Libeskind e Kollhoff allora appartenevano tutti e tre a un gruppo di architetti che poteva lavorare all’aspetto dominante di Berlino, quello della distruzione, e che non mirava a ricreare una metropoli sintetica. Dopo il concorso per Potsdamer Platz, nel Parlamento berlinese si aprì una seria discussione per negarmi il diritto di entrare in città… Recentemente è stato molto emozionante per me essere nuovamente coinvolto come architetto dell’ambasciata olandese (Berlino, 2000-2002), poter riscoprire Berlino e contemporaneamente l’Olanda, e anche un certo spirito di avventura che è probabilmente olandese, nel senso che hanno scelto un luogo molto coraggioso, piuttosto distante da tutte le altre ambasciate, in quello che in passato era il centro della città, nella zona un tempo comunista, in base al ragionamento molto logico secondo cui in questo modo l’ambasciata sarebbe stata vicina agli altri ministeri. Il loro desiderio è quello di immergersi nell’atmosfera di Berlino Est. Una delle cose affascinanti è anche scoprire che c’è un’intera squadra di burocrati dell’ex Germania dell’Est che dimostra un atteggiamento molto più razionale nei confronti della completa ricostruzione della città e che si sente chiaramente offesa dal fatto che il “liberalismo” dell’Est abbia portato all’imposizione di una dottrina urbanistica inflessibile; e per questo hanno dimostrato grande spirito di collaborazione nei confronti di proposte diverse. Credo quindi che il motivo per cui abbiamo avuto la possibilità di sperimentare sia esclusivamente dovuto al fatto che lavoriamo con burocrati dell’ex Germania dell’Est.
HUO:
Si potrebbe dire che dal 1991 a Berlino sia prevalsa una concezione conservatrice dell’architettura; Philipp Oswalt spiega le ragioni di questa tendenza nel suo articolo apparso nel 1994 su “ARCH+”, intitolato Der Mythos von der Berlinischen Architektur. C’è quest’idea del riformismo conservatore che, per usare le parole di Kollhoff, segue il nuovo solo “se dà prova di essere più efficace, comodo e bello del vecchio”. Ma ieri lei mi ha detto che anche se molte forze tentassero di ricostruire il centro, Berlino diventerebbe comunque, contro tutte le previsioni, una “città cinese”. Mi spiegherebbe cosa intende esattamente?
RK:
Penso che Kollhoff sia ancora un architetto molto potente e molto interessante, e che quello che dice debba essere tenuto separato da quello che fa; ho la sensazione che le sue realizzazioni siano ancora prese molto sul serio; perciò, tralasciando il suo discorso, alcuni dei suoi lavori sono forti. L’aspetto stimolante dell’essere oggi coinvolti nei progetti berlinesi è che si è creata una situazione completamente nuova, in cui si possono vedere i risultati della “prima ondata”; in un certo senso ammiro i protagonisti di quel periodo, perché almeno hanno agito con molta serietà. Ma nonostante questo, nonostante l’incredibile sforzo per “controllare” le nuove opere, semplicemente dal punto di vista della loro mera quantità, Berlino è diventata una città cinese. Questo dimostra che la città cinese è a quanto pare inevitabile ovunque ci siano tante costruzioni.
HUO:
Come descriverebbe la città cinese?
RK:
È una città che ha incrementato molto il suo volume in un lasso di tempo molto breve, e perciò la sua crescita non possiede quella lentezza che costituisce la condizione principale per una sedimentazione tradizionale, che per noi rappresenta ancora un modello di autenticità. Oltre una certa velocità di edificazione quell’autenticità viene inevitabilmente sacrificata, anche se si costruisce tutto con la pietra e materiali autentici, e questa è una sorta di paradosso. Per esempio, se si fa caso al colore della pietra della nuova Berlino, si scopre che è il colore di tutte le peggiori plastiche che venivano prodotte nella Germania dell’Est negli anni Sessanta: è una sorta di strana tonalità di rosa o di giallo chiaro, colori artificiali. Non c’è via di fuga all’artificialità nella nuova architettura, e di certo non nel caso di grandi quantità di costruzioni realizzate tutte contemporaneamente.
HUO:
C’è una storia che tutti raccontano a Shanghai, secondo cui al sindaco di Berlino che si vantava della velocità dell’attività di edificazione nella propria città, il sindaco di Shanghai rispose che nella sua quel processo era probabilmente venti o venticinque volte più rapido. Sembra che in Germania ci sia una conoscenza molto scarsa di quello che succede altrove relativamente allo sviluppo urbano e all’architettura.
RK:
Per me si tratta della natura controversa dell’architettura prussiana, che può essere o una forma di ingenuità o una semplice affermazione strategica. In Germania c’è una profonda ignoranza riguardo alle situazioni esterne ai confini nazionali e un’incredibile preoccupazione per se stessi, e perciò fraintendimenti di questo tipo capitano facilmente. Allo stesso tempo c’è un che di irritante nell’assunzione automatica della modernità, dell’”inevitabilità” del modernismo di Stato. Per esempio, la loro trasformazione del Reichstag è almeno tanto strana quanto l’enfasi sull’architettura prussiana, perché queste sono due forme di innocenza o ingenuità, e pensare che nel Reichstag si possano esorcizzare gli spiriti con una nuova cupola rappresenta al contempo una sorta di gesto estremamente educato e una scelta estetica molto compromessa, corrispondenti a due posizioni intellettuali ugualmente deboli.
HUO:
Pensa che la cupola del Reichstag di Norman Foster abbia a che vedere con l’”innocenza”?
RK:
È innocente in termini di risultati storici; per Foster l’architettura high-tech non era mai coinvolta nel contesto. Mettere semplicemente una nuova copertura a un edificio che ha avuto una storia incredibilmente ambigua è innocente, o perverso, comunque lo si voglia chiamare. Perciò è una condizione molto emotiva. Solo adesso questi dipendenti pubblici si stanno accorgendo che devono di fatto utilizzare edifici nazisti come loro nuovi ministeri, con le inquietudini che emanano da quei luoghi, che richiedono un esorcismo? Ma il vetro e l’acciaio scacciano ancora gli spiriti maligni?
HUO:
Mi ricordo un evento molto strano che risale al 1991: c’era la mostra “Metropolis” al Martin-Gropius-Bau, seguita da una festa nel precedente Reichstag, che a quel tempo era abbandonato: faceva molta paura.
RK:
Questo è il punto: Berlino fa davvero paura; e in un certo senso tutto ciò che cerca di nasconderlo, sia per mezzo di un surrogato del passato sia per mezzo di una sorta di esorcismo - che è ciò che la modernità sta facendo - è ugualmente inaccettabile. Inoltre credo che neanche l’imponente produzione di monumenti funzionerà, perché fa parte di un “esorcismo ufficiale”.
HUO:
Il monumento di Christian Boltanski è molto interessante (The Missing House, 1990): avendo scoperto che in un condominio di Grosshamburger Strasse, a Berlino, distrutto dai bombardamenti aerei nel febbraio 1945, tutti gli antichi abitanti erano ebrei, costruì al posto di quell’edificio uno spazio commemorativo dedicato all’”assenza”. Dei cartelli indicano i nomi dei condomini e l’appartamento che approssimativamente abitavano all’interno del palazzo, le loro date di nascita e morte, le loro occupazioni, la loro appartenenza a classi sociali diverse. È una sorta di antimonumento.
RK:
Sì.
HUO:
E a proposito delle relazioni e degli scambi tra Est e Ovest? Nel mondo dell’arte è rarissimo lo scambio tra Berlino e Varsavia, tra Berlino e Praga… E questa mancanza di contatti è ancora più evidente a Vienna, dove nella testa della gente esiste ancora un muro che la tiene separata da Bratislava, che pure è soltanto a mezz’ora di distanza.
RK:
Penso che abbia a che fare con l’intera questione dell’errore di interpretazione: il singolo fraintendimento che ha una serie di sottofraintendimenti. L’idea dell’incontro tra Est e Ovest è ancora basata sulla differenza; quello che gli occidentali non capiscono è che non esiste alcuna differenza: si considerano una stazione commerciale progredita. Quando andai a Berlino per la prima volta, una cosa che mi risultava incomprensibile è il fatto che la parte occidentale della città fosse una sorta di satellite nel mezzo della Germania dell’Est, e che quella condizione di essere nel mezzo di un’altra condizione fosse una realtà che non accettavano completamente, e continuano a non accettare. Se si lavora su questo aspetto e lo si osserva in un contesto architettonico, c’è un gruppo di lavori che bisognerebbe considerare: un’operazione architettonica realizzata da Oswald Mathias Ungers quando insegnava alla Technische Universität di Berlino negli anni Sessanta. Utilizzò Berlino come un laboratorio e disse: “Questa è una situazione unica di una città che è completamente isolata e completamente artificiale, e che perciò presenta una condizione nuova, quindi la trasformerò in un laboratorio”. Studiò sistematicamente le condizioni di Berlino analizzando la presenza di frammenti di storia, ma anche di aspetti contemporanei, con una dimensione molto utopistica e futuristica. Come docente universitario organizzò una serie di seminari sulla progettazione, che ogni volta ponevano il quesito di come le componenti storiche potessero coesistere con quelle contemporanee, e di come i nuovi numeri e i nuovi programmi potessero coesistere con i fattori storici. Per esempio dedicò un anno alle autostrade e alle piazze o all’edilizia abitativa di massa e alla Porta di Brandeburgo; progettò una bellissima soluzione per ricostruire Leipziger Platz in forme completamente contemporanee. Questi aspetti rappresentano una sorta di terreno nascosto. Personaggi come Jürgen Sawade e Kollhoff, che sono ora tra i più importanti architetti prussiani, erano anch’essi molto coinvolti nel progetto, il che testimonia un’interessante contraddizione. C’è una specie di modernità latente in questa situazione, che era evidente nel progetto di Kollhoff per Potsdamer Platz; perciò il linguaggio dell’architettura era sorpassato, ma la concezione dell’architettura, dell’urbanistica, era molto contemporanea.
HUO:
Per tornare al saggio pubblicato in S, M, L, XL, lei scrive che Berlino ruota tutta attorno alla memoria, alla perdita e al vuoto. Questo è ovviamente un aspetto che Libeskind ha messo molto in evidenza, per esempio nel tenere vuoto il centro del suo edificio.
RK:
Il Muro di Berlino come architettura fu per me la prima spettacolare rivelazione architettonica di come l’assenza possa essere più forte della presenza. Per me non si tratta di una manifestazione necessariamente connessa alla perdita in senso metafisico, ma più a una questione di efficienza: penso che l’aspetto straordinario di Berlino consista nell’avermi mostrato come presenze urbane interamente scomparse o entità architettoniche completamente cancellate generino comunque quella che può essere definita una condizione urbana, e questa idea rappresenta la mia personale campagna contro l’architettura. Non è una coincidenza, per esempio, che il centro di Shenzhen non sia una realtà edificata, ma un conglomerato di campi da golf e parchi attrezzati, realtà praticamente prive di edifici o vuote. E perfino dieci anni fa la bellezza di Berlino risiedeva in questo, ovvero nel suo essere la città europea più contemporanea e d’avanguardia per via di queste sue vaste aree di non-essere.
HUO:
Approdare a Berlino fu bellissimo, con tutti questi interstizi e vuoti nel tessuto urbano.
RK:
Non solo fu bellissimo, ma aveva anche un potenziale programmatico, e il potenziale di abitare una città in maniera diversa rappresentava una forza più unica che rara. Ovviamente l’ironia non sta solo nel fatto che la tipologia di architettura che viene realizzata non sia quella giusta, ma nel fatto stesso che venga realizzata. Berlino avrebbe potuto vivere con il suo vuoto ed essere la prima città europea a coltivare il vuoto sistematicamente, come Rotterdam, che contiene molti spazi interstiziali. Per Libeskind il vuoto è una perdita che può essere riempita o rimpiazzata dall’architettura; per me invece la cosa importante non è sostituirla, ma coltivarla. Berlino è una città postarchitettonica, che ora sta diventando architettonica: per me si tratta di un dramma, non di un semplice errore stilistico.
HUO:
Quindi non è una questione di qualità dell’architettura che viene realizzata.
RK:
Né di estetica.
HUO:
Quello che è successo a Berlino è che questo programma urbanistico ha avuto luogo senza alcun coinvolgimento da parte delle diverse comunità. Recentemente ho avuto una conversazione a Tokyo con Itsuko Hasegawa, che pensa che in una città si dovrebbe procedere in modo partecipativo, in modo che gli utenti degli edifici possano quasi dire: “Questa è stata una mia idea”. Molti artisti contemporanei oggi lavorano su questo tema della partecipazione: una critica che si sente piuttosto di frequente a Berlino è che la città avrebbe potuto essere costruita con il coinvolgimento della gente. Lei cosa ne pensa?
RK:
È una domanda molto complessa, perché se si chiede in giro e si fa una vera inchiesta, penso che la ricostruzione che è in atto ora riscuota molti favori, in quanto l’attuale mitologia del ritornare a una concezione tradizionale delle piazze e delle vie potrebbe corrispondere a un principio molto populista. Le altre condizioni dell’abitare il vuoto o del vivere con delle cicatrici, accettare le dilaganti e manifeste opposizioni tra Est e Ovest e sopportare un’estetica che esprima questo dolore sono molto più difficili da afferrare. Nel suo complesso la difficoltà della partecipazione alla creazione architettonica è assolutamente ambigua; per esempio, la casa di Bordeaux (1996-98) potrebbe essere definita da una parte architettura estrema, dall’altra partecipazione estrema.
HUO:
Perché tra le due posizioni c’è un dialogo molto forte.
RK:
Sì, e perciò la partecipazione non è necessariamente intesa a far sì che la gente possa dire: “Questa è una mia idea, questa è una tua idea”, ma al contrario a creare una situazione in cui diventi impossibile dire di chi sia veramente l’idea, se dell’architetto o dell’utente.
HUO:
Quindi è una sorta di ping-pong?
RK:
Non per forza. Serve piuttosto a immaginare un processo in cui l’intelligenza altrui venga mobilitata. Ma questo non è inteso a stabilire un dogma in base a delle presunte preferenze, che ritengo sia invece quello che sta succedendo.
HUO:
Mi direbbe come è arrivato all’idea di costruire la casa di Bordeaux per la famiglia Lemoine con un ascensore-piattaforma mobile?
RK:
Si trattava di una casa per una persona che a metà della propria vita è diventata disabile e che, in maniera piuttosto interessante, è molto coraggiosa e accetta quella condizione senza inibizioni. Perciò risultò stimolante pensare a una casa che non solo rispondesse a quel problema ma ne fosse quasi ispirata. Fondamentalmente ci sono due atteggiamenti nei confronti dei disabili: aiutarli riflettendo all’interno delle possibilità rimaste e costruendo secondo quella spinta che supera di gran lunga l’idea di risarcimento, oppure aiutarli in modo tale che l’intero edificio nel suo complesso faccia un passo avanti. Quindi si tratta di una costruzione che è interamente basata sulle possibilità di questa persona e non sulle sue impossibilità, e questo ha anche permesso a tutta la famiglia di vivere in quel tipo di logica.
[2]
HUO:
A quando risale la sua prima visita a Seul?
RK:
A circa sei anni fa. Stavamo lavorando per la Samsung: un’esperienza molto interessante, perché nella prima fase del progetto lavoravamo con un chaebol (un conglomerato di molte aziende) nella sua forma più megalomane, davvero follemente megalomane. Penso che in quel momento stessero realizzando seicento progetti architettonici, e questo significava che c’era un incredibile traffico di architetti internazionali che non erano a conoscenza gli uni degli altri, non sapevano che altri erano lì a lavorare per lo stesso cliente, né sapevano che cosa questi altri stessero facendo. Quindi era una sorta di concorso architettonico particolarmente sgradevole, ed eravamo sempre circondati da schiere di assistenti alla direzione e via dicendo. E la cosa più buffa è che stavamo realizzando una sorta di museo, noi, Mario Botta e Jean Nouvel: una combinazione che non era stata escogitata da noi ma da qualcuno vicino al presidente, per cui il presidente e sua moglie se ne interessarono in maniera particolare. A un certo punto dovevo spiegare il progetto al presidente e aspettavo all’Hotel Shilla - un albergo eccezionale, con un livello di efficienza delle attrezzature e delle prestazioni veramente incredibile, che è come essere in un sogno per come servizi e comfort prevengono i tuoi bisogni - comunque, stavo aspettando, quando all’improvviso, alle quattro del mattino, qualcuno bussò alla mia porta. Erano i soliti dirigenti della Samsung che mi dissero: “Deve vedere il presidente adesso”; e io domandai: “Perché a quest’ora?”… Era il primo incontro. Loro risposero: “Deve vederlo ora perché questa mattina alle nove verrà arrestato!”. Perciò andai. L’incontro, che fu molto tranquillo, durò dalle sei alle otto, e in quelle due ore il presidente mi spiegò tutta la situazione. Ma ovviamente quello era anche il primo segnale del fatto che le cose erano destinate a cambiare: in un certo senso era l’inizio della crisi, di quando si cominciò ad affrontare tutta la corruzione endemica, svelando così la fragilità dell’intero sistema economico che precedette il suo disfarsi. Quindi abbiamo realizzato questo progetto, davvero molto interessante: dovevamo creare un legame con le diverse concezioni di Jean Nouvel e Mario Botta che lo avevano iniziato. Il nostro intervento è per lo più sottoterra; consiste in due volumi, su una bellissima collina, uno di quei parchi pieni di ville. Dal momento che non volevamo aggiungere un altro edificio abbiamo creato orizzontalmente un piano rettilineo, che in parte attraversa la montagna, in parte ne emerge, per cui molte delle attrezzature sono sottoterra. È stato un progetto interessante; è anche un museo e un’istituzione culturale. L’unico segno che abbiamo lasciato finora a Seul è un’enorme fossa sotterranea scavata nel granito: in un certo senso è l’edificio più bello. Ho cercato di convincerli, e forse posso ancora farcela, a lasciare la fossa, a fare qualcosa con quello spazio incredibilmente nudo, che è il più grande spazio al negativo che si sia mai visto.
HUO:
Mi direbbe che cosa le piace in modo particolare di Seul?
RK:
L’aspetto veramente interessante è che Seul è una città che si è trovata a esistere in un luogo in cui non può realmente esserci una città: non c’è spazio per una città lì. Quindi è come se la metropoli fosse stata costruita in mezzo alle montagne: una città che deve coesistere con montagne e splendide foreste, una sorta di “Manhattan sulle Alpi”. La classe media vive nelle zone pianeggianti, mentre i ricchissimi e i poverissimi vivono sulle colline; e per tutta la città ci sono resti sparsi di questo progetto metabolista: mi piace semplicemente la velocità con cui si espande. Penso che i coreani siano i più diretti tra gli asiatici; sono molto aperti e schietti, non sono prigionieri delle belle maniere e hanno un grande senso dell’umorismo.
HUO:
E gli schermi? Le piacciono quei grandi schermi?
RK:
Penso che da lontano siano belli; dalle colline si vedono questi schermi tremolanti.
HUO:
Ha accennato al fatto che, quando ci è tornato per la prima volta dopo la crisi economica, Seul era improvvisamente diventata una città completamente diversa, che in pochi giorni si era trasformata totalmente…
RK:
Sì, in un certo senso sembra che il futuro si stia accorciando telescopicamente, e questo aggrava l’incapacità che ho sempre avuto di concettualizzarlo come tale. Il futuro si sta restringendo fino al punto che non solo non si può più predire che cosa succederà tra cinque o dieci anni, ma l’accelerazione che investe ogni cosa sembra rendere anche il mese prossimo completamente imperscrutabile e imprevedibile. E uno dei segni più forti di questo tipo di accelerazione si evidenzia nella crisi asiatica, e in come questa crisi abbia avuto un impatto immediato sulle condizioni urbane: nonostante a volte durassero solo qualche anno, risultavano comunque un periodo sufficiente a far apparire gli sfavillanti prodotti nuovi di zecca del miracolo economico asiatico. Città che si innalzano verso il cielo, che esplodono, e poi un arresto improvviso. In seguito, mentre tutti scrivevano del collasso, si verificò già una sorta di rinascita, e ora si assiste a un apparente recupero di forza. E tutto questo ciclo era in un certo senso un assoluto mistero per gli occidentali, perché nessuno qui ne afferrava la velocità, né è ancora oggi in grado di spiegare perché sia successo. La mia teoria è che la Cina, evitando il fallimento e la svalutazione della sua moneta, abbia salvato il mondo capitalista e che, in maniera estremamente paradossale, il sistema comunista alla fine sia venuto in soccorso del sistema capitalista. È qualcosa di cui non si legge mai. La mia più precisa dimostrazione di questo è che Seul, una città nota per il suo traffico incessante, nel mezzo della crisi è improvvisamente diventata una città misteriosamente silenziosa, senza traffico: una città senza inquinamento. E forse è stato allora che mi sono finalmente accorto che Seul è una specie di Svizzera, davvero bellissima.
HUO:
In precedenti interviste e scritti lei ha sempre dichiarato di disprezzare le previsioni di città futuristiche e di preferire piuttosto parlare delle condizioni presenti.
RK:
Penso che chiunque abbia un po’ di buon senso dovrebbe rinunciarvi: tutto quello che si può sperare di avere oggi è una qualche cognizione delle decisioni quotidiane. Un altro esempio, non così estremo come quello dell’Asia, riguarda Seattle, dove siamo stati impegnati per circa un anno, e in quel lasso di tempo nella città si sono verificati importanti sconvolgimenti che l’hanno messa in crisi. Da realtà perfetta e senza problemi è diventata una città inquieta e ansiosa, in cui hanno avuto luogo anche le prime imponenti manifestazioni anticapitalistiche dopo il New Deal, traumatizzanti per l’intero governo; senza contare il fatto che fino a nove mesi fa Microsoft era un’entità monopolistica perfettamente solida e potente, mentre ora la sua crisi è stata dichiarata e la società sta per essere divisa, e Bill Gates, da quel mito assoluto che era, ora non è più amministratore delegato, ma presidente. Tutti questi eventi sono un’eccellente dimostrazione di come non esistano certezze su cui si possa contare. E la cosa interessante è che i clienti stanno cercando di superare scaltramente questa situazione facendo accelerare sempre più il passo all’architettura. Le costruzioni che un tempo dovevamo realizzare in due anni ora dobbiamo completarle in uno; in questo senso, documentare attraverso la nostra ricerca di Harvard con quanta velocità l’architettura possa essere prodotta è stata una buona intuizione. Ma a quel tempo, quando scoprii che a Shenzhen degli edifici erano stati progettati in due pomeriggi con un personal computer, non mi sarei mai potuto immaginare che due o tre anni dopo ci saremmo ritrovati nella stessa posizione. Ma ci siamo; e nonostante questo ci accorgiamo che non siamo abbastanza veloci, o che l’architettura non potrà mai esserlo.
HUO:
Questo influenza la durata della vita degli edifici?
RK:
Questa è una questione molto interessante. Nel progetto urbanistico che realizzammo a Parigi per la Défense considerammo teoricamente obsoleto e pronto per essere demolito tutto ciò che aveva più di venticinque anni, in modo tale che si potesse successivamente costruire una nuova città nello stesso luogo di quella vecchia. A quel tempo l’idea fu considerata totalmente infondata e oltraggiosa. Recentemente ho dovuto fare una presentazione per la stazione di Rotterdam, dove transiteranno dei treni TGV ad altissima velocità, e di nuovo ho lanciato la proposta che dopo venticinque anni gli edifici possano essere semplicemente dichiarati superflui per via della loro mediocrità: questa volta la reazione è stata una sorta di risata nervosa trattenuta a malapena. La durata limitata della vita degli edifici è ancora un terreno pieno di insidie e un vero tabù in Europa.
HUO:
E in America?
RK:
In America si può dire che questa teoria sia in molti casi vera solo a posteriori, ma non la si può mai prendere come base della produzione architettonica fin dall’inizio. E questo è davvero un peccato, perché penso che un’enorme quantità di energia potrebbe essere liberata se si potesse essere più indipendenti rispetto alla vita di un edificio e, implicitamente, del contesto. Tuttavia, ovviamente ci contraddiciamo quando realizziamo un edificio pubblico e non lo progettiamo come se dovesse scomparire tra venticinque anni. Ma ci sarebbero meno pressioni se fosse automaticamente prestabilito che un edificio esisterà per venticinque anni al massimo.
HUO:
Qual è il rapporto tra lentezza e velocità?
RK:
Continua a esserci una tensione molto forte. In tal senso è molto affascinante vedere come questa architettura “intermedia” sia adesso così in voga nonostante possieda una specie di innata resistenza a seguire completamente la tendenza attuale, orientata all’accelerazione. Il fatto che l’architettura possa accelerare ma abbia allo stesso tempo una sorta di intima resistenza - probabilmente più della televisione, del cinema o della musica - potrebbe rappresentare un vero rompicapo per l’architettura, e forse questo è il motivo per cui oggi è così interessante. Ma significa anche che ci siamo accorti che l’architettura non potrà mai raggiungere determinate velocità, e questa scoperta ci spinge in un’altra sfera, dove lo stesso tipo di pensiero deve ora essere utilizzato in modo molto più concettuale, teoretico e incorporeo.
HUO:
Ha fatto cenno al progetto dell’OMA (Office for Metropolitan Achitecture) per la biblioteca di Seattle (1999). Penso che ci sia una certa relazione tra il concetto di museo e quello di biblioteca, essendo entrambe delle istituzioni molto conservatrici, e anche moralistiche. L’idea di energizzare queste istituzioni evoca esempi degli anni Sessanta: per esempio il Fun Palace (1960-74) di Cedric Price, o il modo in cui Willem Sandberg ha diretto lo Stedelijk Museum di Amsterdam. Questo fa parte anche della sua storia personale?
RK:
Il momento in cui ho scoperto l’arte in modo indipendente - praticamente da adolescente - ha coinciso con il “regime” di Sandberg, sotto la cui dirigenza i progetti delle esposizioni ogni volta trasformavano completamente il museo: “Dylab (Dynamic Labyrinth)” (Stedelijk Museum, Amsterdam, 1962) sarebbe ancora un titolo profetico. Tutte quelle mostre rappresentavano il tipo di esposizione che mi permise di essere più moderno dei miei genitori, e che quindi in un certo senso mi indottrinò. Penso che questi esempi abbiano avuto una grande influenza sui miei progetti per musei. Ma allo stesso tempo, il museo era un luogo molto esigente, anche negli anni Sessanta, nel senso che insisteva sulla partecipazione e presentava i temi con una certa aggressività. La grande differenza tra oggi e gli anni Sessanta non consiste solo nel fatto che questo tipo di aggressione o quelle esigenze manchino nelle presentazioni, ma anche nel fatto che i meri numeri stiano drasticamente modificando l’intera equazione, limitando le cose che si possono dire e fare in un museo. Uno degli aspetti dei nostri progetti per la Tate Modern o per il MoMA [Tate Modern, Londra, concorso 1994; MoMA, New York, concorso 1997], che non è piaciuto a nessun curatore, era l’idea di creare una traiettoria turistica a percorso veloce, una sorta di scorciatoia che permettesse anche il ritorno della lentezza o dell’intensità. In assenza di un sistema a due velocità, le esperienze dei musei si sono accelerate per tutti: lo si può notare con le nuove installazioni alla Tate Modern, basate non sull’accumulazione ma sulla giustapposizione, in cui le griglie di Gilbert & George stanno accanto a Mondrian, un veloce “Ah!” e poi si passa al prossimo “abbinamento”, in una modalità di percorso breve contraria alla complessità. Penso che questo valga ugualmente anche per le biblioteche. Al di là di tutti i tipi di ideologie che si possano avere - lanciare, ripetere o rinnovare -, la semplice questione dei numeri deve essere incorporata nell’ideazione o nello sviluppo di ciascuno di questi progetti. Lei fa spesso riferimento alla bellissima epoca del MoMa, “gli anni del laboratorio”: è stata un’epoca straordinaria, ma non penso che possa esistere un laboratorio che venga visitato da due milioni di persone all’anno. E questo è il motivo per cui, sia nelle nostre biblioteche che nei nostri musei, quello che stiamo cercando di fare è organizzare la coesistenza di esperienze che facciano quasi vivere il rumore urbano, ed esperienze che permettano la concentrazione e la lentezza. Per me è questo il modo di pensare più stimolante, oggi: capire l’incredibile capitolazione davanti alla futilità, e come essa possa essere compatibile anche con la seduzione della concentrazione e della calma. Il problema delle masse di visitatori e l’esperienza cruciale della calma e dell’essere insieme all’opera sono gli aspetti in discussione nel progetto di Seattle.
HUO:
Richard Hamilton ha recentemente realizzato un’opera testuale formato tessera con su scritto “Dammi l’hard copy”; di fatto si tratta di un pezzo tratto da Blade Runner, il film di Ridley Scott (1982). Di conseguenza, l’idea è che il museo fornisca l’”hard copy”, ma anche la biblioteca lo fa. Perciò mi chiedo come lei interpreti il ruolo del museo e della biblioteca in termini di condizioni del sistema. Come vede la relazione tra il reale e il virtuale? Come evita le gerarchie tra biblioteche reali e biblioteche virtuali diverse?
RK:
Penso che tale questione sia molto interessante, perché a Seattle c’è un sistema formato da ventiquattro biblioteche e quella di cui ci stiamo occupando è l’istituzione centrale. Perciò questa è di per sé una posizione gerarchica, che presuppone che il principale corpo amministrativo sia nella biblioteca centrale. Quindi qui c’è tutta la storia del centralismo con le sue abituali procedure; ma ovviamente questa situazione è interamente attraversata da una rete che sta per essere resa ancora più capillare. Ciò che trovo affascinante è che recentemente si stia facendo molto lavoro, soprattutto da parte di persone come Judith Donath, del MIT, che guardano a Internet - ma anche a diversi tipi di database - come a potenziali fonti per dare vita a nuove comunità. Il paradosso è che sulla base delle condizioni del sistema, che si suppone diventino via via più democratiche, si possano ovviamente creare nuove gerarchie; e attualmente la domanda latente, e quasi limite, è: “Il sistema richiede omogeneità?”, o “Il sistema richiede democrazia?”, oppure “Il sistema richiede segretezza?”. Il discorso sui sistemi ha sempre creato disturbo alla distribuzione universale, ma non vedo la ragione di base per cui questo dovrebbe accadere, per cui il suo potenziale opposto non dovrebbe essere investigato. Quando la biblioteca sarà in grado di collegare, per esempio, tutti i dati generati dai lettori - chi legge e quali libri - allora quello rappresenterà un modo incredibile di modernizzare la loro funzione.
HUO:
E a quel punto, la biblioteca diventa un mezzo per guidare le scelte delle persone rispetto a quello che leggono.
RK:
Sì, ma c’è il problema della segretezza; e lo stesso vale per il museo. Ecco perché ieri dicevo che è la fine non solo del futuro, ma anche della privacy. C’è un intero contenitore, come un serbatoio, e si percepisce che le pareti stanno cedendo e che si verrà semplicemente trascinati via con quanto contiene. E per quel che riguarda la questione dell’appiattimento della gerarchia o del valore, Internet non deve solamente appiattire il valore, ma può anche essere usato per creare valore: si può diffondere l’ottanta per cento dei dati, rendere il successivo dieci per cento molto difficile da trovare e il successivo cinque per cento ancora più difficile, e poi avere un nocciolo del due per cento, che rappresenta l’equivalente dei libri rari: l’informazione rara.
HUO:
Che cosa contrappone esattamente all’appiattimento?
RK:
Invece di appiattire, si può creare valore. E l’atteggiamento difensivo non si manifesta solo da parte dei direttori, ma risiede anche nella sfera ripugnante dell’arte pubblica, che non è quasi mai niente di diverso dal rafforzamento nostalgico di una sfera abbandonata, o dalla sua compensazione, e perciò è raramente in grado di convincere altri che se stessa. E se mi domanda delle città che invecchiano, il contesto della città non è più un contesto fisico; eppure, quando parliamo e pensiamo al contesto, per abitudine pensiamo ancora alla massa.
HUO:
La lettura sarà una funzione tra altre funzioni?
RK:
Sì, anche se non si tratta veramente di un’interferenza. Dal momento che l’aspetto della lettura è solo uno dei progressi nella biblioteca, speriamo che ciò che stiamo realizzando crei dello spazio in cui i progressi possano avere luogo; lo abbiamo sempre fatto. Abbiamo sempre notato che, alla resa dei conti, non c’è nessuno che gestisca questi programmi, nessuno che concettualizzi quei tipi di attività, anche se gli edifici in sé potrebbero accoglierli incredibilmente bene. Ecco perché sosteniamo con molta foga che sia molto importante che qualcuno si occupi di quel tipo di pensiero. Ma la cosa tragica è che nelle biblioteche c’è ancora una guerra pazzesca tra parole e immagini, anche se nel mondo esterno questo contrasto è stato completamente superato.
HUO:
Mi stavo domandando se lei potesse dirmi di più di queste diverse piattaforme. È un’idea molto deleuziana, un’idea a “mille piani”, perché sono veramente delle piattaforme ad alta connettività.
RK:
Dal momento che i dipartimenti sono molto specifici, dobbiamo indirizzare la loro specificità in maniera precisa. Ma ovviamente speriamo anche che accada più di quanto è definito nel programma: perciò tra le piattaforme ci sono le aree pubbliche che, essendo meno contenute, hanno spazio per svilupparsi. Nell’architettura civile, come in fisica, la pressione tra due superfici dense può di per sé creare un’enorme tensione, e programmare quelle superfici può anche scatenare degli eventi nella zona intermedia. Noi cerchiamo di far interagire il pavimento con il soffitto, in modo tale che si possano vedere nubi di colore ma anche di informazioni; uno spettacolo estetico, per cui si potrebbe invitare la gente a venire tutta insieme in un certo momento, oppure sparpagliarla in diverse direzioni. Perciò in questo senso stiamo diventando più ambiziosi relativamente alla registrazione di quei problemi anche in architettura.
HUO:
Questo significa che le diverse sezioni non diventeranno dei ghetti, ma ci sarà piuttosto uno scambio interdisciplinare?
RK:
Tutto il progetto tentava di scardinare questa divisione in dipartimenti, dove su un piano c’è una cosa, su un altro ce n’è un’altra. Stiamo riorganizzando tutto.
HUO:
Ma ci sono ancora quattro sezioni principali?
RK:
Non veramente “principali”: si è creata una spirale continua di argomenti attraverso cui si viaggia. Non la vedo come una reale suddivisione, è più quello che i francesi chiamano mise en relation, un’espressione che non esiste in inglese, o che forse si potrebbe tradurre come continuous exposure, esposizione continua.
HUO:
Quest’intervista è iniziata con la città, poi siamo passati a Seattle, e nello specifico alla biblioteca: lei ha parlato della connettività, dell’iperconnettività all’interno dell’edificio. L’ultima volta che ho intervistato Peter Smithson gli ho chiesto come veda la situazione della città di oggi. Ecco cosa mi ha risposto: “Penso che il punto critico su cui si debba lavorare adesso sia lo spazio che è in mezzo. La maggior parte del mondo fuori è un incubo. Lo scorso inverno ho lavorato a Montreal, e il paesaggio del viaggio in macchina dall’aeroporto internazionale alla città era una fabbrica dopo l’altra, un gruppo di abitazioni… È incredibile; ed è accaduto così velocemente: in vent’anni una generazione ha quasi annientato la nozione di architettura. Ma non c’è alcun senso del collettivo, dello spazio intermedio: tutti gli edifici sono costruiti come se esistessero da soli”. Condivide questa opinione? Non è così anche in Olanda?
RK:
Vediamo che c’è un’incredibile disfunzionalità relativamente alle connessioni. Ci interessa davvero molto lavorare e riflettere sul livello metastrutturale o infrastrutturale, su concetti per migliorare le condizioni. Ieri sera Fernando Romero ci ha messo due ore e mezzo per andare da Amsterdam a Rotterdam con i mezzi pubblici, in treno. Ha fatto tutte le cose socialmente giuste: è andato alla stazione a piedi, ha preso il treno e il tram. Quindi c’è questa specie di follia per cui, se si prendono i mezzi pubblici comportandosi come si dovrebbe, ci si mette tre volte tanto che ad andare in macchina. Ecco perché tutti prendono la macchina, ed ecco perché anche andare in macchina non funziona: è un circolo vizioso. La questione ci interessa davvero molto, e siamo anche bravi a progettare interventi e soluzioni, ma la difficoltà è che questo è un problema a livello di politica, e quello è il livello più duro in cui inserirsi; e anche se ci si riesce, si è destinati a essere ben presto etichettati o come dei visionari, che hanno fantasie interessanti ma non pertinenti, o come dei seccatori, o come dei megalomani. Penso che in Peter Smithson e nel Team 10 ci sia qualcosa di toccante: erano ossessionati dalla concettualizzazione di nuovi tipi e famiglie di connessioni. Il mio atteggiamento nei confronti del loro lascito, del loro effetto, è al contempo più cinico e più ottimistico, perché penso che, in larga misura, le cose si connettano nonostante gli sforzi dell’architetto. C’è un uso incredibile di infrastrutture o architetture di connessione, soprattutto in questo secolo: tutte le rampe, gli attraversamenti autostradali, i passaggi pedonali eccetera; e quello che mi viene istintivamente da pensare è che intralcino proprio il tipo di comunicazione che dovrebbero generare. A Lagos, le connessioni proliferano malgrado le infrastrutture, o i vicoli ciechi, cioè il fallimento delle infrastrutture. Questo è uno degli aspetti tipici della professione: combattere un’azione di retroguardia, perché nega tutte le connessioni che sono già vigenti in uno spazio apparentemente perso o residuo. E l’aspetto per me significativo è che quelle parti autonome possano ora esistere perché ci sono dei resti di invisibili connessioni, che quelle invisibili connessioni abbiano in qualche modo bisogno dell’architettura, e che quel tipo di architettura tragga probabilmente beneficio da una relazione con l’architettura vera. Ecco perché ci interessa quel tipo di realtà virtuale: perché permette di concettualizzare qualcosa senza che si sia esperti in informatica o in animazione al computer.
HUO:
Mi parlerebbe del suo progetto interdisciplinare per la Harvard University?
RK:
Harvard è una scuola di architettura, di paesaggio e di progettazione, in cui persone brillanti e più o meno autonome e indipendenti sono sia insegnanti che studenti. L’elemento significativo è che questi gruppi hanno il permesso di nominare nuove persone: quindi, nel complesso, i partecipanti sono sempre nominati in conformità con ciò che questi campi rappresentano. L’architettura ha perso determinate capacità, che sono state acquisite dal paesaggio. Sarebbe interessante unire questi residui e quello che abbiamo chiamato “quarta cosa”. È più una cosa che uno spazio, e per dichiarare che questo è il terreno perfetto per partecipare a una ridefinizione. Se all’interno di una scuola come Harvard si consultassero tutte le persone marginali, si avrebbe ovviamente una sorta di governo in esilio, una specie di Harvard esiliata, ma si scoprirebbe anche - e questo diventerebbe sempre più ovvio - che quelle persone hanno un’intelligenza che non può più essere inserita completamente in una forma data. Quindi non si tratta veramente di interdisciplinarità di per sé, ma piuttosto del potere degli emarginati.
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HUO:
Quando lei fu contattato per la prima volta dalla Hayward Gallery per realizzare un progetto per l’allestimento della mostra “Cities on the Move”, la sua proposta era di riciclare progetti formulati da altri architetti per recenti esposizioni nella galleria, piuttosto che produrre uno schema singolo e uniforme.
RK:
Ho sempre cercato di seguire un principio di economia nel produrre immaginazione. Il Merzbau di Schwitters (1924-32) era un’accumulo di frammenti urbani che fu riassemblato numerose volte. Qui, Ole Scheeren e io abbiamo inizialmente cercato di accumulare precedenti progetti della galleria, e successivamente di riassemblarli con un procedimento simile a quello dell’urbanistica. Ho pensato che sarebbe stato interessante se l’esposizione avesse rivelato diversi aspetti della galleria Hayward, soprattutto perché l’esistenza di questo edificio è attualmente messa in questione.
HUO:
Lei si è trasferito a Londra nell’anno in cui la Hayward aprì, nel 1968.
RK:
Sì, attirato da persone come Peter Cook e Cedric Price e dall’idea della scena architettonica londinese come una sorta di vasto circolo.
HUO:
Si ricorda l’inaugurazione della galleria Hayward?
RK:
Sì, certamente. Fu l’Evento con la “E” maiuscola, e negli anni in cui ho vissuto qui ho attraversato tutti i suoi momenti di declino, le sue cadute e le sue resurrezioni. Penso che sia uno spazio straordinariamente vitale e generoso, soprattutto perché non si è mai conformato a nessuna aspettativa o modello di come dovrebbe essere uno spazio espositivo. Anche se tutti si lamentano della Hayward, ritengo che vi si siano state organizzate alcune delle mostre più belle ed estreme che io abbia mai visto.
HUO:
Al Lousiana Museum, dove la mostra ha avuto luogo prima di passare alla Hayward, abbiamo collocato l’esposizione in diverse tipologie di città, seguendo i moltissimi spazi interconnessi dell’architettura dell’edificio (”Cities on the Move”, Louisiana Museum for Moderne Kunst, Humlebæk, 1999). Lei ha deciso di non adottare questa forma alla Hayward Gallery.
RK:
Mi preoccupava la dispersione; la Hayward non ha così tante aree diverse da permettere di dividere l’esposizione in molte tipologie di città, e volevo che determinati punti principali fossero evidenti. Ho pensato che dovevamo vedere se potevamo comprimere la mostra in quattro o cinque città, dando l’impressione di un’introduzione e creando una sorta di camera di compressione che dica al visitatore che sta per entrare in un continente in completo sovvertimento e scompiglio. Quindi, in base all’idea di riciclare gli allestimenti delle precedenti mostre tenute alla Hayward, ciò che abbiamo fatto è consistito nel tenere la struttura di base dell’esposizione dedicata a Patrick Caulfield (1999), e nell’aggiungere molti degli oggetti che Zaha Hadid ha progettato per “Addressing the Century: 100 Years of Art & Fashion” (1999). Abbiamo usato lo stesso circuito della mostra di Caulfield, ma lo abbiamo modificato in modo tale che quando si entra ci sia una grande freccia che indica da che parte dirigersi, ma c’è anche un passaggio più piccolo che porta al quartiere a luci rosse. Daremo spazio alla novità, come le costruzioni aeroportuali, ma anche alla decadenza, al sesso e alla droga, come in una città vera.
HUO:
Pensa che al momento nella mostra non ci sia abbastanza sesso?
RK:
Sì, ce n’è pochissimo; voglio dire, considerato il fatto che c’è un’enorme diffusione del turismo sessuale e che il sesso è una delle più importanti forme di transazione tra persone nelle città, la mostra com’è finora sembra quasi ignorare questo fattore. Il problema è rappresentarlo senza esotismo, il che è sempre difficile per via della reticenza a parlarne che c’è in Asia. Penso che questo sia veramente un punto critico…
HUO:
E gli architetti?
RK:
Quello degli architetti è un problema complesso, perché è difficile capire come trattare un fenomeno così esplosivo che sembra fiorire al di là dei singoli professionisti. Come connettersi a questo tema? Tireremo dentro l’architettura tutta insieme, in una stanza sterile a essa dedicata…
HUO:
Una camera della tortura dell’architettura?
RK:
Anche i miei progetti ci finiranno…
HUO:
Quindi non c’è nessun giudizio di valore?
RK:
No, nessun giudizio di valore, e penso che questo permetterà che i lavori si contaminino l’un l’altro in maniera interessante.
HUO:
Ci saranno altri cambiamenti al pianoterra, rispetto all’architettura della mostra di Caulfield?
RK:
Creeremo una sorta di paesaggio della strada con i plinti di Zaha Hadid, trasformandoli in costruzioni video e vetrine per icone, così che una stanza diventerà una specie di viale monumentale. Creeremo una galleria nel corridoio che circonda la rampa, inseriremo dei video e tappezzeremo le pareti con le fotografie delle installazioni di Armin Linke. In alto ci sarà il dragone bicicletta-automobile di Chen Zhen.
HUO:
Passiamo all’ultimo piano.
RK:
Sarà un’”area commerciale”: posizioneremo dei proiettori sulle scale e useremo un’altra delle grandi vetrine di Zaha per creare un cinema. Poi ci sarà una zona con degli oggetti in vendita che ci mostreranno come anche il cinema lì vicino sia commerciale. E poi lo spazio si chiuderà con una protesta politica in cui vengono tirate delle uova.
HUO:
Accennava all’idea della carta da parati urbana.
RK:
Tutte le pareti del primo piano dovrebbero essere ricoperte di carta da parati che rappresenta immagini e realtà urbane; non ci saranno parole, fatta eccezione per qualche prima pagina di quotidiano qua e là. La carta da parati è uno sfondo, una presenza grigia che appare ovunque, quasi opprimente, perché questo è ciò che le città sono veramente: un incubo in un certo senso, un eccesso. Eccesso urbano dentro la Hayward Gallery.
Rem Koolhaas è nato a Rotterdam nel 1944. Ha vissuto in Indonesia dal 1952 al 1956 e ha lavorato come giornalista per l’”Haagse Post” e come sceneggiatore cinematografico, prima di trasferirsi a Londra per studiare architettura all’Architectural Association School. A questo periodo risalgono due progetti teorici: “The Berlin Wall as Architecture” (Il Muro di Berlino come architettura, 1970) ed “Exodus, or the Voluntary Prisoners of Architecture” (Esodo, o i prigionieri volontari dell’architettura, 1972). Nel 1972, grazie a una borsa di studio, ha potuto trascorrere un periodo negli Stati Uniti, dove, influenzato dal fascino che New York esercitava su di lui, ha avviato un’analisi dell’impatto della cultura metropolitana sull’architettura, riflessione sfociata nella pubblicazione, nel 1978, di Delirious New York. Un manifesto retroattivo per Manhattan (2000). In questa fase del suo percorso, desiderando passare dalla teoria all’applicazione pratica, ha deciso di tornare in Europa, e nel 1975 ha fondato a Londra, insieme a Elia e Zoe Zenghelis e Madelon Vriesendrop, l’Office for Metropolitan Architecture (OMA), che si poneva l’obiettivo di definire nuove tipologie di relazioni, teoriche e pratiche, tra l’architettura e il tessuto culturale contemporaneo. Dal 1978 diversi lavori commissionatigli in Olanda, tra cui l’ampliamento del Parlamento dell’Aia, lo hanno portato ad aprire un ufficio a Rotterdam che sarebbe diventato la sede centrale delle attività dell’OMA. Allo stesso tempo ha creato la Grosztstadt Foundation, una struttura indipendente destinata a gestire gli interventi culturali dello studio, come esposizioni e pubblicazioni. Tra i progetti realizzati rientrano il Teatro della Danza dell’Aia (1987), Nexus Housing, un complesso residenziale a Fukuoka, in Giappone (1991), il museo Kunsthal di Rotterdam (1992), il master plan per Euralille e il Lille Grand Palais a Lille (1994), e il Guggenheim Hermitage Museum di Las Vegas (2001). Tra i numerosi progetti abitativi si annoverano la Villa dall’Ava a Parigi (1991) e, in Olanda, la Dutch House (1993). In anni più recenti, l’OMA ha completato la realizzazione dell’Educatorium, un complesso di aule universitarie per l’Università di Utrecht (1995) e la casa di Bordeaux (1998). Tra i progetti in corso, l’incarico per il master plan e due edifici per il Samsung Corporation Centre for Social Studies, il Museo di arte coreana e il Seoul National University Museum in Corea, i master plans per gli Universal Studios di Los Angeles, per il centro della città olandese di Almere e per Hanoi New Town, in Vietnam, l’ambasciata olandese a Berlino, il master plan per Song Do New Town a Inchon, in Corea, e il nuovo McCormick Tribune Campus Center per l’Illinois Institute of Technology di Chicago. Attualmente l’OMA è impegnato nel suo più ampio progetto: un’area di 550.000 metri quadrati destinata a nuova sede della televisione cinese e centro culturale di Pechino, il cui completamento è previsto per il 2008, in occasione dei giochi olimpici. Negli anni Novanta, insieme all’OMA ha creato una nuova organizzazione, l’AMO, dedicata esclusivamente alla ricerca e alla performance nel campo dei media. La sua attività, che si svolge in parallelo rispetto a quella dell’OMA, fornisce ai clienti i servizi complementari nell’ambito organizzativo che accompagnano lo sviluppo progettuale dell’edificio. Autore, dopo Delirious New York, di S, M, L, XL (1995), dal 1995 è docente presso la Harvard University, dove dirige una serie di progetti di ricerca per l’”Harvard Design School Project on the City”, un gruppo di ricerca, composto e animato da studenti, che esamina i diversi fattori che influiscono sul contesto urbano. I progetti recenti comprendono studi di pianificazione urbanistica: cinque città sul delta del Pearl River in Cina; “Il sistema romano”, dedicato alla città romana antica; “Shopping”, un’analisi del ruolo del consumo al dettaglio nelle città contemporanee; e “Lagos”, una ricerca sulle città africane, che focalizza l’attenzione su Lagos, capitale della Nigeria.
Hans Ulrich Obrist, Interviste, Volume I, a cura di Thomas Boutoux, Fondazione Pitti Immagine Discovery / Charta, Milano 2003, p. 524-546.
L’intervista è stata rilasciata in momenti successivi a Berlino, Seul e Londra tra il 1998 e il 2001.
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