Gianni Minà_Latinoamerica
Pubblichiamo l’editoriale di Gianni Minà, direttore della rivista “Latinoamerica”.
La redazione di Archphoto ringrazia l’autore e Loredana Macchietti per aver concesso l’utilizzo del testo
Mentre inizio a scrivere questo editoriale per il n. 81 di Latinoamerica, da due settimane, in Venezuela, uno sciopero generale, goffamente organizzato dalla Federcamaras (la Confindustria locale) o, per essere precisi, dalla maggior parte dei suoi iscritti, tenta di paralizzare il paese caraibico che si rifà a Simon Bolivar, tentando di defenestrare il tenente colonnello Hugo Chavez, confermato presidente dai cittadini solo due anni fa con una elezione democratica che gli ha assicurato il 60% dei suffragi.
I lavoratori (funzionari, impiegati, operai) sono pagati dagli imprenditori per stare a casa o organizzare manifestazioni per strada mentre quelli impegnati nell’estrazione e nella prima lavorazione del petrolio, vera e ambita ricchezza della nazione, sono esortati a bloccare gli impianti, o addirittura a danneggiarli. E questo perché il presidente, oltre ad aver varato una serie di misure sociali e anticorruzione ha osato espropriare gli enormi latifondi di quell’1% di cittadini che possiede il 60% delle terre coltivabili e, inaudito, ha fatto varare dal Parlamento una legge che sanciva come l’estrazione e la prima lavorazione del petrolio potesse essere realizzata solo da società in cui lo stato avesse almeno il 51% del capitale, alzando la tassazione sui guadagni relativi alle altre fasi di trasformazione del greggio.
Una politica che, insieme al rilancio dato all’Opec (Associazione dei paesi produttori di idrocarburi) grazie al suo attivismo (”Un barile di oro nero non può valere meno di una Coca Cola”) gli ha procurato una dichiarata antipatia da parte del governo di George Bush jr..
Il Venezuela infatti, produce il 15% di tutto il petrolio del pianeta ed è il secondo fornitore di greggio degli Stati Uniti. In prospettiva della imminente e insensata guerra all’Iraq, è chiaro dunque che il paese di Chavez sia diventato di interesse strategico per il governo di Washington.
Così, nelle manifestazioni e negli scioperi pilotati che durano da tempo, malgrado il popolo venezuelano nella maggioranza, abbia respinto lo sconsiderato invito alla sollevazione delle televisioni private, tutte in mano agli imprenditori della Federcamaras, si sente, inquietante, la mano degli Stati Uniti in spregio di tutte le conclamate dichiarazioni sul rispetto dovuto alle scelte autonome dei popoli.
E’ agghiacciante, per esempio, la dichiarazione resa recentemente da Otto Reich, inviato speciale per l’emisfero occidentale del Dipartimento di Stato e denunciata con una lettera a Bush da cinque rappresentanti democratici del Congresso nordamericano. Reich, rabbioso come molti cubano-americani di Miami, ha dichiarato, riguardo alla legittimità del governo di Chavez: “L’esistenza di elezioni non è sufficiente per affermare che un paese sia democratico”. Un’affermazione imbarazzante per il sottosegretario di una nazione come gli Stati Uniti che, nel ‘99, un rapporto dell’Onu accusò di essere complice del genocidio delle popolazioni maya in Guatemala negli anni ‘80 e considerando che, per il veto del governo nordamericano, il feroce Guatemala della dittatura militare non è stato mai condannato per violazione dei diritti umani.
Ma l’affermazione è ancor più imbarazzante perché, dolorosamente, fa ritornare alla memoria una esternazione dell’ex segretario di stato Henry Kissinger sull’elezione di Salvador Allende, nel ‘70, in Cile: “Non dobbiamo certo accettare che un paese diventi marxista per l’irresponsabilità del suo popolo”.
Sappiamo tutti come le cose sono andate a finire nel ‘73 per la democrazia cilena e le coincidenze con l’attuale situazione del Venezuela non sono poche:
- la campagna furibonda dei mezzi di informazione contro il presidente sgradito agli interessi della finanza speculativa, delle multinazionali e degli Stati Uniti (la Cia ha recentemente declassificato i documenti che provano il sostegno dato dall’agenzia, trent’anni fa, a giornali e televisioni ostili ad Allende);
- l’organizzazione di scioperi di settori vitali che possano mettere in ginocchio il paese (in Cile dove il trasporto delle derrate è quasi esclusivamente su gomma, allora furono fermati i camionisti).
Anche questa volta, insomma, la strategia ricalca uno spettacolo indecente, già montato, come è noto, nello stesso Venezuela, nell’aprile del 2002. In quell’occasione, Pedro Carmona Estanga, allora presidente della Federcamaras (ora esiliato in Colombia) guidò un improbabile colpo di stato contro Chavez che abortì in 48 ore malgrado fosse la prima volta, in America Latina, che i dinosauri della finanza speculativa e corrotta del continente, avessero assunto in prima persona la responsabilità di una decisione eversiva senza nascondersi dietro le divise dei militari.
Purtroppo per loro, la maggior parte dell’esercito del Venezuela, o per solidarietà di casta verso l’ex tenente colonnello diventato presidente, o per convinzione nelle idee sociali di Chavez (chiaramente espresse a Roma alla Conferenza per la pace nel mondo che Carmina Avorio documenta in questo numero della nostra rivista) non li ha seguiti nel loro piano di destabilizzazione. E anche adesso, se non cambieranno idea, le forze armate sembrano voler ribadire questa lealtà.
D’altronde, non solo decine di ufficiali occupano cariche di responsabilità nell’apparato politico e amministrativo del paese, ma addirittura l’istituzione stessa si incarica di migliorare le condizioni di vita dei settori più indigenti. Medici, dentisti, ingegneri dell’esercito appoggiati da civili e da migliaia di soldati, hanno inaugurato il Plan Bolivia 2000, un progetto di costruzione di abitazioni, strade, scuole, di assistenza medica gratuita, di distribuzione alimentare. Insomma una serie di misure per attenuare gli effetti dell’esclusione di molti dei settori più svantaggiati in una società che, dopo anni di spoliazione e corruzione dei governi “democratici” dei vari Caldera e Carlos Andrés Péres, vede l’80% della popolazione vivere sotto la soglia di povertà, malgrado la ricchezza delle terre e del sottosuolo del Venezuela.
Così, è comprensibile che, malgrado la retorica e i discorsi a volte demagogici di Chavez, la popolazione, finora, invece di accettare l’invito all’eversione dei finanzieri spregiudicati e dei sindacati corrotti, abbia continuato a far funzionare, pur a fatica, la macchina dello stato. Gli operai del settore petrolifero, per esempio, con uno scatto d’orgoglio, dopo aver preso possesso di raffinerie e stazioni di rifornimento insieme all’Esercito, si sono improvvisati tecnici per riparare le pompe danneggiate e pur non potendo azionare i comandi automatici o informatizzati, siano riusciti a riempire manualmente le navi cisterne garantendo fino al 60% della produzione e lavorazione normale.
Non sappiamo se, quando uscirà questo n. 81 di Latinoamerica, il Venezuela sarà riuscito ancora a salvare la sua democrazia. Certo, come ha scritto Eduardo Galeano, “il disprezzo per la volontà popolare è una delle molte coincidenze fra il terrorismo di stato e il terrorismo privato”. Anche se il nostro mondo privilegiato fatica ad accettare il concetto di terrorismo di stato.
E’ sufficiente considerare come i mezzi di informazione, italiani ed europei, salvo poche eccezioni, hanno praticamente ignorato il tentativo di destabilizzazione in corso in Venezuela e l’ammirevole resistenza del popolo di quel paese. Con un atteggiamento che rivela una palese doppia morale, hanno perfino ignorato l’aspra denuncia proposta con una lettera aperta a George W. Bush dai cinque rappresentanti democratici del Congresso americano: Kucinich, Conyers jr., Serrano, Frank e Owens: “Il ruolo del governo degli Stati Uniti nel tentato golpe a Caracas dell’11 aprile risulta poco chiaro. Sappiamo che alcuni funzionari degli Stati Uniti si sono riuniti con i leader golpisti del Venezuela nei mesi anteriori alle operazioni dell’aprile 2002″. E ancora: “Gruppi coinvolti nel tentativo di colpo di stato hanno ricevuto finanziamenti dal governo degli Stati Uniti e la sua amministrazione ha espresso apertamente la sua ostilità al governo del presidente Chavez. Secondo l’ufficio dell’ispettore generale del Dipartimento di stato, infatti, una delle ragioni di questa frizione con il governo venezuelano è stato l’intervento diretto dello stesso Chavez nelle strategie della compagnia petrolifera venezuelana e le conseguenze che questo intervento potrebbe avere sul costo del petrolio”.
I cinque congressisti del partito di Clinton non potevano essere più espliciti. Ma l’informazione, evidentemente, quel giorno si era distratta.
D’altronde, non diverso è stato l’atteggiamento dei media al momento della elezione di Lula da Silva alla presidenza del Brasile. Un evento storico, non solo per la storia personale di Lula che Frei Betto racconta con affetto in questo numero della nostra rivista, ma per la novità politica che preannuncia. Perché Lula ha forse attenuato i furori dei suoi inizi di leader sindacale, ma non la coerenza e l’etica che hanno contraddistinto tutto il suo cammino politico. Eppure, una parte della informazione occidentale, anche quella ritenuta più prestigiosa, non potendo criminalizzarlo ideologicamente perché la sua provenienza e militanza cattolica non lo permetteva, l’ha descritto in modo folkloristico, superficiale, a volte perfino grottesco, se si pensa che dal primo gennaio è il leader di un popolo di 176 milioni di abitanti, che è fra i primi sei produttori di alimenti del mondo, pur mantenendo -come ha scritto proprio Frei Betto- il primato delle ingiustizie sociali.
Il lavoro che aspetta quest’uomo è immane, ma, come affermò una sera di settembre del ‘99 alla festa dell’Unità di Modena “Se avessi voluto diventare presidente del Brasile rapidamente, sarebbe bastato che io avessi accettato le ricette del Fondo monetario internazionale senza batter ciglio, avessi optato per le scelte dell’economia neoliberale, avessi abbandonato l’idea di combattere l’ingiustizia sociale e di fare finalmente, nel mio paese, quella riforma agraria capace di affrancare i contadini dei latifondi dal Medioevo restituendoli al mondo che viviamo. Magari avrei dovuto andare anche a far visita alla City di Londra. Ma avrei tradito tutti gli ideali per i quali ho combattuto in questi anni difficili e per i quali ho accettato di fare politica”.
Quella sera a Modena in cui Lula, il fondatore del Pt (Partito dei lavoratori) aveva accompagnato Rigoberta Menchù insieme ad Eduardo Galeano, Frei Betto, Dante Liano per presentare il libro “Guatemala nunca mas” (che raccoglieva i rapporti della Chiesa cattolica e dell’Onu sul genocidio delle popolazioni maya negli anni ‘80) nessun dirigente della festa dell’Unità o della sinistra italiana venne a salutare il candidato per il quale già tre volte 50 milioni di brasiliani progressisti avevano votato. Probabilmente lo consideravano un perdente, tant’è vero che qualche mese dopo, quando D’Alema riunì a Firenze i più prestigiosi leader della nuova sinistra internazionale, non lo invitarono nemmeno. Anzi, al colmo della disinvoltura, preferirono far venire Henrique Cardoso, presidente della coalizione di centro-destra che aveva battuto Lula due volte alle elezioni e che di sinistra, forse, era stato anni prima, quando insegnava sociologia alla Sorbona, non certo in quel novembre del ‘99. In quel momento, infatti, era il leader della coalizione eletta anche dai i terratenientes, i grandi latifondisti i cui vigilantes ammazzano ogni anno, impuniti, decine di contadini che occupano le terre o i sindacalisti dei siringueiros, gli estrattori di caucciù.
Ora D’Alema afferma che “Lula da Silva è una speranza per l’America Latina”. Spero lo pensi veramente, perché percorsi come quelli di questo ex operaio che si è acculturato nel tempo, possono insegnare qualcosa alla presuntuosa sinistra del nostro paese e sono forse più al passo con i tempi di quanto molti pensano: “I no global? Non nuocciono ai partiti ma solo al neoliberismo” mi ha fulminato il nuovo presidente brasiliano quando, a Porto Alegre, gli ho chiesto che cosa i partiti rappresentassero ancora nella politica del tempo che viviamo.
D’altronde, cos’è ormai la politica in un’epoca in cui il governo imperiale di George Bush junior, il 22 aprile 2002, riesce a far rimuovere dal suo incarico, Josè Bustani, direttore dell’Opcw (Organizzazione dell’Onu per la proibizione dell’armamento chimico-batteriologico)? Bustani stava convincendo il governo iracheno ad aprire le porte a nuove ispezioni mandando a monte il piano di guerra previsto dal Pentagono per la fine dell’anno. Nello stesso momento Washington riusciva ad evitare ogni ispezione al proprio arsenale chimico-batteriologico.
Che notizie abbiamo su queste contraddizioni? Sul fatto che, fra i tanti trattati internazionali rifiutati in meno di due anni, dall’amministrazione di George Bush junior, molti avevano a che fare proprio con lo scontro che gli Stati Uniti sostengono di avere con l’Iraq, cioè la proliferazione delle armi?
Così, mentre impongono il disarmo al governo di Bagdad, gli Stati Uniti hanno unilateralmente abbandonato il “Antiballistic missile treaty” per poter sviluppare un sistema missilistico di difesa nazionale e inoltre hanno accantonato anche il “Comprehensive test ban treaty” perché considerato un intralcio alle possibilità di sviluppare e testare nuove armi nucleari.
Tutto questo mentre l’amministrazione di George Bush jr. sta pianificando di annullare un protocollo concernente il trattato del 1972 sulla messa al bando dello sviluppo, della produzione e del possesso di armi biologiche. Anzi, è già stata approvata una legislazione speciale che permette al presidente di bloccare ispezioni non annunciate da parte dell’Onu e proibire agli ispettori di prelevare campioni di composti chimici.
Dov’è la politica, ma più ancora, dov’è la morale in tutto questo?
E l’informazione che ruolo gioca in questo mare di ambiguità?
[Gianni Minà]