In questi giorni di isolamento forzato ho provato a dare un ordine alla scansione della prigionia ritagliando lo spazio maggiore alla lettura tralasciando lo studio che quotidianamente occupava gran parte del mio tempo prima. Mi riferisco al piacere del leggere, di perdersi tra le parole provando a creare un’empatia forte, immersiva con quanto scorre sulla pagina. Ecco questo breve testo si presenta come una sorta di confessione, una condivisione di alcune di queste letture provando a definire una possibile riflessione sull’abitare al tempo del Covid-19.
Tutto parte da una rilettura del romanzo di James G. Ballard, High Rise pubblicato nel 1975 anche in Italia, dai tipi di Urania, con il titolo Condominium e successivamente da Feltrinelli con la copertina che mostra un incongruo disegno di Antonio Sant’Elia. Il protagonista del racconto è un architetto, Anthony Royal che vive all’ultimo piano di un grattacielo di Londra che assolve le funzioni di una città abitata da una classe media particolarmente agiata che presto viene travolta da una violenta nevrosi. Il romanzo diviene così la brutale cronaca di questo scadimento collettivo. Un blackout di quindici minuti rappresenta l’innesco di violenze di ogni genere. Omicidi, sabotaggi di ascensori, razzie, barricate di mobili, mucchi di immondizia incustodita, cannibalismo e spedizioni punitive diventano la vita collettiva del Condominio, un edificio di brutale cemento a vista che risponde a un’estetica tipica degli anni ’70.
Gli abitanti formano gruppi di difesa del loro spazio vitale manifestando un morboso attaccamento all’edificio. La convivenza e le relazioni umane sono sospese. Un fenomeno virale ha contagiato e messo in scacco l’umano? “Senza saperlo, (Royal, progettista dell’edificio) aveva costruito un gigantesco zoo verticale, con centinaia di gabbie accatastate l’una sull’altra. E allora, per cogliere il senso di tutti i fatti avvenuti nei mesi precedenti, bastava capire che quelle creature brillanti ed esotiche avevano imparato ad aprire gli sportelli.” Ecco che l’abitare e il virus entrano in risonanza manifestandosi non soltanto come l’irruzione dell’altro, il non-umano, nel nostro mondo, ma soprattutto come sintomo del nostro modo di essere umani. Così nel condominio/mondo siamo chiamati ad accogliere il virus/abitare alla ricerca di una pratica di convivenza possibile.
La pandemia sta funzionando come l’apparizione di un nuovo modo di abitare, terrificante e promettente al contempo, che imprigiona fisicamente ma puo’ liberare il pensiero, dai sogni rivoluzionari agli incubi apocalittici più drammatici. Un’operazione catartica dettata dall’eccezionalità e agevolata dalla lettura di Cascare dal sonno di Jean-Luc Nancy. Un testo breve e potente dove il filosofo francese definisce un’esplorazione di territori-limite e il sonno consiste nel “venir meno improvviso dell’io…sprofondamento, rinuncia, abbandono. Il sonno ci rapisce e ci vince, facendoci scivolare verso la vacuità di noi stessi, dove svaniscono le distinzioni tra proprio e improprio, tra interno ed esterno”. Il sonno è per Nancy, un dondolio, un’oscillazione che ripete il “battito iniziale tra qualcosa e niente, tra il mondo e il vuoto. E’ apertura, tremito e fremito, separazione che consente il movimento, la trasformazione. Ecco che il ridisegno del nostro modo di vivere il mondo, di abitare il mondo entra in gioco attivando altri pensieri e letture. Il mondo contemporaneo ha colonizzato la notte, il sonno agitandola con occupazioni, attività e produzioni a ciclo ininterrotto.
L’occupazione della notte è un’indistinta prosecuzione del giorno. Il sintomo di un’umanità “senza sonno né veglia”, deprivata della alternanza ritmica tra luce e buio, attività e passività, un’umanità incapace di vuoto, di spazio per il pensiero. La dimensione sospesa che stiamo vivendo ci pone necessariamente di fronte a domande che riguardano la nostra vita. Da qui, come ultimo consiglio di lettura emerge After Life del filosofo americano Eugene Thacker. Un saggio non ancora tradotto in italiano che apre degli squarci interessanti sia sull’abitare che in un senso più ampio sui modi di vivere il mondo. La vita è uno dei concetti più elementari, eppure quando esaminata direttamente si rivela straordinariamente contraddittoria ed elusiva. Possiamo vedere questa incertezza sulla vita nella nostra abitudine di affrontarla come qualcosa di scientifico e mistico allo stesso tempo. La vita sembra dappertutto in gioco e tuttavia non è più la stessa soprattuto in tempi di pandemia. In After Life, Eugene Thacker apre le basi per una nuova filosofia di vita. In un momento in cui la vita è classificata, misurata e sfruttata in vari modi, After Life ci invita ad approfondire i contorni e le contraddizioni della secolare domanda: “cos’è la vita? La questione della vita per Thacker è la questione chiave per la filosofia. Per il filosofo americano il mondo non è lì “per noi” ma è un mondo che ci presenta i limiti della nostra capacità di comprenderlo … È un mondo “senza di noi”. Ecco che ci troviamo di fronte a un percorso di ripensamento, di affaccio su qualcosa che non comprendiamo appieno e l’ontologia della vita ci porta ai limiti del pensiero stesso. Lo stop provocato dalla pandemia globale in corso ci sta ponendo inevitabilmente di fronte a domande che guardano all’essenza stessa del nostro essere viventi, abitanti e progettanti. Sono preziose queste domande, proviamo a viverle quando le maglie della prigionia saranno più larghe.
18.4.20
Immagine di copertina: John Gerrard, Western Flag, Spindletop, Texas, 2017