Spaziale. Ognuno appartiene a tutti gli altri è il titolo del padiglione Italia che quest’anno è curato dal collettivo Fosbury Architecture. Il progetto prevede l’intervento diretto in nove aree italiane assegnato ad altrettanti “progettisti” che collaborano con un advisor e un incubatore (ente pubblico o associazione culturale). Questo avviene attraverso il sostegno economico del padiglione Italia che, per la prima volta finanzia, con una parte consistente del suo budget, gli interventi nei territori di: Terraferma veneziana/Veneto, Trieste/Friuli Venezia Giulia, Piana Firenze-Prato-Pistoia/Toscana, Ripa Teatina/Abruzzo, Montiferru-Sinis/Sardegna, Baia di Ieranto/Campania, Belmonte Calabro/Calabria, Taranto. Questo cambio di paradigma rappresenta un preciso atto politico dei curatori che consente di seminare nei territori fragili della penisola, a patto che le comunità locali facciano propri questi progetti e se ne prendano cura. Non si può elaborare un pensiero critico senza contestualizzare il collettivo Fosbury che appartiene a quella generazione di studenti diventati architetti senza certezze, assuefatti dal veleno che gli hanno iniettato nelle università quegli stessi architetti che ora gridano allo scandalo e si domandano ma questa è architettura?
La crisi della disciplina, va ricordato, è iniziata molto tempo fa quando i protagonisti della Tendenza hanno occupato militarmente le università producendo un’architettura teorica con pesanti conseguenze nei programmi didattici e nelle speculazioni immobiliari italiane. In questo contesto vuoto si sono ritrovati studenti come i Fosbury o i Parasite2.0, che hanno optato per il grande rifiuto, operando in quel limbo mediano tra arte, architettura e curatela. Questa premessa è necessaria a raccontare il contesto nel quale operano le giovani generazioni di progettisti che, non avendo risorse, non essendo parte del mercato neoliberista, esplorano vie alternative alla disciplina classica del progetto di architettura. Non serve a nulla demonizzare la spinta dei giovani e la loro voglia di emersione, come alcuni critici e osservatori stanno facendo in questi giorni attraverso uno sguardo superficiale. Occorre capire il fenomeno dei collettivi di architetti (solo come formazione educativa) esattamente come avveniva negli anni sessanta con i protagonisti dell’architettura radicale che, a loro volta, imitavano i gruppi rock, oggi la situazione non è poi così diversa. I presupposti da cui partono i Fosbury sono onesti, senza ambiguità, con lo scopo di monitare dei fenomeni in atto coinvolgendo altri collettivi coetanei a sperimentare nei territori in varie forme. La scelta di occupare solo una delle due sale del padiglione dimostra la capacità dei Fosbury nell’evitare quell’intasamento spaziale claustrofobico ricorrente nelle ultime edizioni della biennale. Tuttavia è proprio il modo in cui sono presentati i progetti che rappresenta una criticità nel comunicare a chi non sa gli obiettivi, gli approcci e gli esiti di ogni singola azione territoriale. Non occorre essere didascalici per trasmettere i contenuti ai visitatori, bisogna individuare il mezzo adatto al racconto delle storie dei luoghi e dei progetti connessi.
Nell’analisi dei lavori si denotano modalità di intervento eterogenee tra collettivi che sono concentrati maggiormente sul progetto architettonico in senso largo, piuttosto che altri gruppi interessati a occupare gli spazi nella modalità dell’installazione site specific e della ricerca teorica, della performance e dell’arte relazionale. Agire seguendo l’arte è alquanto pericoloso se non si hanno gli strumenti culturali per poter conoscere quello che è stato prodotto da esperienze precedenti. Allora scorrendo alcune installazioni vengono subito in mente il tappeto volante degli Stalker, la montagna di sale di Mimmo Paladino a Gibellina, la Casa Orto dei radicali 9999. Siamo in una fase storica in cui siamo ossessionati dalla comunicazione non necessaria e non richiesta, con i social media: instagram, telegram, facebook, twitch, twitter. Appare dunque un paradosso che siano proprio i giovani nativi digitali a non riuscire a comunicare i contenuti dei nove progetti. E’ anche vero che sempre con maggiore frequenza non si riesce a “consumare” un progetto solo con una immersione sensoriale monoculare, ma con un altro strumento indispensabile come il catalogo, in questo caso determinante.
(ab)Normal, Captcha Architecture con Emilio Vavarella, Tutelare il paesaggio, ph. Michela Pedranti-DSLSTUDIO, courtesy Fosbury Architecture
Non tutti i progetti selezionati sono interessanti sia per come sono stati pensati sia per come vengono presentati, dimostrando quanto sia importante la coerenza tra teoria, realizzazione e impatto sulle comunità. Tra i progetti più interessanti si segnala Tutelare il paesaggio di (ab)Normal, Captcha Architecture e Emilio Vavarella, sulla codificazione del pittoresco paesaggio toscano fatto di cipressi, bugnato, colonne, e capitelli. “Oggi l’apparato ornamentale costituito da cornici e bugnati – scrivono i progettisti – viene scansionato tridimensionalmente e riprodotto in polistirolo…Il pittoresco insieme di essenze vegetali- costituito da cipressi e ulivi- può essere acquistato sulle piattaforme digitali dei vivai del pistoiese ed esportato in qualsiasi luogo del pianeta”. Una critica feroce alla omologazione del paesaggio toscano che, come nel caso di Las Vegas che riproduce fedelmente Venezia, viene riprodotto e diffuso globalmente artificialmente.
Orizzontale con Bruno Zamborlin, Tracce di BelMondo, ph. Alessandro Saletta/Melania Dalle Grave-DSLSTUDIO, courtesy Fosbury Architecture
Un approccio più orientato al progetto di architettura, utile nel tracciare la via alla ri-abitazione dei paesi delle aree interne, è quello adottato dal collettivo Orizzontale che, insieme all’advisor Bruno Zamborlin, presenta il nuovo episodio de La rivoluzione delle Seppie un progetto di riattivazione degli spazi attivo dal 2017 a Belmonte Calabro. Questo episodio, Tracce di BelMondo, consiste nella realizzazione di una serie di arredi sonori realizzati nel giardino del castello riattivandone la funzione pubblica e stabilendo una forte relazione con il paesaggio circostante.Nell’ambito veneziano i Parasite2.0 con Elia Fornari realizzano Concrete Jungle, una parete per l’arrampicata realizzata nel 1997 dall’associazione SgrafaMasegni nella parrocchia di Gesù Lavoratore a Marghera. Il progetto prevede che venga ritracciata, ridisegnando le nuove strutture per l’arrampicata e aprendo anche nuove vie, destinato alla fruizione della comunità. Gli spazi per gli sport outdoor non godono di attenzione da parte dei progettisti ma questo piccolo intervento dimostra che un buon design, sostenuto da un nobile intento, possa determinare un piccolo ma sostanziale cambiamento nell’avvicinare i giovani allo sport.
Parasite2.0 con Elia Fornari, Concrete Jungle
Sempre nella dimensione dello spazio aperto si colloca La Casa Tappeto, realizzata da Studio Ossidiana per il quartiere di Librino progettato da Kenzo Tange a Catania. Un luogo simbolo del lavoro ventennale di Antonio Presti che nel 2002 aveva indicato in uno striscione dal titolo emblematico, “Librino è bello”, il modo per uscire fuori dalla ghettizzazione mediatica e sociale. La scelta di operare con una tenda, che protegge dal sole e allo stesso tempo si fa spazio per la didattica sarà efficace solo se la comunità la renderà viva.
Studio Ossidiana con Adelita Husni Bey, La Casa Tappeto
HPO con Claudia Durastanti, Uccellaccio, ph. Melania Dalle Grave-DSLSTUDIO, courtesy Fosbury Architecture
Nella dimensione dell’immaginario collettivo si colloca Uccellaccio di HPO con Claudia Durastanti, che richiama nel titolo il noto film di Pasolini “Uccellacci e uccellini”(1966). Qui si innesta il tema del non finito caro ai Fosbury, dell’ospedale di Ripa Teatina in Abruzzo mai terminato e la cui pianta ricorda la forma di un uccello. L’intervento prevede “un processo di riattivazione partecipato-scrivono i progettisti-capace di addomesticare l’ecomostro attraverso micro interventi di messa in sicurezza, demolizione selettiva, movimenti di terra e accessibilità”. Così si enfatizzano architetture non finite come spazio pubblico per eccellenza, disseminate in grandi quantità nei territori e che possono offrire nuove funzioni e opportunità spaziali.
Così, dopo anni in cui i curatori ci mostravano collezioni di oggetti kitsch, paesaggi gotici, nature artificiali, l’auspicio è che questi progetti possano evolvere e dare nuove opportunità di occupazione degli spazi pubblici.