Nella città che abbiamo conosciuto fino al Novecento, lo spazio privato e quello pubblico assolvono compiti diversi e permettono lo svolgimento di funzioni e di attività spesso non intercambiabili. L’esperienza del mondo si compie in prevalenza fuori, dove tutto ha un nome per tutti, mentre dentro – nello spazio domestico – ogni cosa assume un senso solo per chi vi abita. Nell’era dell’informazione, il digitale ha segnato una svolta nel nostro rapporto con l’esterno e con noi stessi. Se prima eravamo noi a portarci fuori, nei luoghi pubblici, adesso possiamo portare lo spazio pubblico nelle nostre case, o illuderci di farlo, mediante il web e i social media. Sfera privata e sfera pubblica diventano sempre più permeabili: si ridefiniscono ambiti, perimetrazioni, barriere. Sfumano i contorni di condizioni storiche che hanno segnato a lungo la modernità, come le polarità città-lavoro e casa-vita individuale e familiare. A partire dal lavoro, la casa si riappropria di attività prima esercitabili e fruibili nella città: connessa al mutare del significato e della percezione del lavoro stesso e del tempo libero, la disgregazione dello spazio, della casa come della città, è parallela alla frantumazione del tempo (1).
Con una forte domanda di continuità e di ibridazione tra interno ed esterno, l’esperienza della pandemia ha sottolineato lo statuto flessibile e incerto delle polarità della città moderna, il loro essere entità porose e non delimitabili. Come rispondono gli ambienti domestici? La loro organizzazione canonica è ancora funzionale all’ordine e alle temporalità del ciclo abitare-lavorare-ricrearsi della Carta di Atene dei CIAM (1933), secondo il quale ciascuna attività ha luogo in spazi e tempi determinati e separati. Il lockdown e lo smart working hanno impresso un’accelerazione alle trasformazioni in corso negli ultimi decenni in quel ciclo vitale e in quella divisione distributiva. In rapporto agli spazi domestici emergono bisogni in apparenza contraddittori: una loro minore definizione, con un’accresciuta flessibilità e, allo stesso tempo, una maggiore esigenza di privacy e di concentrazione (per studiare o lavorare da casa). Per questi spazi sono necessarie nuove soluzioni per rispondere a richieste diversificate, spesso contemporanee, in termini di attrezzature, arredi, orari, frequenza, intensità, etc.
Parliamo di spazi, ma cosa sappiamo dello spazio della casa oggi? Rimescolando le carte tra il fuori e il dentro, la pandemia ha evidenziato come in ambito domestico la condivisione sia fondamentale almeno quanto l’intimità. Non case monadi, quindi, ma nodi di una rete di relazioni che avvolge l’esistenza nella sua globalità. Anche i tratti distintivi della città e della casa mutano ora profondamente, con comportamenti e sentimenti contrastanti. Al bisogno vitale di uscire, di tornare nel mondo, si è accostata spesso la paura – talvolta una vera e propria sindrome – di varcare la soglia, di esporsi al contagio. La casa come mondo non esclude il mondo come casa: dimensioni analogamente problematiche nelle quali viviamo tra sicurezza e paura. E questa analogia, se non equivalenza, è la conferma ulteriore che, da sempre, “noi ‘facciamo casa’ e, al contempo, la casa ‘ci fa’” (2)
Se le differenze tra città e casa si rimodulano, la città resta comunque una formazione primaria per la nostra vita. In questo senso, siamo fatti non solo di casa, ma anche di città. E pure nelle città (e nelle non-città) saltano le opposizioni tra l’individuale e il collettivo. Si ridisegnano le partizioni e si formano ambiti comuni, condivisioni parziali e temporanee, comunità provvisorie, sul modello di quanto avviene nei social media. Di fronte a questi scenari, ancora in divenire, si rileva l’assenza di una riflessione sullo spazio domestico non circoscritta agli aspetti formali, tecnologici, socioeconomici. Il mondo cambia radicalmente, ma continuiamo ad abitare e a pensare la casa come le generazioni che ci hanno preceduto. Progettiamo gli spazi in maniera ancora normativa, con la pretesa – o l’illusione – di disegnare planimetrie come modelli di strutturazione e di induzione di esperienze, comportamenti, emozioni. Protesa ad inseguire traiettorie eccentriche e poco incidenti sulla realtà, l’architettura diviene sempre più marginale, scontando una condizione di ritardo derivante, in parte, dal fatto che l’approccio al tema dell’abitare e dei luoghi domestici avviene quasi sempre attraverso un filtro – dell’estetica, della politica, dell’economia – in qualche misura deformante. Di qui la difficoltà di tradurre bisogni e desideri individuali e collettivi in artefatti. Per l’architettura è ancora possibile svolgere il suo ruolo di mediazione senza modificare il punto di vista da cui consideriamo gli spazi di vita? Senza ripensare la casa nella sua primordialità di “artefatto psichico e materiale che ci permette di essere al mondo meglio di quanto la nostra natura ce lo permetta”?(3)
Siamo sommersi, in televisione e sul web, da immagini ripetitive di ambienti domestici del tutto fuori fase rispetto alle attività che vi si svolgono, a partire da quelle connesse alla scuola e al lavoro. Questo décalage dà la misura delle difficoltà di immaginare spazi di vita diversi da quelli tradizionali. Spazi come espressione di modi di esistere e di comunicare del tutto nuovi rispetto al passato. Spazi in sintonia con le condizioni emergenti dell’abitare: da una parte, la pubblicizzazione di sé favorita (spesso imposta) dalla vita digitale, dall’altra l’introiezione dello spazio pubblico nelle pareti domestiche o, se vogliamo, la domesticazione dello spazio pubblico. Abbiamo parlato finora di spazio, ma nelle case in realtà non abitiamo tanto spazi quanto cose. Oggetti che in un certo senso si soggettivizzano, divenendo parte integrante delle nostre vite, estensioni della nostra soggettività e del nostro mondo interiore. “Un cassetto vuoto è inimmaginabile. Esso può essere solo pensato. E per noi (…) tutti gli armadi sono pieni” (4). Lo spazio abitato trascende quindi lo spazio geometrico. Non è un’astrazione, né qualcosa che possa ridursi al negativo di qualcos’altro, da plasmare indipendentemente da ciò che contiene. Ne consegue la necessità di rivedere nozioni consolidate come quelle di luogo, memoria, rapporto con l’esterno (città, paesaggio, natura), sostenibilità, etc. E queste nozioni andrebbero a loro volta ricollegate alla esperienza di ciascuno di noi, alla nostra capacità di immaginazione, oltre che di ragione.
Come “artefatto psichico e materiale”, la casa è in fondo un modello a cui rapportiamo il nostro essere al mondo. Un modello imprescindibile, visto che viene riproposto tale e quale nello spazio digitale. Usiamo il verbo “navigare” per indicare l’esplorazione sul web, ma esploriamo qualcosa che si conforma ancora sul modello essenzialmente stanziale della casa. Apriamo una pagina “home”; percorriamo i siti o i social media in base agli stessi sistemi di riferimento utilizzati nell’organizzare e nel percepire i nostri luoghi domestici. Un ingresso, le stanze, i servizi: questa struttura si riproduce nello spazio della rete, non solo in senso metaforico ma anche – con una sorta di anamorfosi – come dispositivo funzionale ai modi di creare e di vivere i luoghi digitali. Tra gli spazi della casa reale e della casa virtuale si rileva quindi una chiara corrispondenza, se è vero che le forme di immaginazione spaziale elaborate nel digitale sono ricalcate su quelle dell’ambiente domestico. Ma queste forme non potrebbero interagire nella conformazione dello spazio abitato? Non si potrebbe ipotizzare una reciprocità, e non solo una dipendenza, tra spazi reali e virtuali di diversa natura e intensità? Pensiamo ad esempio al concetto di limite: le case reali sono fatte di pareti e di chiusure, mentre quelle digitali permettono un accesso potenzialmente illimitato, a portata di clic ed eventualmente di password. La condivisione in rete e i social media offrono l’illusione fondamentale di bypassare mura e porte. Davanti allo schermo ci proiettiamo all’esterno, nella nostra rete di relazioni, ma restiamo chiusi in casa distanziandoci radicalmente dal mondo.
Disponiamo di protesi materiali, incluse le nostre case rifugio, così come di moltiplicatori o estensori di facoltà mentali ed emotive, eppure le nostre esistenze continuano a svolgersi in spazi la cui organizzazione e i cui caratteri di privatezza e di pubblicità si commisurano su parametri in larga parte impermeabili rispetto alla mutazione tecnologica e antropologica in cui siamo immersi. Di qui, un divario profondo tra modi di vita e spazi abitati. Spazi che progettiamo e utilizziamo in sostanza come gli oggetti tecnologici tradizionali. Come strumenti sostitutivi destinati ad assolvere compiti manuali (materiali e funzionali), ma ancora refrattari all’idea contemporanea di tecnologia quale forma primaria di espansione degli esseri umani sul piano psichico, oltre che fisico. Questa refrattarietà è un limite, ma potrebbe costituire un valore, considerato che per conseguire quella espansione paghiamo un prezzo altissimo. Nell’eterno presente di internet, la nostra memoria sfoca infatti progressivamente, mentre il futuro appare sempre più come negazione, come qualcosa che non ci riguarda in quanto non esistente (e, più che mai, imprevedibile). Nelle case si custodiscono però le cose della nostra vita; sopravvivono luoghi di resistenza nei confronti dell’indifferenza verso il futuro e dell’amnesia collettiva, favorita dall’accumulazione insensata di informazioni sul web e dalla credenza nella loro illimitata disponibilità. La tecnologia contemporanea fa sì che nelle nostre case diventino sempre più labili le differenze tra macchina e organismo, tra dispositivo artificiale e naturale. Nel momento in cui questa tecnologia concepisce i propri prodotti sul modello della vita psichica – vedi lo scontato riferimento allo smartphone – è evidente che il progetto dello spazio domestico non possa più essere considerato solo in termini di funzionalità e di usi tradizionali.
Occorre oggi immaginare non tanto le forme dello spazio digitale, come è avvenuto tra il XX e il XXI secolo, quanto le forme per gli spazi della vita rivoluzionata dal digitale. Differenza non sottile, se si pensa ad una rivoluzione del fine e non del mezzo, di fronte alla quale la cultura architettonica si è prima entusiasmata, poi arenata, alimentando malintesi piuttosto che ipotesi credibili e soluzioni interessanti. Il progetto della casa continua invece ad oscillare tra posizioni riduttive e inconciliabili: da un lato, una sorta di abito su misura, dall’altro qualcosa di cui può farsi carico senza mediazioni l’abitante. Un progetto per l’abitante e un progetto dell’abitante; soluzioni d’autore e “architetture di sopravvivenza” (o auto-pianificazione) (5). Comune denominatore, un’idea di spazio inteso come puro vuoto, cavità interna astratta e perciò spesso inabitabile. Un rigoroso lavoro di ricerca e di progetto dovrebbe indurre a riformulare questa idea e a ripensare il ruolo di mediazione dell’architettura e dell’architetto. Del resto, la casa come risultato di un progetto è un’attitudine legata alla modernità. Lo spazio domestico è stato a lungo plasmato da tradizioni e consuetudini, come qualcosa di conforme – di non contrario – alla natura. Questa autorialità, espressione di intenzione artistica nel senso del Kunstwollen di Alois Riegl, viene oggi messa in dubbio, peraltro, da una specie di orizzontalità diffusa. Come sperimentiamo ogni giorno nei social media, siamo catapultati in “una sorta di romanzo collettivo a cielo aperto, in cui tutti sono al tempo stesso autori, personaggi e lettori di come la propria vita si intreccia a quella degli altri” (6). Una vita che continua a svolgersi in prevalenza nelle case, i cui spazi diventano “luoghi praticati” (7), dove gli abitanti reinventano – e condividono in rete – il proprio quotidiano mediante tattiche di resistenza e di riappropriazione. Anche da questo punto di vista, sembra del tutto preferibile parlare di resistenza anziché di resilienza.
Nell’epoca del relativismo diffuso e del trionfo dell’”uomo ordinario”, la riflessione dovrebbe focalizzarsi su ciò che è proprio allo spazio domestico, rivolgendo lo sguardo su quelle “case altre” che “incarnano un’ombra, una memoria di quella costruzione perfetta che esisteva (…) quando l’uomo si sentiva totalmente a proprio agio in casa sua, e quando la casa era ‘giusta’ come la natura stessa” (8). Più che costruire una teoria dello spazio domestico, si tratta allora di esplorare il tema della casa nell’epoca dell’Antropocene, in cui la Terra si identifica sempre più con la casa stessa. Nella “rottura instauratrice” (per riprendere un’altra espressione di De Certeau) che stiamo attraversando, la casa potrebbe essere riletta come un oggetto specifico di conoscenza, al di là dei filtri attraverso cui è stata finora traguardata. Non è un’operazione semplice perché presuppone la revisione critica di approcci tradizionali e di giudizi precostituiti, e forse anche un certo nomadismo intellettuale. Le difficoltà risiedono soprattutto nell’inevitabile ricorso a strumenti e metodi che non fanno parte di un preciso ambito disciplinare e di un bagaglio consolidato. Quale tema di ricerca delle scienze umane, la casa appare in tutta la sua complessità: focolare, strumento di produzione, luogo di lavoro, luogo sacro, luogo di affezione. Un’entità oggi problematica che tende ad inglobare in sé la città e il mondo. È sotto questa luce che dovrebbe essere riconsiderata anche da chi la progetta, e non come puro dispositivo tecnico o spazio di rappresentazione (individuale e sociale). In un tempo nel quale niente sembra essere più come prima, per orientarsi e per comprendere meglio l’oggetto del proprio lavoro gli architetti dovrebbero interrogare più di frequente non solo gli abitanti, non solo quel “romanzo collettivo a cielo aperto” che appare come nuovo orizzonte di realtà, ma anche gli storici e i geografi, in particolare le storie dei geografi e le geografie degli storici.
4.8.21
(1) Roger SUE, Il tempo in frantumi. Sociologia dei tempi sociali, Bari, Dedalo, 2001.
(2) Laura BOELLA, in “La casa mondo”, La Lettura, n. 497, 6 giugno 2021, p. 21.
(3) Emanuele COCCIA, Filosofia della casa. Lo spazio domestico e la felicità, Torino, Einaudi, 2021, p. 15.
(4) Gaston BACHELARD, La poétique de l’espace, Paris, Presses universitraires de France, 1992 (ed. orig. 1957), p. 19 e p. 58 (trad. mia).
(5) Secondo Yona FRIEDMAN, L’architecture de survie. Une philosophie de la pauvreté, Paris, Éd. de l’Éclat, 2016.
(6) E. COCCIA, op. cit., p. 84.
(7) Michel DE CERTEAU, L’invention du quotidien. I. Arts de faire, Paris, Gallimard, 1990 (1980), p. 173.
(8) Joseph RYKWERT, La casa di Adamo in Paradiso, Milano, Adelphi, 1972, p. 159.
Le fotografie sono di Luigi Manzione