In questo weekend sono stato milanese. Per varie ragioni. Dovevo allestire la mostra “1182” sul crollo del viadotto sul Polcevera, un intenso lavoro fotografico, svolto dal 2018 al 2019, fatto insieme all’amico Alessandro Cimmino, scomparso lo scorso agosto. Volevo guardare con occhi esterni il fenomeno Milano o come direbbe qualcuna “l’invenzione di Milano”. Non ho mai amato Milano, non ci vivo, non ho mai partecipato a progetti in questo territorio, pur avendo costruito nel tempo reti e relazioni. Alla Milano da bere ho sempre privilegiato, da straniero, Torino, la città dei gianduiotti, dell’arte povera, del Castello di Rivoli e della Juventus. La città che ha dato asilo ai miei progetti culturali. Premetto questo per non essere definito un intellettuale militante che appartiene al sistema Milano, questo non è il mio caso.
Milano, la città della moda, della grafica, del design, della pubblicità, dell’editoria è cambiata molto. Chi si ricorda cos’era prima dell’Expo? Non esisteva un “modello” Milano, andavi a Milano sempre per vedere le novità ma non era quel polo magnetico per investitori che è oggi. Con la crisi industriale le città del nord-ovest hanno dovuto ripensarsi sempre ed esclusivamente con i grandi eventi, esposizioni universali (Genova, Milano) e sportive (Torino), dove una considerevole mole di denaro pubblico ed europeo è atterrato in questi territori, definendo un modello socio-economico basato sul turismo e sull’evento, dunque sulla temporaneità d’uso degli spazi. Dunque la ex capitale morale d’Italia, ma reale capitale, in mancanza di Roma, metropoli debole e poco attrattiva per i fondi finanziari, in questi anni ha sviluppato una serie di politiche che hanno provocato diseguaglianze. Essenzialmente per una assenza di politica pubblica per quanto riguarda la casa e gli spazi pubblici (nonostante la recente codifica di un regolamento comunale apposito).
Biblioteca degli Alberi Milano, 2023.
In questi giorni milanesi ho potuto osservare diversi fenomeni, dalla gentrification del quartiere Isola, ex luogo operaio-artigianale, al comparto residenziale di City Life, rappresentazione estrema del fallimento urbanistico, fino al senso civico dei cittadini nei confronti dei loro quartieri. In questo processo di desertificazione culturale, sociale e politico, è la qualità a mancare. La qualità della politica che nei suoi rappresentanti non riesce a rivolgere lo sguardo oltre il quinquennio di governo, inseguendo il consenso e a volte non solo quello, affidandosi alle griffe firmate della moda dell’architettura (come se l’architetto famoso potesse sanare la cesura tra la città fatta di persone e luoghi e la comunità politica sempre più sorda alle istanze dei territori), e la qualità delle architetture, soprattutto quelle residenziali. Eppure Milano ha degli esempi straordinari di insiemi residenziali, soprattutto pubblici, basta pensare al quartiere Ina Casa di Via Harar (San Siro) con Figini e Pollini, Gio Ponti…Se da un lato Milano propone modelli abitativi per le elite, dall’altro non riesce ad attivare progetti di alloggi per studenti, come la recente protesta davanti al politecnico ha portato all’attenzione dei media. Se ci fosse una politica di qualità prenderebbe spunto dal progetto avviato a Urbino a fine anni sessanta dal rettore Bo e da Giancarlo De Carlo, proprio per soddisfare la domanda di alloggi fuori dal centro storico e quindi renderli accessibili a tutti.
Invece assistiamo allo sviluppo di interi quartieri, pubblicizzati nella metropolitana come luoghi paradisiaci immersi nel verde, ma che amplificano il divario sociale. Così con il fallimento dell’urbanistica nel pianificare la città del futuro, in cui la finanza regola le scelte e le funzioni Milano continua a crescere, ma fino a quando questo modello neoliberista durerà?
Tuttavia una inversione di rotta si riscontra proprio nel carattere dei milanesi e nella voglia di partecipazione qui più che in altre città come Roma o Genova, dove c’e contrapposizione politica ma senza una maturazione civica dei cittadini, nel passare dalla protesta alla proposta. In questo contesto si colloca l’associazione Temporiuso che, sotto la guida di Isa Inti e Giulia Cantaluppi, mappa e monitora gli usi temporanei degli spazi abbandonati e non, come nel caso dell’ampliamento della sede del Politecnico a Bovisa, all’interno dell’area dei gasometri che racchiude porzione di verde a forma di goccia, in una landa desolata e abbandonata da tutti. Lì il Politecnico di Milano, proprietario dell’area, dove un tempo si produceva il gas dal carbone per illuminare la città, realizzerà un piano di investimenti per residenze studentesche, aule e laboratori, ampliando il campus esistente sotto l’egida dell’onnipresente Renzo Piano. Le sollecitazioni della comunità locale insieme al lavoro svolto da Anna Moro e Gabriele Pasqui, professori proprio del Politecnico, ha consentito di rivedere il progetto iniziale consentendo di passare dal 10 al 50% del verde della “goccia”, modifiche che sono state accolte dall’assessore all’urbanistica Pierfrancesco Maran, che le ha inserite nel Piano di Governo del Territorio. Un caso studio interessante grazie all’empowerment ridefinisce le funzioni migliorando il progetto iniziale, che prevedeva una percentuale maggiore di edificazione.
Imparare da Milano significa recuperare il senso civico dei milanesi nel partecipare alla vita della città, pretendere ascolto dalla politica con proposte credibili smettendo le polemiche che alterano i rapporti e che non contribuiscono a risolvere i problemi.
Imparare da Milano significa imparare un metodo di lavoro, aperto, plurale condiviso attuato da associazioni e gruppi di ricercatori universitari e indipendenti.
Imparare da Milano significa non clonare il modello residenziale elitario che genera sempre più diseguaglianze.
La fotografia di copertina è di Isa Inti e riprende il tour dentro la Goccia alla Bovisa