Nel pieno della società del benessere degli anni sessanta e settanta le profezie sui limiti dello sviluppo suonano come un canto stonato che pone un nuovo orizzonte problematico e di incertezza sul futuro. La fiducia nel progresso tecnologico infinito, che ha attraversato alcuni secoli di industrializzazione e urbanizzazione del mondo, si scontra con lo spazio finito dell’ecosistema terrestre, con il progressivo esaurimento delle risorse e la degradazione dell’ambiente. Di fronte alla finitezza dello spazio il problema è dilazionato nel tempo, in un continuo spostamento in avanti, dalle generazioni presenti verso quelle future. Il futuro diventa la vera discarica della società del benessere, avvicinando sempre di più il punto di non ritorno.
Senza più spazio (senza nuovi mondi da esplorare) e senza più tempo a disposizione (senza futuro) anche le utopie sembrano esaurire il loro ruolo propulsivo 1 . Nelle tarde utopie del XX secolo l’ottimismo tecnologico, che aveva caratterizzato la stagione dell’urbanistica progressista, sembra lasciare spazio a sottintese profezie apocalittiche di una tecnologia della sopravvivenza: sofisticati dispositivi protesici, in un ambiente completamente artificiale, denaturalizzato e climatizzato, proteggono la vita umana dall’inquinamento atmosferico e da eventuali attacchi nucleari, come nella cupola geodetica di Buckminster Fuller che ricopre la parte centrale di Manhattan. Quello stesso spazio sul quale, qualche anno più tardi, Kevin Lynch immagina un nuovo paesaggio formato da piccole comunità di villaggi che vivono sulla pesca. Si tratta degli ultimi sussulti di immaginari utopici, nostalgici o futuristici, riassorbiti come futili digressioni nell’infinito presente della condizione posturbana. L’orizzonte del post-urbano diventa dunque orizzonte del post-utopico.
Principio responsabilità
Nel contesto della mutata consapevolezza dei potenziali effetti catastrofici dell’azione dell’uomo sull’ambiente, Hans Jonas riabilita l’utopia (solo) come polo (negativo) della dialettica con la responsabilità. Muovendo dalla critica a Il principio speranza di Ernst Bloch, Jonas contrappone all’utopia una nuova etica della responsabilità2 . Ad essere messa in discussione è l’idea di progresso, nei suoi legami con l’utopia, come fiducia illimitata nella tecno-scienza: “la dinamica del progresso tecnologico mondiale in quanto tale racchiude in sé, tendenzialmente se non programmaticamente, un utopismo implicito”, il quale costituisce “la tentazione più pericolosa per l’umanità”. Di fronte all’immodestia del sogno tecno-utopico, i cui sviluppi hanno condotto sugli abissi della catastrofe ecologia e antropologica, “il principio responsabilità contrappone il compito più modesto, dettato dalla paura e dal rispetto, di preservare all’uomo … l’integrità del suo mondo, contro gli abusi del suo potere”.
Il richiamo alla “cautela” diventa dunque appello necessario di fronte alla presa di coscienza della “vulnerabilità della natura davanti all’intervento tecnico dell’uomo – una vulnerabilità insospettata prima che cominciasse a manifestarsi in danni irrevocabili”. Le nuove dimensioni della responsabilità, che investono l’intera biosfera del pianeta, impongono dunque un atteggiamento di cura rispetto a questa condizione di vulnerabilità, che si declina come “tutela dell’eredità” e “salvaguardia dal degrado” contro l’agire stesso dell’uomo, poiché “un’eredità degradata coinvolgerebbe nel degrado anche gli eredi”.
La cura richiamata da Jonas permette di ritrovare, per altra via rispetto all’utopia, quel filo di speranza necessario ad ogni agire. Ma appunto di un filo si tratta: quello stesso filo che sembra orientare le retoriche (il bla-bla-bla) e le politiche ambientali istituzionali (promosse a vari livelli governativi) verso una conversione ecologica graduale, fatta di piccoli passi, di azioni compensative e mitigative che non mettono in discussioni i presupposti dello sviluppo economico. La responsabilità, senza utopia, sembra provocare una pericolosa divergenza: l’iperrealismo politico, fatto di accordi al ribasso, da una parte; l’ambientalismo radicale dall’altra, che storicamente sconta le difficoltà di tradurre le energie provenienti dalle mobilitazioni sociali in forme e azioni di governo alternative ai modelli di sviluppo dominanti.
Senza voler entrare nelle complesse relazioni che legano Il principio speranza di Bloch e Il principio responsabilità di Jonas, mi interessa qui sottolineare come queste due opere, sfalsate nel tempo, concorrano a delineare un campo di riflessione attuale (sia pure asimmetrico) di fronte alle questioni ambientali che premono sulla nostra epoca. La polarizzazione sulla responsabilità e sul realismo dell’azione politica rischiano di svilire l’altro capo di riflessione dialettica costituito dall’utopia. Di fronte alla crisi eco-antropologica del pianeta non c’è dunque più spazio per l’utopia? Quest’ultima può sopravvivere soltanto come sfavillante sfoggio ipertecnologico per futuribili città galleggianti nell’oceano, artificiali oasi urbane nel deserto, o presidi urbani nella foresta amazzonica? L’utopia si configura dunque ancora e solamente come “isola” (o enclave?) nel mare magnum dell’urbanizzazione planetaria, colonizzando oceani, foreste e deserti? Oppure l’utopia si riconfigura come sottili strati smart e green che si infrappongono e sovrappongono agli spazi delle concentrazioni metropolitane e delle urbanizzazioni diffuse?
Principio territoriale
Nel valzer delle profezie di principi si colloca a pieno titolo il testo-manifesto di Alberto Magnaghi Il principio territoriale3. Nello spazio dialettico tra utopia e responsabilità il principio territoriale assume una posizione intermedia, recuperando sia la dimensione utopica sia la preoccupazione della catastrofe eco-antropologica indotta dagli sviluppi della tecno-scienza. Di fronte ai limiti della politica istituzionale e dell’ambientalismo radicale nell’affrontare la crisi ambientale, Magnaghi avanza l’ipotesi che la conversione ecologica “sia possibile solo ricostruendo nella sua complessità il rapporto tra abitanti e territorio abitato, rimettendo in discussione tutti gli elementi di produzione dello spazio”. Si tratta di spostare l’attenzione dalla natura al territorio in quanto ambiente dell’uomo: “incentrare il progetto di futuro sulla salvezza dell’ambiente dell’uomo … anziché sulla salvezza della natura tout-court, ci conduce ad affrontare la conversione ecologica nella prospettiva e con gli strumenti di una nuova civilizzazione antropica”. In quanto esito di processi coevolutivi di lunga durata tra azioni culturali dell’uomo e ambiente naturale, il territorio costituisce “un immenso patrimonio culturale collettivo … dotato di identità percepibile con i sensi attraverso i suoi paesaggi”. Il territorio rappresenta “il bene comune per eccellenza, da trattare come tale per le generazioni future”. Dunque è soltanto dalla cura (dall’avere cura) di questo bene che passa la sopravvivenza della vita umana: “occorre agire nella consapevolezza che Gaia, la Terra come sistema vivente, come già accaduto in passato, troverà certamente nuovi climax oltre la specie umana, e che dunque ciò di cui è urgente occuparci è, invece, l’ambiente dell’uomo, il territorio in quanto condizione di sopravvivenza ed elevamento della qualità della vita umana sul pianeta”.
Oltre all’ambito della responsabilità di fonte alla crisi ambientale, vorrei mettere in evidenza alcuni aspetti del principio territoriale pertinenti con una formulazione utopica. In maniera esplicita Magnaghi recupera la suggestione dell’utopia concreta di Ernst Bloch4 : un’utopia coi piedi per terra che si costruisce come contromossa che contraddice il cattivo presente. La contro-mossa in Magnaghi è rappresentata da un “conto-esodo”, che si manifesta nella forma (classica) del ritorno: ritorno al territorio, ritorno ai luoghi (un movimento opposto all’esodo durato un paio di secoli negli spazi della città industriale e postindustriale). Il contro-esodo implica un’esplorazione lenta e profonda dei territori: “viaggi nel tempo, nell’anima dei luoghi, per ritrovare le ragioni smarrite del futuro”. Esplorazioni che restituiscono la permanenza dell’armatura di matrice medievale dei territori: è dunque “al primo sorgere dei Comuni, culla dello spazio del luoghi, che bisogna guardare per ritrovare il codice genetico originale”, codice che possa guidare la metamorfosi delle metropoli in reti di villaggi urbani solidali che trovano nell’agricoltura e nell’artigianato la loro base produttiva di partenza. Un contro-esodo che nutre la “visione di un pianeta brulicante di bioregioni”.
In questa contromossa, di cui sono stati restituiti brevi cenni, è possibile riconoscere elementi dell’utopia regressiva, o se si preferisce (facendo riferimento alle categorie di Françoise Choay) culturalista. Un lungo filo che risalendo indietro nel tempo conduce fino a News from Nowhere di William Morris: la visione della metropoli londinese trasformata in un’arcadica homespun-city utopica: una costellazione di piccoli villaggi in una società agricolo-artigianale nella valle del Tamigi. Una visione, contrapposta al degrado dell’ambiente industriale, in cui è possibile cogliere in forma embrionale il nesso fra utopia politica e cura dell’ambiente dell’uomo: “uno smodato amore per la crosta e la superficie della Terra su cui dimorano gli uomini”.
02.02.22
1. Per Massimo Cacciari “la stagione del confronto creativo tra scienza e utopia si chiude col sessantotto”, M. Cacciari, P. Prodi, Occidente senza utopie, Il Mulino, Bologna, 2016, p. 128.
2. E. Bloch, Das Prinzip Hoffnung, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1959; trad. it., Il principio speranza, Garzanti, Milano, 1994. H. Jonas, Das Prinzip Verantwortung, Insel, Frankfurt am Main, 1979; trad. it., Il principio responsabilità, Einaudi, Torino, 1990.
3. A. Magnaghi, Il principio territoriale, Bollati Boringhieri, Torino, 2020.
4. L’utopia concreta è definita da Bloch come “un’utopia anticipatrice, per nulla coincidente con il fantasticare astrattamente utopico, e nemmeno condannata all’immaturità del socialismo meramente astratto e utopico”, E. Bloch, Il principio speranza, cit., p. 172.
Immagine di copertina: Il Tamigi, estate 2018, fotografia di Andrea Vergano