Elisa Poli: Quando Emanuele Piccardo mi ha proposto di condurre a quattro mani un’intervista ad Alessandro Mendini ho subito pensato a un azzardo. Per uno di noi Mendini è testimonianza attiva e indispensabile nella ricostruzione delle complesse e alterne vicende legate ai gruppi radicali fiorentini, per l’altra è il creatore di un progetto editoriale tutt’oggi inesplorato ma fondamentale nella produzione dei dispositivi culturali che determinano il nostro modo attuale di percepire l’architettura. Per E.P. (Emanuele Piccardo) la voce di Mendini serve a completare un quadro già formato, consolidato ormai da anni di ricerche doviziose e appassionate in cui la rivista Casabella dei primi anni Settanta costituisce per i Radicals il luogo di attuazione di progetti fondamentali e utopici. Per E.P. (Elisa Poli) la testimonianza di Mendini è il momento di verifica di un’ipotesi, la strategia semplificata per mettere finalmente in campo i tasselli sparsi di un mosaico in cui Casabella, quella di inizio anni Settanta, è il primo atto di una storia, dalla trama complessa e poco lineare, che si dispiega poi, per semplificare, all’interno delle pagine di Modo, di Domus e di Domus ancora, una seconda volta.
Questa intervista sarebbe stata impossibile – nella misura in cui intervistare è chiedere per ottenere risposte che avvalorino una tesi già formata – se dall’altra parte del tavolo non ci fosse stato proprio Mendini. Lui con una lucidità impeccabile e altrettanta disponibilità per un intero pomeriggio d’inizio estate ci ha mostrato abilmente come si costruisce una buona storia e come l’improvvisazione riesca bene solo a chi, in realtà, conosce approfonditamente le tecniche. Un viaggio, come ci ha suggerito lui stesso tra critica e poetica.
E.Piccardo: A metà anni Cinquanta Yona Friedman e Constant iniziano a diffondere i loro progetti, questo determina, oltre alla crisi della formazione dell’architetto, il substrato sul quale si forma la neo-avanguardia architettonica definita da Celant “architettura radicale”…
A.Mendini: Io arrivo all’architettura radicale da altre strade; anche se m’interessa il lavoro di Friedman, Claude Parent o Constant, il mio arrivo è dall’espressionismo. Già all’università mi ero occupato di Rudolf Steiner, Erich Mendelson e Gaudì, ovvero di un mondo spiritualista. La mia presenza dentro l’architettura radicale è sempre stata segnata da un’utopia romantica che è diversa dal tipico atteggiamento dei radicali. Quando arrivai a Casabella lavorai in stretto contatto con il grafico AG Fronzoni, personaggio unico: integralista social-comunista, integerrimo, grande moralista. Fu lui che m’obbligò, io mi chiamavo Sandro Mendini, a firmarmi con il nome A.Mendini. Infatti il nome Angelo Fronzoni non lo sapeva nessuno proprio perchè lui si firmava AG Fronzoni. In quel momento mi interessai anche di arte programmata (Paolo Scheggi, Boriani, Gianni Colombo), e fu allora che entrai in contatto con Germano Celant. Quando divenni direttore iniziai a vedere scenari che mi erano sconosciuti: i fiorentini, Sottsass, il gruppo di Graz, i viennesi Pichler, Max Peintner e Hollein, la Jugoslavia, Pettena; un mondo diverso che mi ha portato a pensare alla grafica della rivista come un fatto organico ed espressivo. Seguii io stesso la grafica di Casabella inventandolecopertine — perché le mie riviste sono sempre state caratterizzate da una grande attenzione ideativa e comunicativa delle copertine — e feci degli oggetti appositamente chiamati “oggetti ad uso spirituale”. Una valigia pesante che si chiamò “Valigia per ultimo viaggio”, una sedia di terra, una performance con una sedia bruciata, un kit con un martello e quattro chiodi con scritto “Do it yourself”. Fu in questo contesto che conobbi Sottsass e i fiorentini. Loro in quel periodo erano i Beatles del design e penso che copiassero Yellow Submarine.
E.Poli: Quale ruolo ha svolto la tua Casabella nella diffusione internazionale del pensiero radicale e nella sua precisazione teorica? E com’è avvenuta la transizione da questa “utopia” alla concretezza della rivista Modo?
A.Mendini: Quando li conobbi i radicali erano noti solo nel contorno universitario fiorentino e milanese. Ebbero un incarico dalla Montefibre per fare una ricerca, poi ci trovammo a Rimini a fare dei piccoli congressi e poi ci fu la mostra di Emilio Ambasz nel 1972, dove ci presentammo tutti insieme. Fu al MoMA che comprai la cartolina del gorilla e feci quella copertina scrivendoci “radical design”. Loro erano i giovani amici di cui si contornavano Sottsass e la Pivano. Velocemente queste persone che frequentavo sono diventate collaboratori della rivista che si è trasformata in un portavoce del movimento radical e all’interno di questo clima è nata la “Global Tools” (dal notaio a Firenze). Altrettanto velocemente ci sono stati screzi tra i componenti e ci siamo sfaldati arrivando ad una specie di chiusura ufficiale del “radical design”. In una conferenza a Bologna dissi “l’architettura radicale è morta”, ma non l’ho detto solo io…
Il mio mandato a Casabella— nello stesso periodo stava nascendo Alchimia — finì con una specie di tradimento di coloro che fecero le trattative per l’Electa; e Casabella passò a Maldonado. In quel momento sentii la necessità di fare un’altra rivista e così chiamai a raccolta un gruppo di industriali guidati da Giulio Castelli e con suo figlio Valerio, che era art director, fondammo Modo. Sono sempre riuscito a far riviste identificando una ipotesi ideologica, ciò mi ha permesso di scremare: più che dire “questi sì” ho potuto dire “questi no”. Modo è stata una rivista della “Global Tools” perché si è occupata di mestieri, il panettiere simile al parrucchiere simile all’architetto, al grafico, al fotografo. Tutte queste materie sono state poste in parallelo sotto una veste grafica che faceva somigliare il mensile ad un settimanale. Anche in questo caso c’è stata una sequenza di copertine, la Madelon Vriesendorp con i grattacieli dormienti, Peintner, Coop Himmelblau, Missing Link, Peter Cook. E’ stato un periodo di viaggi soprattutto a Londra dove ho frequentato Cedrice Price, Banham, gli Archigram, Pentagram…
E. Piccardo: Quando parlavi mi venivano in mente i fotoromanzi fatti da Derossi con Strum proprio per la mostra del MoMA. In che modo la grafica si relaziona con il contenuto?
E. Poli: Anche perché il fotoromanzo torna in Domus con Pierre Restany…
Sono sempre stato attento al modo di rappresentare l’architettura. Quando ho chiamato i fotografi di moda a fotografare l’architettura in sequenze un po’ dinamiche, queste cose non erano mai state fatte. La fotografia era statica e le copertine in un certo senso accademiche. Adesso si mette il personaggio in copertina badando che sia carino, vestito con gli abiti dello stilista… ciò sostituisce il peso della visibilità del personaggio al peso del lavoro che svolge. Quando la qualità del lavoro non c’è ed emerge solo il personaggio allora si fa cattivo giornalismo o cattiva critica dell’architettura e del design.
E. Poli: E’ per questo motivo che durante l’ultimo anno a Domus, nel 2010, hai usato il disegno dei volti che riprendessero il tuo percorso precedente attraverso un allontanamento dalla fotografia?
A.Mendini: Anche nella prima Domus le fotografie, che erano di Occhiomagico, erano state elaborate con colori trasparenti all’anilina da una grafica olandese, Emilie van Hees, pertanto erano interpretazioni. Nel caso dell’ultima Domusvolevo riportare dei visi in copertina, in una maniera decantata quasi lievemente macabra; sono dei cammei con una forte interpretazione di Lorenzo Mattotti. Poi gli architetti che trent’anni fa avevo messo in copertina — quelli che oggi sono archistar — all’epoca non erano ancora famosi, erano esordienti… Nell’ultima Domusinvece ho cercato personaggi un po’ laterali per non ripercorrere la galleria dei Pritzker Price ed ho pensato che volevo due italiani: Riccardo Dalisi e Maurizio Cattelan.
E. Piccardo: La scelta di Dalisi l’ho letta come un punto definitivo sull’architettura radicale, è un modo di rimarcare la genialità di Dalisi nella dimensione sociale ed etica del fare design…
A.Mendini: Dalisi è un personaggio molto importante, sempre in controtendenza, legato al poverismo. Lui parla di “compasso di latta” che avevo trattato su Modo ma con altre intenzioni. È una specie di contro-Pritzker Price dedicare la copertina a Dalisi poi a Cattelan, un personaggio che mi è sempre piaciuto e che ha evidentemente il suo grande valore come artista. Gli altri personaggi li ho cercati in maniera un po’ ibrida, a parte Nouvel e Cook, fra persone meno note.
E. Piccardo: Certo Cook rappresenta l’altra faccia della medaglia che contiene Dalisi. Tu prima parlavi del contesto londinese e delle frequentazioni con i vari Price, Banham, personaggi che hanno suggestionato e in qualche modo costruito un substrato sul quale si sono formate le teorie radicali…
A.Mendini: Si questo è vero, però l’architettura radicale italiana, che nel mio caso arriva anche dall’Espressionismo, da Michelucci, Leonardo Savioli, Leonardo Ricci. Senza quei tre non esisterebbe neanche un fiorentino. Ma non va dimenticata l’importanza didattica di Remo Buti. Io l’ho fatto riemergere nella mostra sul design alla Triennale, dove ho collocato due plastici delle sue discoteche. Da lui sono usciti Giovannoni, Venturini, i bolidisti ma anche la mentalità di Branzi, Morozzi, Deganello, quest’ultimosi è molto politicizzato infatti gli Archizoom sono personaggi differenti tra loro, poi c’è la loro parentela con Rogers. Un personaggio per me molto importante con il quale avevo fatto la tesi sul Goetheanum che Bruno Zevi mi aveva pubblicato.
E. Poli: Tu però non hai partecipato alla Casabella di Rogers…
No anzi al momento in cui entrai nella nuova Casabella ci fu un contrasto. Quando una rivista va in crisi succedono dei traumi viscerali gravi, Rogers fu allontanato dall’editore. Casabella apparteneva allo stesso editore di Domus, ad un certo punto fu venduta e il nuovo proprietario cambiò il direttore. Ebbi dei problemi subliminali con Rogers allo stesso modo di quando Sottsass fondò Memphis e io rimasi con Alchimia…
E. Poli: Nei primi numeri della tua Casabella la rivista era satura di testo, molto intellettuale; poi con i radicali è cambiato il rapporto testo-immagine. Con la tua direzione l’editore ha dovuto gestire il passaggio da una rivista per la buona borghesia milanese a una rivista della controtendenza?
Nel periodo in cui compii il passaggio da caporedattore a direttore di Casabella quest’ultima appartenne più allo stampatore, una persona gentile ma ignara di tutte le dinamiche legate ai contenuti, per cui ebbi un gioco molto libero fino a quando non si accordò con l’Electa. Nel periodo della mia direzione eravamo a Segrate nella tipografia proprietaria di Casabella e quei roghi di sedie che ho fatto per una delle copertine li ho appiccati sul prato di fronte alla stamperia.
E. Piccardo: Recentemente in Clip Stamp Fold di Beatriz Colomina, Robbin Middleton di AD ha contestato l’autrice per aver inserito Casabella tra le riviste della contro cultura. Io credo che Casabella sotto la tua direzione sia stata percepita realmente come una rivista di controtendenza…
A.Mendini: Sicuramente sì. Però, per quanto una rivista italiana, diretta da me, possa essere considerata radicale, bisogna sapere che la mia mentalità deriva dalla borghesia, così come la storia della rivista. Sarebbe come dire “facciamo da Alessi degli oggetti che non assomigliano ad Alessi”. Puoi fare tutto il contro design che vuoi ma poi viene macinato in una corporate image generale per la quale quelprodotto risulta appartenere a quellaazienda; altrettanto si può dire per Casabella. È sempre sotto uno stesso DNA e sono contento di non averla stravolta nella sua attitudine di base.
E. Poli: Grazie a questo DNA Casabella e Domus hanno potuto riscuotere molto successo. L’immagine di Casabella ha avuto un potere attrattivo enorme soprattutto per la generazione che si trova ora a reinterpretarne i contenuti.Potremmo paragonarla a una testa d’ariete che ha portato avanti un pensiero rendendolo più potente.
A.Mendini: Se fosse così ne sarei contento. La mia attitudine da “teorico umorale” mi fa scrivere in modo critico-poetico: non facendo una critica ortodossa la devo appoggiare alle immagini la cui scelta per me è molto importante come lo è l’accostamento tra loro che non avviene per logica ma tende a creare cortocircuiti— paradosso degli accostamenti. Magari trovando immagini interessanti faccio scrivere un articolo a partire da esse perché l’interesse è nato da esse. La modulazione del sommario della rivista è una specie di suono e la direzione di una rivista l’ho sempre paragonata alla direzione di un’orchestra, più spazio dai a un’orchestrale meglio risulta l’insieme, certamente con il dirigismo non si ottengono risultati positivi.
E. Poli: È quello che hai scritto su Domus nel primo editoriale dopo la morte di Ponti: “Il grave fatto della morte di Ponti chiude per Domus l’epoca della protezione carismatica e apre un’epoca di responsabilità nuove e più dirette”. Da dove nasce la tua visione del progetto editoriale?
A.Mendini: Considerare come progetto gli oggetti che disegno e la rivista che faccio come un romanzo di me stesso tra i romanzi degli altri: questo è ciò che trovo tutt’ora interessante.Non sono capace a distinguere l’oggettività del progetto dalla soggettività della mia esperienza di vita e per questo probabilmente che non so fare didattica e non mi va quando mi chiamano maestro. Ho un’incertezza di fondo e non so esprimere le cose nella loro oggettività. Per esempio nella mia ultima Domusho scritto queste cronache che ho chiamato “diario”: la mia è una testimonianza di cose venute bene e male. Anche tra i miei oggetti c’è quello carino, quello antipatico, quello stronzo che purtroppo è dovuto finire in uno yacht a Montecarlo. I miei oggetti, grandi e piccoli, sono un sistema di personaggi che giocano con me econ le persone che li usano e che ci hanno lavorato dentro. Nell’ultima Domus ho espresso delle memorie personali sufficientemente oggettive da essere trasmissibili.
E. Piccardo: Tu hai sempre usato la mappa per fare sintesi e recentemente anche nella tua ultima Domus…
A.Mendini: All’interno di questa tendenza umanistica e forse anche romantica, sono un metodico lavoratore e devo trovarmi di fronte i dati di un problema. Qualunque sia il progetto se non lo strutturo attraverso parole — che creino sia l’antecedente sia una tesi da dimostrare — con quel progetto non me la cavo quindi i sistemi di parole mi servono da riferimento. Anche il giovane Seymour si muove nella stessa direzione con le sue mappe degli Amateur, le sue però sono difficili da leggere, le mie sono scritte con la grafia dei bambini (ride)
E. Poli: Quando hai concepito Modo dialogavano universi che spesso non avevano avuto grande spazio nelle riviste autoriali come le figure degli imprenditori, che oggi sono centrali per comprendere il design — vedi Fabbrica Italia. Qual è stata l’idea – o per ricollegarci a quanto dicevi prima l’ideologia – con cui hai pensato Modo?
A.Mendini: L’imprenditore è l’altra metà del design e avendo io, all’epoca, dodici padroni/imprenditori con la rivista Modo cercai un’interlocuzione ravvicinata quasi da psicoanalista. Parlavo a questi imprenditori in una maniera legata ai loro ideali, qualità e difetti. Ho fatto il designer attraverso la critica e sono riuscito a interagire con i produttori come se non fossero clienti.Non bisogna dimenticare, come dice Enzo Mari, istituzionalmente il designer e il suo cliente devono essere nemici. Alcuni di loro sono diventati miei amici ma di fondo gli obiettivi divergevano (a meno che l’obiettivo non sia il denaro).
E. Poli: Chiudiamo il cerchio: quali sono state le riviste di riferimento?
A.Mendini: Erano tante… una era di Varsavia, Projecte, la californiana Wet, AD, piccoli opuscoli, alfabeta, re nudo, Architectural Record, Japan Architect. Le riviste dei grandi editori invece non possono che essere generaliste perché hanno un pubblico generico e devono far fronte a una genericità di argomenti e di lettura. Per Domus l’abilità di Ponti è stata intrecciare le discipline artistiche per ottenere un minimo comun denominatore organico e, almeno spero di averlo fatto anch’io.
[Elisa Poli & Emanuele Piccardo]
Ciao Sandro e grazie per quello che hai dato alla cultura dell’architettura.
Emanuele Piccardo
Questa intervista è stata realizzata a Milano nel 2011 in occasione del numero tematico di archphoto2.0/Radical City