L’improvviso uso massificato di un’oscura parola specialistica è spesso un chiaro indice di una profonda svolta mondiale. Biopolitica, per la precisione, è il termine oggi drammaticamente alla ribalta, sebbene non sia affatto inedito. È stato infatti utilizzato nel corso del XX secolo da parecchi intellettuali tra cui Michel Foucault che, negli anni Settanta del Novecento, ha indicato la biologia come categoria centrale della politica contemporanea. Da secoli, infatti, la politica si occupa di tutelare, migliorare e prolungare la vita degli uomini, governando i processi di riproduzione, di risanamento e di profilassi, incrementando lo sviluppo in chiave biopolitica della statistica demografica, dell’igiene e dell’economia. L’architettura, in tutte le sue forme e a tutte le sue scale, ha ovviamente fatto parte di questo processo. Anzi, per molti versi, l’avventura dei pionieri del Movimento Moderno partì proprio da queste basiche necessità igieniste, fondamentali per una società che da rurale si stava trasformando in urbana per poi, infine, diventare la civiltà metropolitana della seconda metà del secolo scorso.
Carnevale di Venezia, 2015
L’esigenza di allargare a masse di fruitori sempre più grandi quelle qualità spaziali che noi definiamo architettoniche è stata, infatti, la questione centrale della modernità industriale. Un’istanza democratica che ha eroso e distrutto il mondo figurativo della grande tradizione architettonica occidentale, generalmente rivolto all’aristocrazia e paternalisticamente promosso da un principe. Le qualità spaziali della seconda modernità, infatti, non sono affatto quelle indicate dalla tradizione “alta” della disciplina ma, semmai, coincidono con quelle della cosiddetta edilizia vernacolare popolare, ossia la tradizione “bassa” dello stesso Occidente. L’economia industriale liberista, basata sulla tecnica seriale, e la tradizione vernacolare, basata su un artigianato ugualmente serializzato, non potevano che sposarsi anche nelle discipline architettoniche nella civiltà di massa dell’era contemporanea: «L’industrializzazione degli elementi edilizi ha quindi legittimato nell’architettura europea le modalità spaziali dell’edilizia vernacolare, mediterranea ed islamica, espulse ai primordi del Rinascimento»1. Può sembrare strano, ma questo processo di assorbimento dei temi vernacolari rurali, in particolare mediterranei, investì anche il tema dell’igiene edilizia e urbana, come notò anche Le Corbusier nel suo Viaggio in Oriente del 1911, dove in una nota osservò: «Ho saputo che una tradizione religiosa obbliga a imbiancare a calce ogni cosa in occasione delle grandi feste religiose. Religione utilmente poliziesca, questa. L’azzurro che incornicia porte e finestre, invece, allontana le mosche»2 . Il maestro svizzero, infatti, in molti scritti3 condannò le situazioni igieniche e di sovraffollamento tipiche delle città frutto della civiltà moderna, santificando invece l’edilizia popolare e monastica che aveva incontrato nei viaggi della sua lunga formazione giovanile, includendo in queste forme spaziali anche le loro manifestazioni a scala urbana4. Nell’architettura del Movimento Moderno, insomma, democrazia e igiene sono sempre state le facce di una stessa medaglia: le esigenze della masse erano influenzate dai progettisti-intellettuali e così collocate in spazi salubri e razionali, che obbligavano i cittadini e i lavoratori a condurre un corretto stile di vita, utile a uno sviluppo collettivo e comunitario della società.
Non si può dire la stessa cosa riguardo all’architettura della post-modernità, intendendo con questo termine non solo e non tanto la sua maniera storicista-citazionista della fine degli anni Settanta, quanto piuttosto quella del periodo successivo, costruita dai tardi anni Ottanta in poi, che è stata profondamente influenzata dalla fase più aggressiva dell’economia neoliberista, basata sulla finanza e soprattutto sul consumo più sfrenato. Un’architettura sempre più “democraticamente individualista”, in cui la libertà del singolo vince su quella collettiva, in cui lo spazio pubblico ha perso sempre più la sua funzione comunitaria per diventare progressivamente un luogo ludico e di consumo delle “moltitudini” di individui che lo attraversano, mischiandosi, intrecciandosi, compenetrandosi senza però rinunciare mai alla loro irriducibili peculiarità. Un’architettura spesso fatta di meravigliose macchine celibi, di “pezzi unici” eclatanti non replicabili, basata più sulla qualità espressiva e sulla firma degli autori, definiti non a caso archistar, che sulle reali esigenze dei fruitori, a meno che non siano, di nuovo, necessità edonistiche di consumo di merci o di tempo libero.
Nella progettazione dello spazio collettivo contemporaneo è così divenuta essenziale l’esigenza di far coesistere le necessità del singolo corpo umano con la pratica del consumo di massa, delegando alla tecnologia privata della medicina e dei nuovi media quei presupposti collettivi che la modernità aveva espresso in regole edilizie, norme igieniche e standard urbanistici. Nella società contemporanea dell’iperconsumo ci si può e ci si deve “ammassare” fino all’esasperazione, per consumare cibi, oggetti, spettacoli, eventi, cultura e sport, mentre gli spazi “salubri” dei parchi, delle piazze e delle infrastrutture collettive della modernità sono considerati noiosi, obsoleti o superati, a meno che non si convertano essi stessi in luoghi di consumo individuale: i parchi sono infatti diventati luoghi per correre e per andare in bicicletta, per consumare una bibita e per assistere a un evento, quasi sempre a pagamento. Non è un processo del tutto negativo, anzi, ma sfugge ai più la funzione primaria delle aree verdi come luoghi naturali di compensazione, come riserve della biodiversità, come luoghi di igiene urbana e di “stacco” psicologico dalla frenesia della città.
High Line, New York, 2014
La socialità, quella vera, fatta di singoli incontri di qualità tra persone che condividono realmente contenuti, passioni e affetti, nel frattempo si è smaterializzata sempre di più, attraverso gli strumenti privati della rete internet, che paghiamo anche quando appaiono gratuiti. In questa solitudine di massa ci sentiamo tutti protetti dalla tecnica medica e dalla climatizzazione artificiale, invulnerabili a qualsiasi evento naturale o antropico: siamo così pronti a immergerci come singole individualità in spazi urbani e commerciali sovraffollati, stressanti ma eccitanti, a comprimerci come sardine in luoghi artificiali climatizzatiti e protetti dalle intemperie, a confinarci in edifici e spazi aperti meravigliosi controllati dalle telecamere, progettati, o riprogettati, proprio per stupire le masse e indurle a un frenetico consumo edonistico.
Siamo così diventati frequentatori compulsivi di playground per adulti a pagamento: i grandi magazzini, gli shopping center e gli outlet; i parchi tematici e le multisale cinematografiche; i bar-ristoranti per la colazione, il pranzo, l’aperitivo, la cena e il dopocena; le discoteche e le arene per i concerti pop; i centri sportivi di ogni disciplina possibile, compreso il free-climbing e lo sci, da praticare su piste sintetiche costruite all’interno delle metropoli. Ma sono spazi analoghi a questi anche i centri storici, trasformati in mega mall, i parchi naturali, convertiti in spazi esperienziali per sport estremi, i beni del patrimonio naturale-culturale e i musei, mercificati e trasformati in spazi evento, le spiagge, attrezzate a riprodurre esattamente quello stesso tipo di vita urbana a cui apparentemente i bagnanti cercano di sfuggire.
Tutto questo, ovviamente, non poteva durare in eterno. Gli aspetti meno piacevoli della natura e della biologia non potevano essere confinati per sempre dall’architettura e dalla città e, quindi, sono oggi riemerse in tutta la loro potenza distruttiva: l’attuale epidemia del Covid 19 ha annullato lo spazio pubblico, trasformandolo in una sequenza di circonferenza di un metro di raggio con al centro il singolo individuo, che non può più consumare quasi nulla. Gli ex consumatori, ridestati dalla sbornia liberista degli ultimi quarant’anni, fragili, invecchiati e spaventati, si aggirano disorientati nelle strade e nelle piazze delle metropoli, ormai deserte, isolati dai loro simili da distanze di sicurezza e protetti con grottesche mascherine. Attraversano sbigottiti un’ambiente antropico non più familiare, ma percepito alieno e pericoloso, evitando al massimo le opportunità voluttuarie di consumo. La spazialità democratica e ferocemente neoliberista del nuovo millennio, fatta di flussi, di collettivi riti individualisti, di incontri di corpi nei luoghi ludici del consumo, tipica dei lavori di archistar come Gehry, Koolhaas, Hadid, Herzog & De Meuron, MVRDV, ha così improvvisamente perso completamente di senso e non sarà un vaccino a tenerla in vita.
Il potere, ormai incarnato da un autoritario connubio scientifico-politico, ci avvisa che al Covid 19 seguirà il Covid 20, 21 e 22 e niente sarà più come prima. La Biopolitica, insomma, ha nuovamente posto un limite materiale e immateriale ai desideri umani, fatto di distanze fisiche e barriere concettuali all’immaginazione spaziale. Un confine concreto che difficilmente sarà valicabile, perché basato su una nuova percezione della realtà tanto concreta quanto distopica e facilmente influenzabile. Gli spietati standard igienisti del Movimento Moderno, probabilmente, rinasceranno in nuove forme, potenzialmente ancora più autoritarie. Le libertà individuali, così, saranno perennemente limitate dall’insorgere di eventi traumatici naturali, come il climate changing e le nuove epidemie, che non hanno nulla di nuovo se non l’ambiente individualista della postmodernità, del tutto impreparato ad accoglierle sia fisicamente che culturalmente. La natura, matrigna e non più madre, è definitivamente tornata al centro del dibattito e non è affatto una cosa piacevole. Come nelle svolte precedenti, molto di quello che avevamo conquistato verrà inizialmente perso e probabilmente, tra dieci o venti anni, i cittadini di un nuovo e più impaurito Occidente globale guarderanno con nostalgia gli splendenti edifici dell’ultima postmodernità, come il Guggenheim di Bilbao, il CCTV Headquarters di Pechino, il MAXXI e La nuvola di Roma. Li guarderanno esattamente come ammiriamo il Pantheon, i Fori romani, San Pietro, la Cattedrale di Notre Dame, la Tour Eiffel, la Sagrada Família, il Machu Picchu, il Taj Mahal e le Piramidi di Giza. Opere di un passato meraviglioso ma assolutamente distante.
C’è da augurarsi che questo fenomeno di paurosa ed autoritaria ritirata nei confini del nostro corpo e delle nostre case non devasti anche la natura democratica di quei pochi luoghi di vera libertà popolare che qualche politico illuminato ha fornito alle metropoli globali, come per esempio il Parc de la Villette e la piazza del Beaubourg a Parigi, il Superkillen a Copenaghen, l’High Line a New York, la Marquise del Parco di Ibirapuera a San Paolo del Brasile, il lungomare della Barceloneta e tutti i nuovi piccoli e vitali playground urbani dispersi nelle periferie di ogni parte del pianeta, ma non è assolutamente sicuro. In questo panorama terrificante c’è però un effetto secondario non disprezzabile: tornano di attualità i veri luoghi della democrazia: gli ospedali, le scuole, le università, i servizi sociali, le strade e le piazze, tutti da attrezzare alle nuove e drammatiche esigenze. Dopo quarant’anni di tagli al welfare state, gli architetti sono chiamati dalle comunità a re-immaginare gli spazi urbani, alla luce delle nuove tecniche della comunicazione digitale e delle reali esigenze collettive, dimenticando la sbornia neoliberista che negli ultimi decenni li ha liberati da qualsiasi vincolo del reale, a parte il profitto della committenza (politico se pubblica, economico se privata). Per preservare gli spazi di libertà della metropoli contemporanea e per costruirne di nuovi, resilienti a questi traumatici cambianti, c’è infatti bisogno di una rinnovata consapevolezza delle esigenze sociali delle comunità.
Una coscienza politica, nuovamente radicale, che sembra smarrita dai professionisti più in vista, ormai anche abbastanza anziani: quelli che hanno costruito i luoghi e gli edifici più significativi degli ultimi decenni, monopolizzando il settore ed emarginando tutto ciò che non fosse conforme al mainstream neoliberista. Tuttavia, forse c’è all’orizzonte una generazione di architetti che, dopo quella serie impressionante di crisi militari, politiche, economiche, sociali, ambientali e ora sanitarie che il nuovo millennio ci ha regalato, potrebbe essere pronta a ricostruire una nuova coscienza sociale.
Non c’è che sperare!
1. A. Lanzetta, Serie e Cataloghi. Tecnica e masse, in A. Terranova, F. Toppetti, Teorie, figure, architetti del Modernocontemporaneo, Gangemi, Roma 2012, p. 187.
2. C.E.Jeanneret – Le Corbusier, Il viaggio d’oriente, Faenza Editrice, 1974, p.45.
3. In particolare, è interessante la descrizione di Parigi che un giovane Le Corbusier pubblicò sul primo numero de «L’Esprit Nouveau»: «Una volta fissato il limite di densità che un agglomerato urbano può raggiungere, diventa automatico il rifiuto di soluzioni di città disegnate come Parigi, con il suo cumulo di edifici ammucchiati l’uno sull’altro, le sue strade strette piene di rumore, puzza di benzina e polvere». Da: Le Corbusier-Saugnier (1920-21), «L’Esprit Nouveau» n. 1, Editions de L’Esprit Nouveau, Paris 1920-21.
4. Vedi: A. Lanzetta, Opaco Mediterraneo. Modernità informale, Libria, Melfi 2016, pp. 36-77; Le Corbusier, La Ville Radieuse, Éditions de l’Architecture d’Aujourd’hui, Boulogne-sur-Seine 1935.