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]]>Nel XIX secolo andare nei boschi, scalare le montagne, attraversare intere vallate era privilegio di pochi. Una possibilità consentita solo ai ceti sociali più abbienti, ai pionieri in cerca di oro, alle carovane che affrontavano i rischi delle lunghe traversate dalla East Coast per raggiungere i territori fertili della Frontiera Nordamericana. I fotografi, i geografi ed i botanici mappavano le nuove terre, conquistate con il genocidio delle popolazioni indiane da parte dei bianchi, attraverso spedizioni geografiche che celavano in realtà interessi militari ed espansionistici. La fotografia aveva assunto un ruolo importante nella fondazione dei primi parchi nazionali nordamericani come Yellowstone (1872) e Yosemite (1890). Fotografi pionieri come Timothy O’ Sullivan e Carleton Watkins contribuirono a preservare questo patrimonio naturale, attraverso le loro campagne fotografiche. Non solo, ma le fotografie in grande formato di Mammouth Hot Springs e di El Capitan definirono una nuova sensibilità nei confronti di quei paesaggi monumentali, sviluppando negli anni a venire, soprattutto in California, la cultura ambientalista che poi contagiò tutto il mondo1 .
Tuttavia nel corso dei due secoli successivi, la nostra avidità nel ricercare costantemente il profitto, ha determinato un consumo di suolo eccessivo e un livello di inquinamento che ha generato il cosiddetto effetto serra2. Ora la situazione è grave e greve, non c’è più tempo. C’è una immagine iconica che ha ben raccontato cosa ci aspetterà, anche in Italia. E’ quella del ministro degli esteri dell’isola di Tuvalu, Simon Kofe, immerso in acqua per raccontare il dramma di milioni di abitanti del Pacifico in occasione dell’inutile Cop 26 di Glasgow. Sarà dunque la natura che governerà le scelte presenti e future, indipendentemente dalla volontà della classe politica internazionale, impegnata a mantenere lo status quo, soprattutto Cina, Russia e India in continua espansione, con tempi molto lunghi per ridurre le emissioni.
Le recenti alluvioni e i tornado che, con maggiore frequenza, colpiscono il nostro paese, trasformandolo in uno scenario apocalittico alla Roland Emmerich (The day after tomorrow, 2012), non hanno determinato nessuna scelta politica per ridurre i rischi, ad esempio, dell’innalzamento del livello del Mediterraneo, evento che cambierà totalmente la nostra geografia come evidenzia la mappa elaborata dall’Enea al 21003 .
Indubbiamente lo sviluppo urbanistico delle coste e delle alpi ci ha consegnato un territorio denso, sovradimensionato negli usi, senza avere consapevolezza dei danni che scelte speculative hanno generato. Il modello di sviluppo deve cambiare.
Che ruolo ha la pianificazione? E l’architettura?
Sicuramente il tema del cambiamento climatico non appare attrattivo per gli urbanisti e gli architetti italiani, ad eccezione della ricerca sperimentale ventennale di Anna Rita Emili sul tema del disaster. Fare ricerca implica serietà, abnegazione, fatica, caratteristiche che non appartengono all’architetto e alle architette tipo che amano usare parole anglofone per caratterizzare il proprio lavoro: smart city, green, smart building, open source, vision.
Siamo convinti che l’architettura si faccia con gli slogan?
In questo periodo di vision e di smart city, ci sono alcuni architetti, ovviamente nel nordeuropa, che percepiscono quanta l’ostilità contro la natura sia ormai inutile, così cambiando approccio si porta l’architettura a lavorare in sinergia proprio con la natura. E’ il caso di OKRA Landscapes che lavora in Olanda dove ha realizzato, nella cittadina a vocazione balneare di Katwijk, un nuovo paesaggio naturale per difendere la costa. Sono dune artificiali per rimodellare il paesaggio, ridurre l’impatto delle maree e quindi definire un nuovo spazio pubblico per il tempo libero, proteggendo il villaggio. La situazione olandese non è diversa da quella di alcune aree italiane, come il Mar Tirreno o il Mar Adriatico che, nei prossimi decenni, saranno soggetti ad una drastica erosione dei litorali con relativo innalzamento del livello del mare. Se da una parte Venezia ha il Mose, con tutte le contraddizioni che si porta dietro, altri medi e piccoli centri, non solo non hanno quelle risorse, ma neanche la visibilità mediatica della città lagunare. Pensiamo ad Alassio in Liguria, dove ogni anno viene fatto il ripascimento della spiaggia, un rattoppo oneroso e non risolutivo sul lungo periodo.
Diversamente i danesi Tredje Natur (Terza natura) hanno lavorato alla scala urbana con il progetto Malmø 2030. Nato in base agli accordi sul clima di Parigi, agisce sull’area di Norra Bunkeflo dove sono previsti interventi che offrono spazio per acqua piovana, biotopi urbani, connessioni ricreative e mobilità verde. Cinque spazi urbani centrali si collegano all’intero Bunkeflostrand con piste ciclabili, canali e natura urbana.
Cosi i progettisti hanno “formulato una strategia concreta su come il nuovo distretto possa diventare un esempio di modello sostenibile per la realizzazione degli Obiettivi SDG delle Nazioni Unite per essere all’altezza degli obiettivi 2030 dell’Accordo di Parigi[…]Al centro del piano di Norra Bunkeflostrand, il corridoio verde che va da est a ovest gestirà l’acqua piovana mantenendola nelle pianure del terreno e garantendo edifici critici e infrastrutture per le inondazioni. Allo stesso tempo, il corridoio crea spazio per nuova biodiversità, funzioni ricreative e accesso al grande ecosistema dei prati”. Inoltre l’uso del legno come materiale costruttivo consente quell’avvicinamento alla sostenibilità non più derogabile.
Tredje Natur, Malmø 2030, 2019-ongoing
L’auspicio è l’inversione di rotta, innanzitutto cambiando la pianificazione urbanistica, smettendo pratiche dannose come porticcioli turistici, nuovi insediamenti litoranei, bensì attivando demolizioni e ricostruzioni mirate a migliorare la qualità degli edifici, non solo in termini energetici ma anche funzionali, in relazione alle mutate esigenze dei fruitori, usando materiali che riducano significativamente le emissioni nocive. Uno sforzo che vede coinvolti tutti, comuni, associazioni ambientaliste, proprietari immobiliari e progettisti, senza il quale la Terra porterà, giustamente, la specie umana all’estinzione. Il cambio di paradigma deve necessariamente passare dalla politica che non può più ignorare gli effetti del cambiamento climatico, con ricadute sulla nostra quotidianità: dalla mobilità alle case. Anche se i segnali dal mondo dell’architettura non sono incoraggianti, come ha dimostrato la recente biennale di Venezia, con il progetto di SOM per Marte. Non contenti di aver distrutto un pianeta, tentiamo di fare altrettanto con il pianeta rosso. Forse è una missione impossibile quella di non aumentare le superfici costruite nelle città, forse bisognerebbe costruire in percentuale alla demolizione, in modo da mantenere un equlibrio. Le spinte dal basso, esito di un processo partecipativo reale e competente, può orientare la politica verso una società dei diritti e delle uguaglianze. Sempre nell’ambito veneziano l’artista danese Olafur Eliasson, attento alla salvaguardia ambientale attraverso i suoi lavori, propone il progetto Future Assembly (4), nato dalla collaborazione delle Nazioni Unite. “Future Assembly invita tutti noi a re-immaginare nuovi percorsi per la nostra architettura di governance globale- scrive il segretario Guterrez- e a rafforzare il multilateralismo in modo che sia più interconnesso e inclusivo. In questo momento cruciale per le persone e per il pianeta, le Nazioni Unite sono determinate a lavorare con tutti i partner per sostenere i nostri valori condivisi, affrontare sfide comuni e cogliere le opportunità del secolo a venire”.
Così Eliasson e l’architetto Sebastian Behmann, fondatori di Studio Other Spaces, provano a immaginare un pianeta oltre l’umano. “Quali sono gli interessi di un albero?-si domanda Eliasson- I bisogni di una pulcinella di mare? Cosa vuole una cascata? E quali sono, in un mondo definito dagli umani e dalla nostra tenace fede nell’eccezionalismo umano, i loro diritti non umani? È urgente porsi queste domande, dal momento che la crisi climatica colpisce tutto sul pianeta: esseri umani, animali, piante e oggetti inanimati”.
Future Assembly, installazione di Olafur Eliasson e Sebastian Behmann, Biennale di Venezia, 2021, fotografia di Marco Introini
Siamo pronti al cambio di paradigma?
Cambiamo prospettiva, noi come cittadini, attivisti, politici, intellettuali, parte di una comunità locale che agisce sul globale, attuando la rinuncia alla distruzione, in favore di un ritorno etico e radicale alla natura, come aveva cercato di fare Henry D. Thoureau, per ritrovare noi stessi.
6.2.22
1. Proprio la California ha rappresentato l’avanguardia dell’ambientalismo a seguito della esplosione di un pozzo petrolifero a Santa Barbara nel gennaio 1969. Questo disastro determinò una ribellione, soprattutto di giovani, e venne instaurato il 22 aprile 1970 il primo Earth Day. Nel 1961 venne fondato in Svizzera il WWF mentre nel 1971 in Canada nacque Greenpeace.
2. Si veda: https://www.treccani.it/enciclopedia/effetto-serra_%28Enciclopedia-della-Scienza-e-della-Tecnica%29/
3. Si veda: https://www.enea.it/it/Stampa/File/enea-innalzamento-mediterraneo.pdf
4. Si veda: https://www.studiootherspaces.net/futureassembly/
Immagine di copertina: Simon Kofe, Isola Tuvalu
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]]>Nel pieno della società del benessere degli anni sessanta e settanta le profezie sui limiti dello sviluppo suonano come un canto stonato che pone un nuovo orizzonte problematico e di incertezza sul futuro. La fiducia nel progresso tecnologico infinito, che ha attraversato alcuni secoli di industrializzazione e urbanizzazione del mondo, si scontra con lo spazio finito dell’ecosistema terrestre, con il progressivo esaurimento delle risorse e la degradazione dell’ambiente. Di fronte alla finitezza dello spazio il problema è dilazionato nel tempo, in un continuo spostamento in avanti, dalle generazioni presenti verso quelle future. Il futuro diventa la vera discarica della società del benessere, avvicinando sempre di più il punto di non ritorno.
Senza più spazio (senza nuovi mondi da esplorare) e senza più tempo a disposizione (senza futuro) anche le utopie sembrano esaurire il loro ruolo propulsivo 1 . Nelle tarde utopie del XX secolo l’ottimismo tecnologico, che aveva caratterizzato la stagione dell’urbanistica progressista, sembra lasciare spazio a sottintese profezie apocalittiche di una tecnologia della sopravvivenza: sofisticati dispositivi protesici, in un ambiente completamente artificiale, denaturalizzato e climatizzato, proteggono la vita umana dall’inquinamento atmosferico e da eventuali attacchi nucleari, come nella cupola geodetica di Buckminster Fuller che ricopre la parte centrale di Manhattan. Quello stesso spazio sul quale, qualche anno più tardi, Kevin Lynch immagina un nuovo paesaggio formato da piccole comunità di villaggi che vivono sulla pesca. Si tratta degli ultimi sussulti di immaginari utopici, nostalgici o futuristici, riassorbiti come futili digressioni nell’infinito presente della condizione posturbana. L’orizzonte del post-urbano diventa dunque orizzonte del post-utopico.
Principio responsabilità
Nel contesto della mutata consapevolezza dei potenziali effetti catastrofici dell’azione dell’uomo sull’ambiente, Hans Jonas riabilita l’utopia (solo) come polo (negativo) della dialettica con la responsabilità. Muovendo dalla critica a Il principio speranza di Ernst Bloch, Jonas contrappone all’utopia una nuova etica della responsabilità2 . Ad essere messa in discussione è l’idea di progresso, nei suoi legami con l’utopia, come fiducia illimitata nella tecno-scienza: “la dinamica del progresso tecnologico mondiale in quanto tale racchiude in sé, tendenzialmente se non programmaticamente, un utopismo implicito”, il quale costituisce “la tentazione più pericolosa per l’umanità”. Di fronte all’immodestia del sogno tecno-utopico, i cui sviluppi hanno condotto sugli abissi della catastrofe ecologia e antropologica, “il principio responsabilità contrappone il compito più modesto, dettato dalla paura e dal rispetto, di preservare all’uomo … l’integrità del suo mondo, contro gli abusi del suo potere”.
Il richiamo alla “cautela” diventa dunque appello necessario di fronte alla presa di coscienza della “vulnerabilità della natura davanti all’intervento tecnico dell’uomo – una vulnerabilità insospettata prima che cominciasse a manifestarsi in danni irrevocabili”. Le nuove dimensioni della responsabilità, che investono l’intera biosfera del pianeta, impongono dunque un atteggiamento di cura rispetto a questa condizione di vulnerabilità, che si declina come “tutela dell’eredità” e “salvaguardia dal degrado” contro l’agire stesso dell’uomo, poiché “un’eredità degradata coinvolgerebbe nel degrado anche gli eredi”.
La cura richiamata da Jonas permette di ritrovare, per altra via rispetto all’utopia, quel filo di speranza necessario ad ogni agire. Ma appunto di un filo si tratta: quello stesso filo che sembra orientare le retoriche (il bla-bla-bla) e le politiche ambientali istituzionali (promosse a vari livelli governativi) verso una conversione ecologica graduale, fatta di piccoli passi, di azioni compensative e mitigative che non mettono in discussioni i presupposti dello sviluppo economico. La responsabilità, senza utopia, sembra provocare una pericolosa divergenza: l’iperrealismo politico, fatto di accordi al ribasso, da una parte; l’ambientalismo radicale dall’altra, che storicamente sconta le difficoltà di tradurre le energie provenienti dalle mobilitazioni sociali in forme e azioni di governo alternative ai modelli di sviluppo dominanti.
Senza voler entrare nelle complesse relazioni che legano Il principio speranza di Bloch e Il principio responsabilità di Jonas, mi interessa qui sottolineare come queste due opere, sfalsate nel tempo, concorrano a delineare un campo di riflessione attuale (sia pure asimmetrico) di fronte alle questioni ambientali che premono sulla nostra epoca. La polarizzazione sulla responsabilità e sul realismo dell’azione politica rischiano di svilire l’altro capo di riflessione dialettica costituito dall’utopia. Di fronte alla crisi eco-antropologica del pianeta non c’è dunque più spazio per l’utopia? Quest’ultima può sopravvivere soltanto come sfavillante sfoggio ipertecnologico per futuribili città galleggianti nell’oceano, artificiali oasi urbane nel deserto, o presidi urbani nella foresta amazzonica? L’utopia si configura dunque ancora e solamente come “isola” (o enclave?) nel mare magnum dell’urbanizzazione planetaria, colonizzando oceani, foreste e deserti? Oppure l’utopia si riconfigura come sottili strati smart e green che si infrappongono e sovrappongono agli spazi delle concentrazioni metropolitane e delle urbanizzazioni diffuse?
Principio territoriale
Nel valzer delle profezie di principi si colloca a pieno titolo il testo-manifesto di Alberto Magnaghi Il principio territoriale3. Nello spazio dialettico tra utopia e responsabilità il principio territoriale assume una posizione intermedia, recuperando sia la dimensione utopica sia la preoccupazione della catastrofe eco-antropologica indotta dagli sviluppi della tecno-scienza. Di fronte ai limiti della politica istituzionale e dell’ambientalismo radicale nell’affrontare la crisi ambientale, Magnaghi avanza l’ipotesi che la conversione ecologica “sia possibile solo ricostruendo nella sua complessità il rapporto tra abitanti e territorio abitato, rimettendo in discussione tutti gli elementi di produzione dello spazio”. Si tratta di spostare l’attenzione dalla natura al territorio in quanto ambiente dell’uomo: “incentrare il progetto di futuro sulla salvezza dell’ambiente dell’uomo … anziché sulla salvezza della natura tout-court, ci conduce ad affrontare la conversione ecologica nella prospettiva e con gli strumenti di una nuova civilizzazione antropica”. In quanto esito di processi coevolutivi di lunga durata tra azioni culturali dell’uomo e ambiente naturale, il territorio costituisce “un immenso patrimonio culturale collettivo … dotato di identità percepibile con i sensi attraverso i suoi paesaggi”. Il territorio rappresenta “il bene comune per eccellenza, da trattare come tale per le generazioni future”. Dunque è soltanto dalla cura (dall’avere cura) di questo bene che passa la sopravvivenza della vita umana: “occorre agire nella consapevolezza che Gaia, la Terra come sistema vivente, come già accaduto in passato, troverà certamente nuovi climax oltre la specie umana, e che dunque ciò di cui è urgente occuparci è, invece, l’ambiente dell’uomo, il territorio in quanto condizione di sopravvivenza ed elevamento della qualità della vita umana sul pianeta”.
Oltre all’ambito della responsabilità di fonte alla crisi ambientale, vorrei mettere in evidenza alcuni aspetti del principio territoriale pertinenti con una formulazione utopica. In maniera esplicita Magnaghi recupera la suggestione dell’utopia concreta di Ernst Bloch4 : un’utopia coi piedi per terra che si costruisce come contromossa che contraddice il cattivo presente. La contro-mossa in Magnaghi è rappresentata da un “conto-esodo”, che si manifesta nella forma (classica) del ritorno: ritorno al territorio, ritorno ai luoghi (un movimento opposto all’esodo durato un paio di secoli negli spazi della città industriale e postindustriale). Il contro-esodo implica un’esplorazione lenta e profonda dei territori: “viaggi nel tempo, nell’anima dei luoghi, per ritrovare le ragioni smarrite del futuro”. Esplorazioni che restituiscono la permanenza dell’armatura di matrice medievale dei territori: è dunque “al primo sorgere dei Comuni, culla dello spazio del luoghi, che bisogna guardare per ritrovare il codice genetico originale”, codice che possa guidare la metamorfosi delle metropoli in reti di villaggi urbani solidali che trovano nell’agricoltura e nell’artigianato la loro base produttiva di partenza. Un contro-esodo che nutre la “visione di un pianeta brulicante di bioregioni”.
In questa contromossa, di cui sono stati restituiti brevi cenni, è possibile riconoscere elementi dell’utopia regressiva, o se si preferisce (facendo riferimento alle categorie di Françoise Choay) culturalista. Un lungo filo che risalendo indietro nel tempo conduce fino a News from Nowhere di William Morris: la visione della metropoli londinese trasformata in un’arcadica homespun-city utopica: una costellazione di piccoli villaggi in una società agricolo-artigianale nella valle del Tamigi. Una visione, contrapposta al degrado dell’ambiente industriale, in cui è possibile cogliere in forma embrionale il nesso fra utopia politica e cura dell’ambiente dell’uomo: “uno smodato amore per la crosta e la superficie della Terra su cui dimorano gli uomini”.
02.02.22
1. Per Massimo Cacciari “la stagione del confronto creativo tra scienza e utopia si chiude col sessantotto”, M. Cacciari, P. Prodi, Occidente senza utopie, Il Mulino, Bologna, 2016, p. 128.
2. E. Bloch, Das Prinzip Hoffnung, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1959; trad. it., Il principio speranza, Garzanti, Milano, 1994. H. Jonas, Das Prinzip Verantwortung, Insel, Frankfurt am Main, 1979; trad. it., Il principio responsabilità, Einaudi, Torino, 1990.
3. A. Magnaghi, Il principio territoriale, Bollati Boringhieri, Torino, 2020.
4. L’utopia concreta è definita da Bloch come “un’utopia anticipatrice, per nulla coincidente con il fantasticare astrattamente utopico, e nemmeno condannata all’immaturità del socialismo meramente astratto e utopico”, E. Bloch, Il principio speranza, cit., p. 172.
Immagine di copertina: Il Tamigi, estate 2018, fotografia di Andrea Vergano
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]]>Nel 2012 l’uragano Sandy ha colpito duramente alcune zone costiere del New Jersey e di New York. Il temporaneo innalzamento del livello del mare – fino a 4 metri – ha provocato danni enormi alle comunità che le affollano. Una volta corrisposte le immediate necessità degli abitanti, occorre affrontare la prospettiva della ricostruzione, configurando scenari futuristici e futuribili. Una volta di più, considerando la genesi delle calamità, queste occasioni reclamerebbero un’autentica assunzione di responsabilità, personale e collettiva, per attuare un nuovo rapporto con la natura.
Per la ricostruzione post-Sandy, nella primavera del 2013 è stato lanciato il concorso Rebuild by Design. Nato da un’idea del segretario dello U.S. Department of Housing and Development (HUD) Shaun Donovan, ha coinvolto oltre alla Hurricane Sandy Rebuilding Task Force anche la Rockefeller Foundation e un gruppo di esperti di pianificazione territoriale e regionale. Attraverso attività di studio, pianificazione e progettazione urbano-architettonica, attuandosi per fasi, doveva sviluppare proposte per la ricostruzione delle aree colpite, improntate sul principio della resilienza. Le potenziali aree di intervento erano oltre quaranta. Completando l’iter in appena un anno, nel giugno 2014 sono stati assegnati premi e finanziamenti.
Piuttosto che leggere la sfida posta dal concorso nei suoi obiettivi espliciti, è più opportuno considerare cosa poteva rappresentare: la possibilità di migliorare le condizioni degli insediamenti con una prospettiva lunga generazioni, ma anche l’occasione di ripensarli in modo radicale. Il concorso avrebbe potuto configurare un laboratorio per la ricerca di nuove forme concrete di compromesso con la natura. Da questo punto di vista, il giudizio è negativo. Solo l’effetto sull’approccio delle amministrazioni federali e locali ai grandi interventi di pianificazione del territorio è motivo di ottimismo: si è dimostrata, infatti, l’utilità e il valore di uno stretto coordinamento, come mai era stato compreso e accettato1 .
Le criticità sono frutto di altri aspetti dell’impostazione del processo. La libera scelta dei siti ha penalizzato quelli di minore appeal: le sei aree premiate con un grant sono tutte all’interno o nei dintorni della città di New York. Logica simile per la selezione dei team: non sono stati valutati concept o dichiarazioni di intenti, ma solo il profilo – o forse, la fama. Le buone proposte dello star system dell’architettura, ancorché imperfette, sono state abbandonate nelle mani delle amministrazioni locali, coperte da un finanziamento molto parziale. Infatti, il programma delineava una fase di revisione delle proposte, producendo un rapido decadimento delle aspirazioni degli interventi, soprattutto intorno al tema della natura e dell’impatto dei cambiamenti climatici. La revisione nasceva da una debolezza strutturale dell’operazione, cioè la separazione delle fasi della progettazione e del finanziamento degli interventi. A quel punto, ogni cambiamento è stato determinato esclusivamente in ottica economica, con tagli e ridimensionamenti. Ogni altra risorsa, peraltro, andava reperita sul mercato.
The BIG Team (2013). BIG U, master plan complessivo.
BIG U2 è stata la proposta più emblematica e dibattuta. Lo scenario elaborato dallo studio BIG ridisegnava la costa sud-est di Manhattan attraverso una serie di funzioni e spazi pubblici, concepiti come aree di espansione temporanea per il mare. Le barriere rigide erano limitate quanto più possibile e l’intervento si armonizzava con lo stato delle aree e dei contesti, intervenendo poi nella direzione delle necessità espresse dalla comunità, coinvolta attivamente nel concorso. Portata sul campo, l’operazione si è dimostrata fragile, rivelando anche una certa immaturità di fondo. La fase realizzativa, affidata all’amministrazione del sindaco Bill de Blasio, è iniziata mettendone fortemente in discussione la fattibilità, sulla base di costi e tempi necessari. BIG U è stata divisa in due progetti isolati: East Side Coastal Resiliency (ESCR)3 e Lower Manhattan Coastal Resiliency (LMCR)4 . Questo processo ha visto una profonda revisione degli intenti iniziali, sostituiti da una diversa impostazione progettuale: l’idea di zone porose, adatte alla temporanea inondazione del mare, è stata soppiantata da una strategia fatta di terrapieni e argini rigidi. Per l’East River Park ciò si è tradotto nella distruzione del parco attuale che sarà ricoperto da circa 3 metri di nuova terra. Peraltro, come racconta Michael Kimmelman5 , si è tradito il processo partecipativo attivato all’interno di Rebuild by Design: le divisioni create nella comunità tra chi accetta il compromesso del progetto imposto dalle autorità e chi lo considera una soluzione inaccettabile contraddicono gli intenti del concorso stesso.
L’ultima versione di LMRC – ufficializzata dall’amministrazione de Blasio il 29 dicembre 20216 –disegna per le aree di Seaport e Financial District una soluzione di compromesso che salva alcuni tra gli interventi originali. È la conseguenza delle polemiche nate dopo la proposta di creare una fascia larga circa 150 metri di nuovo suolo all’interno dell‘East River7 , sempre con la logica del semplice rialzo di quota; un approccio che ha poi generato ulteriori incubi8 . Era antitetica al progetto di BIG – che non comportava alcuna reclamation, cioè nessun nuovo ampliamento della terraferma nell’acqua – ma soprattutto all’idea di una ristrutturazione resiliente del territorio.
AKRF, BIG e New York City (16 dicembre 2019). East Side Coastal Resiliency Project, nuovo East Side Park
Rebuild by Design ripropone criticità sistemiche. Ha finito per riprodurre scenari e soluzioni della carbon form9 : contribuiscono in pieno alla perpetuazione del paradigma economico-insediativo che ha determinato la crisi attuale, in totale conformità con la logica del neoliberismo – mercato, merce, massimizzazione di crescita/sviluppo attraverso estrazione e consumo di risorse. L’involuzione vissuta dalle proposte descrive questa direzione, come dimostra il caso di New York: la necessità di agevolare enormi profitti conduce ad aberrazioni come la prima variante per Lower Manhattan. Le soluzioni che prevedono innalzamento del suolo e costruzione di argini sono a mala pena resistenti e per nulla resilienti. In prossimità di insediamenti urbani densi, nella morsa di forti interessi economici, è più difficile inserire progetti di parziale rinaturalizzazione, come quelli che sviluppa lo studio Turenscape – tra gli altri, il Sanya Mangrove Park10 . L’attenzione verso la natura, principio progettuale e obiettivo da raggiungere, spesso scompare dai progetti man mano che questi si avvicinano alla concretizzazione, essendo estranea al paradigma neoliberista. Nel caso di operazioni-manifesto, come Rebuild by Design, la conseguenza non è solo il rischio di aggravare le condizioni del contesto, ma anche di avvelenare il tentativo di incrementare la consapevolezza collettiva sui cambiamenti climatici e sul confronto inesorabile con la natura, sabotando la costruzione di autentici e concreti processi equilibrati di intervento.
L’occasione del concorso dimostra una volta di più come non abbia senso cercare soluzioni all’interno del quadro culturale della carbon form, che è la causa della crisi climatica. Per fermare il processo e, addirittura, invertirlo, occorre costruire nuove ideologie e nuove tipologie: una climate form11, seguendo la fortunata definizione di Lizzie Yarina. L’approccio deve cambiare radicalmente, fondando i processi insediativi sul rapporto con la natura e tenendoli separati dalla logica della crescita/sviluppo. Non è direttamente lo scenario che Zosia Dzierzawska e Charlotte Malterre-Barthes hanno messo in forma di fumetto12 – un mondo a consumo 0 – ma è il punto da cui partire per pensare a qualcosa di più grande. Ragionare in termini di “make for nature” è ancora più ambizioso, perché esprime implicitamente la necessità di realizzare una rivoluzione in tutti gli interventi di insediamento e costruzione, estendendo il cambiamento culturale ad ogni ambito delle tecniche, sia progettuali che realizzative.
Rebuild by Design ha mostrato, nel complesso, mancanza di coraggio, ma soprattutto il venir meno, da un certo punto in avanti, della carica sperimentatrice che è intrinsecamente necessaria per operazioni che, come questa, avrebbero potuto segnare uno scarto con la cultura e la pratica dello status quo. Non erano ancora i tempi del Green New Deal statunitense o del programma Next Generation EU, mancava la precisione del manifesto di The Architecture Lobby13 . Tutti questi fattori possono rappresentare una svolta. In effetti, alcune delle correzioni in corsa che si stanno verificando sui progetti seguiti al concorso sono dovute proprio a questo ulteriore spostamento che si registra in ambito culturale, sociale e politico. C’è solo da sperare che si mantenga la direzione, con perseveranza e grande determinazione.
01.02.2022
1. Questo sforzo è valso l’assegnazione a Rebuild by Design del Walter Gellhorn Innovation Award (assegnato dalla Administrative Conference of the United States, ACUS) e del General Services Administration (GSA) award, entrambi del 2015.
2. Si veda: http://www.rebuildbydesign.org/our-work/all-proposals/winning-projects/big-u
3. Si veda: https://www1.nyc.gov/site/escr/index.page
4. Si veda: https://www1.nyc.gov/site/lmcr/index.page
5. M. Kimmelman, What Does It Means to Save a Neighborhood?, in The New York Times, 2 Dicembre 2021. https://www.nytimes.com/2021/12/02/us/hurricane-sandy-lower-manhattan-nyc.html [Ultimo accesso: 25 gennaio 2022].
6. De Blasio Administration Releases Climate Resilience Plan for Financial District and Seaport, in “The Official Website of the City of New York”, (29 dicembre 2021.) [Online] https://www1.nyc.gov/office-of-the-mayor/news/875-21/de-blasio-administration-releases-climate-resilience-plan-financial-district-seaport [Ultimo accesso: 25 gennaio 2022].
7. B. de Blasio, My New Plan to Climate-Proof Lower Manhattan, in “Intelligencer”, 13 marzo 2019. https://nymag.com/intelligencer/2019/03/bill-de-blasio-my-new-plan-to-climate-proof-lower-manhattan.html [Ultimo accesso: 25 gennaio 2022].
8. J. M. Barr, 1,760 Acres. That’s How Much More of Manhattan We Need, in “The New York Times”, 14 gennaio 2022. https://www.nytimes.com/2022/01/14/opinion/eric-adams-manhattan-expand.html [Ultimo accesso: 25 gennaio 2022].
9. E. Iturbe, Architecture and the Death of Carbon Modernity, in “Log”, 47, 2019, pp. 10-23.
10. G. De Francesco, Parco di Mangrovie a Santa City. L’infrastruttura verde per una città più resiliente, in “L’industria delle costruzioni”, 479, 2021, pp. 50-57.
11. L. Yarina, Toward Climate Form, in “Log”, 47, 2019, pp. 85-92.
12. Z. Dzierzawska, C. Malterre-Barthes, Architecture without Extraction, in “The Architectural Review”, 1486, 2021, pp. 36-40.
13. T-A-L Green New Deal Working Group, in “The Architecture Lobby”. http://architecture-lobby.org/project/t-a-l-green-new-deal-working-group/ [Ultimo accesso: 25 gennaio 2022].
Immagine di copertina: New York City, Mayor’s Office of Climate Resiliency (29 dicembre 2021). Financial District and Seaport Climate Resilience Master Plan, vista a volo d’uccello verso sud.
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]]>Un paesaggio quasi surreale si è presentato agli occhi dei frequentatori della montagna durante la stagione invernale 2020-2021: l’inverno vissuto sulle Alpi in piena crisi pandemica. “I cartelli delle piste sono immersi in metri di neve vergine e le loro frecce indicano solo powder [polvere] a perdita d’occhio1 . Infrastrutture ferme e abbandonate, cabinovie, seggiovie e ski-lifts vuoti. Tracce solitarie di frequentatori abituati alla fatica della salita come unici segni di passaggio.Tutto quasi deserto, o almeno lontano dall’immaginario a cui eravamo abituati negli ultimi decenni, da quando anche la montagna è stata travolta in larga misura da trasformazioni del paesaggio per adeguarlo alle numerose necessità di un turismo di massa. Ora tutto sembra tornato ad una presunta normalità. O quasi. E se quell’inverno avesse rappresentato una vera occasione, più che una contingenza negativa e transitoria? Un’occasione per ripensare la montagna e le sue infrastrutture, ferme e abbandonate, ma da molto tempo espressione di un modo di vivere sul pianeta che non ci rappresenta più, modello di un turismo di massa e di un consumo veloce di territori fragili, consapevolmente colpevole. Ad un osservatore attento, ad un frequentatore silenzioso, quell’inverno, lo scorso, ha fatto nascere numerosi interrogativi, ha risvegliato dubbi e ha confermato tendenze già in atto da decenni. Come ogni crisi, anche quest’ultima, non giunge inaspettata, così ci sembra, ma in realtà rappresenta solamente un’accelerazione vertiginosa di qualcosa che non volevamo vedere, perché eravamo troppo distratti.
Gli impianti abbandonati, le località sciistiche deserte pensate quasi totalmente da chi ha teorizzato, a partire dagli anni ’50 del secolo scorso, il turismo di massa stagionale, le devastanti e miopi trasformazioni in nome di un progresso che avrebbe dovuto investire il mondo intero, ma che ha poi unicamente illuso i suoi abitanti e devastato territori fragili sovvertendo equilibri antichi, oggi ci danno una nuova possibilità. Dobbiamo solo essere in grado di vederla e di coglierla. Come ripensare l’accesso e la fruizione del paesaggio alpino? Che fare con queste infrastrutture inutilizzate? Come ripensare queste unità e le connessioni tra loro in uno spazio unico e di “aria sottile” attorno? Da queste domande e da molte altre potrebbero nascere nuovi temi progettuali, occasioni per progettisti contemporanei, cercando nuove soluzioni a nuovi problemi, e non nuove soluzioni a vecchi interrogativi per questi lasciti che hanno perso la loro primigenia funzione di “garanti del tempo libero”. Che cosa è poi, oggi, un’infrastruttura per il tempo libero?
Tutti elementi di una realtà tanto significativa quanto irrisolta e scomoda. La stagione pandemica sulle Alpi però non è stata l’unica a mostrare l’inadeguatezza di un modello di fruizione ormai tramontato. È stato sicuramente un caso corale, che ha accomunato se non tutto il continente alpino, Stati e icone del turismo invernale sottoposti a restrizioni mai accadute prima a questa scala. Esistono però numerosi esempi di piccole, minute, sporadiche, ma molto significative crisi sul territorio alpino, casi di impianti abbandonati, di località turistiche fantasma, di paesaggi oggi surreali. Località sciistiche a bassa quota ormai calde, dove la neve cade sporadicamente, abbandonate da decenni a causa dei numerosi effetti del cambiamento climatico. (Si è calcolato che ogni aumento di temperature di 1°C in pianura corrisponda ad un aumento di 2°C sulle Alpi)2
E ancora, casi di mala gestione, casi di fallimento, casi di impianti progettati per grandi eventi e poi abbandonati una volta conclusi. Crisi che si sovrappongono alla più recente. Moniti potenti per il futuro del paesaggio alpino. Il problema talvolta è anche difficile da vedere, non tutti conoscono luoghi ora remoti e eliminati dalle nostre mappe mentali. Per questo, una ricerca e una mappatura generale che restituiscano il peso del problema in un territorio complesso e sovranazionale come le Alpi sono necessarie, urgenti. Oggi ancora mancano. La realtà del paesaggio alpino è stata molte volte l’ingenua continuazione dei nostri modi di vivere e di costruire che quotidianamente sperimentiamo in un contesto urbano. Accessi facilitati, parcheggi di cemento multipiano, ascensori comodi e impianti di risalita cha ci permettono di esperire la pendenza delle montagne solo nel senso della discesa. Comodità all’ennesima potenza. Una serie di trasformazioni e di distorsioni tutte a buon titolo ascrivibili alla nostra stagione: l’Antropocene. In una visione di trasformazione che sappia cogliere le energie positive dei diversi territori dovremmo guardare al paesaggio alpino, partendo dal patrimonio attuale.
Lontane da facili moralismi o nostalgie per tempi lontani, le trasformazioni ritratte criticamente dallo sguardo lucido del fotografo italiano Walter Niedermayer “si fondano sulla mutazione che il paesaggio alpino ha subito e continua a subire, trovano la ragion d’essere e la loro identità proprio in questo elemento, nella presenza di qualcuno o qualcosa che ha cambiato (e continua a cambiare) l’elemento naturale, fino a far scomparire – o comunque a modificare – persino la roccia e il ghiaccio”, nell’intendo di comprendere e mostrare “la dialettica tra permanenza e impermanenza, tra ciò che esiste da sempre e ciò che ad esso si aggiunge, modificandolo, con tutte le conseguenze – sociali, storiche, scientifiche, e non solo banalmente cromatiche – che ciò implica”3 .
4.2.22
1. M.Manzoni, Is the end of the world as we know it? La follia della normalità, in “Skialper”, n.134, 2021
2. C.Tomaso, Seduced and abandoned: tourism and climate change in the Alps,
https://www.theguardian.com/environment/2019/dec/09/seduced-abandoned-tourism-and-climate-change-the-alps?CMP=share_btn_fb
3. W.Guadagnini, Trasformazioni, in Walter Niedermayer, Transformations, Silvana Editoriale, Milano 2021 p.4
Bibliografia
L.Gibello, Cantieri d’Alta Quota. Breve storia della costruzione dei rifugi sulle Alpi, Lineadaria 2011
S.Girodo, Archeologia sciistica: il monito di una eredità scomoda, in Dislivelli, 30 aprile 2013
http://www.dislivelli.eu/blog/archeologia-sciistica-il-monito-di-uneredita-scomoda.html
– A.Denning, Skiing into Modernity. A Cultural and Environmental History, UCPress 2014
– A.De Rossi, La costruzione delle Alpi. Il Novecento e il modernismo alpino (1917-2017), Donzelli, 2016
– T.Clavarino, Seduced and abandoned: tourism and climate change in the Alps, “The Guardian”, 9 Dec 2019
– AAVV, A different winter, “Skialper”, n.134, 2021
Immagine di copertina: Beaulard4, Bardonecchia (To), fotografia di Stefano Girodo.
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]]>“Make for Nature” è fare per noi stessi perché noi siamo natura. Siamo “esseri ecologici” 1 anche se, da Homo prometheus, l’abbiamo usata solo per i nostri scopi in una logica di dominio totale. Una incessante produzione di manufatti ha finito con l’identificare la natura come qualcosa di opposto (e non di distinto) dall’artificio. Un impiego massiccio di materiali carbon-intensive e, a partire dalla seconda metà del Novecento, una dispersione illimitata dell’urbanizzazione, fortemente consumatrice di suolo, hanno condotto l’ecosistema ad un punto di svolta: il tema della catastrofe, prima considerato in una prospettiva temporale lontanissima, si è ravvicinato in un immediato futuro. Le reazioni della natura nei confronti di una costante aggressione, come la contaminazione planetaria da virus Covid-19, pongono la specie umana di fronte alla propria vulnerabilità, alla necessità di ripensare le relazioni con l’ecosistema e i limiti dello sviluppo. Accelerando le tendenze in atto, la natura invita -anche attraverso lo choc che stiamo vivendo – ad un cambiamento profondo nelle forme di organizzazione della vita umana, in particolare degli spazi della densità e della concentrazione. Il modello della città moderna, estremizzato nella congestione metropolitana (con la rigida separazione nello spazio e nel tempo della residenza, del lavoro e del tempo libero), richiede una profonda revisione. Rarefazione, decongestione, desincronizzazione diventano opzioni strategiche per riabitare le città e i territori in armonia con la natura.
Una natura che ha dimostrato nel tempo una straordinaria tolleranza, una forma di resistenza silenziosa, di cui si ritrova un esempio nella lettura seminale di Georg Simmel della rovina: “un’opera dell’uomo (…) percepita alla fine come un prodotto della natura.” 2 Nella rovina, avviene una reazione corrosiva sull’artificio da parte della natura – intesa come “infinita connessione delle cose” 3 – una sorta di rivincita nei confronti della distruzione operata ai suoi danni. Ma si intravede anche una nuova forma di convivenza: la natura si riappropria gradualmente di sé stessa, amalgamandosi con l’artificio da cui era stata annientata. Questa dialettica indica la possibilità di una ricomposizione, di un arresto della corsa verso uno sviluppo senza limiti. In un nuovo inizio, in una nuova opportunità risiede il valore attuale dell’immagine simmeliana: oltre la frattura operata dalla catastrofe, la continuità implicita nella coesistenza. Quali tessere del mosaico evolutivo del palinsesto territorio, le rovine – dai ruderi alle aree dismesse – contengono in sé il germe di potenzialità future.
Luigi Manzione, The appel of ruins (an ongoing project between artifice and nature), 2021.
Come far coabitare natura, città e architettura senza ricadere in un “pensiero retrotopico” 4 ? L’integrazione del verde negli edifici mira alla riconciliazione tra artificio e natura, ma ciò avviene attraverso una reductio di entrambi i termini, al fine di naturalizzare l’architettura e, insieme, addomesticare la natura. Si realizzano dispositivi favorevoli all’ecosistema, tuttavia elitari, difficilmente replicabili in contesti diversi quali modelli accessibili a tutti e, pertanto, capaci di contrastare le urbanizzazioni disperse di case unifamiliari. Sul presupposto che la città, come artificio, si distingue dalla natura senza opporvisi, ci si può interrogare sul possibile destino di queste architetture verdi nel loro ciclo di vita; sui reali benefici di un accesso immediato alla vegetazione senza dover raggiungere parchi e giardini. Ci si può chiedere se, nel tempo, questi ibridi di architettura e natura permetteranno il mantenimento dell’equilibrio – generando una “nuova totalità” nel senso simmeliano – o favoriranno, invece, la colonizzazione dell’una sull’altra.
Dilatando lo sguardo, ritroviamo altre forme significative di cooperazione tra natura e artificio. In aree non più compiutamente formate dal lavoro dell’uomo si concentra la biodiversità, con la presenza di esseri ed oggetti eterogenei. Tra décalages e salti di scala, si producono frammenti di “Terzo paesaggio”5 , spazi marginali dove trovano rifugio alcune specie, altrove bandite. Con la formazione di residui (dalle aree dismesse ai terreni incolti), è l’urbanizzazione stessa a creare le condizioni propizie alla generazione di paesaggi collettori e selettori di diversità. Come nella rovina, insinuandosi senza un ordine apparente, la natura riprende il sopravvento e fa valere di nuovo i propri diritti nei luoghi dell’abbandono. Riconquistati da una vegetazione imprevedibile, questi si tramutano in territori di invenzione biologica e di inedite interazioni nell’ottica della diversità del vivente. Tali spazi richiedono, in parte, di essere lasciati o restituiti alla spontaneità della natura: la pianificazione deve quindi misurarsi con la contaminazione e la “non-gestione”, ripensando le proprie teorie e pratiche per promuovere, nella prospettiva del “vivere insieme”, le connessioni tra le specie.
La presenza contemporanea di specie, spazi, tempi diversi nel “Terzo paesaggio” induce a riflettere sulle relazioni tra urbano e rurale, in particolare sulle “campagne urbane”6 – aree interstiziali, vuoti in attesa di edificazione, spazi disponibili per infrastrutture – soggette a trasformazioni rapide e spesso destinate a diventare future periferie. Connessa alle storie e alle geografie dei territori, la campagna urbana è spazio indeciso, verso il quale ci si può porre in continuità con la tradizionale visione urbanocentrica, legittimando il suo sfruttamento in una logica economicistica, oppure fare in modo che diventi pienamente partecipe della transizione ecologica. Al di là delle funzioni più o meno dismesse, le qualità degli spazi liminari tra urbano e rurale evidenziano l’opportunità di una tutela a vantaggio dell’equilibrio ecosistemico, anche come aree libere a contrasto della saldatura tra centri limitrofi, con modalità di abitare plurali e coerenti con le vocazioni dei territori.
Con la reintroduzione dell’orizzonte rurale nella città, lo spazio periurbano individualistico e frammentario può diventare luogo di pratiche condivise, a partire dagli abitanti e con il contributo di architetti, urbanisti e paesaggisti. Le campagne urbane possono accogliere attività da salvaguardare in quanto necessarie alla vita e diventare ambienti apprezzati, dove ricostruire connessioni feconde tra ruralità e urbanità, favorendone la trasformazione, in certi casi già operante7 , in nuovi spazi abitabili. Il futuro delle città si gioca anche in questi territori, costituiti da insiemi di pianure agricole, di paesi cresciuti lungo lottizzazioni recenti, di zone di attività produttive e commerciali, di parchi a tema, dove una rete urbanizzata a densità variabile, con flussi consistenti di persone e merci, genera nuove centralità e variegate morfologie fisiche e sociali. Le politiche territoriali dovrebbero accompagnare questi processi, in cui la campagna è, al contempo, luogo produttivo e paesaggio, e non solo riserva per parchi e giardini a servizio della città densa.
Luigi Manzione, The appel of ruins (an ongoing project between artifice and nature), 2021.
Gli spazi periurbani potrebbero essere ripensati in base alla loro multifunzionalità, investendo sulle qualità dell’agricoltura per favorire una relazione diretta con la terra. Nella evoluzione verso una urbanità rurale, quello delle campagne urbane diventa allora un progetto di abitabilità sostenibile, in rapporto di reciprocità, e non di opposizione, con la città. Le cinture e i corridoi verdi, progettati in vista del contenimento della crescita “minerale” dei centri, dovrebbero promuovere una diffusa interpenetrazione tra città e campagna, con la presenza delle tre grandi categorie di spazi territoriali (urbano, agricolo, selvaggio). Le città, scenari principali per la sfida del cambiamento climatico in virtù della concentrazione di attività, risorse, consumi, hanno tutto da guadagnare da questa interpenetrazione, che può estendersi alle aree interne e ad altre parti finora trascurate del territorio. Ciò consentirebbe di affrontare in modo sistemico la transizione, tanto più che negli spazi urbani il rapporto con la natura si è sempre basato su una logica di confinamento e, nella città moderna, si è esasperata la differenza rispetto alle altre specie animali e vegetali, sottraendo loro ambienti di vita. Occorre quindi rivedere, nella prospettiva della biodiversità, la nozione tradizionale di città intesa come ambiente artificiale ed esclusivo della specie umana8 .
Le emergenze attuali (economica, climatica, pandemica) impongono una inversione di tendenza in direzione della convivenza. Nonostante i ritardi e le incertezze, la politica ha delineato un orizzonte nei prossimi trenta anni. Desta tuttavia perplessità il fatto che il Ministero italiano della transizione ecologica comprende solo le competenze dell’ambiente e dell’energia, escludendo quelle dei lavori pubblici, delle infrastrutture e della mobilità, rientranti ad esempio nell’omologo ministero francese. Nel colmare il divario e superare una crisi profonda, l’architettura si trova di fronte ad una duplice sfida: ecologica e disciplinare. A rielaborare, ad esempio, temi e soluzioni provenienti dalle tecnologie rinnovabili e dai materiali sostenibili per assumerli come “elementi” a pieno titolo del progetto, da utilizzare in maniera ragionata. Un’appropriazione consapevole è necessaria per non condannarsi ad una sostanziale irrilevanza nel contesto di una auspicabile “transizione giusta”, trainata da una economia fondamentale quale “base materiale del benessere e della coesione sociale”9 . Si profila, insomma, non solo una transizione ma anche una rivoluzione ecologica, mirante a sovvertire antichi assetti di potere e di privilegio a vantaggio di poche minoranze. Anche in questo senso, bisognerebbe riformulare, oltre un consolidato paradigma urbanocentrico, un’architettura fondamentale al di là degli imperativi del mercato e della moda.
01.02.22
1. Secondo Timothy Morton, Noi, esseri ecologici [2007], Laterza, Bari-Roma 2018.))
2. Georg Simmel, “Le rovine” [1907], in Saggi sul paesaggio, Armando Editore, Roma 2006, p. 73.))
3. Idem, “Filosofia del paesaggio” [1913], in Saggi sul paesaggio, cit., p. 54.
4. Cfr. Franco Purini, Discorso sull’architettura. Cinque itinerari nell’arte del costruire, Marsilio, Venezia 2022, p. 88.
5. Gilles Clément, Manifesto del Terzo paesaggio [2004], Quodlibet, Macerata 2014.
6. Pierre Donadieu, Campagne urbane. Una nuova proposta di paesaggio della città [1998], Donzelli, Roma 2013.
7. V. le esperienze riportate in AMO-Rem Koolhaas, Countryside: A Report, Taschen, Köln 2020.
8. Cfr. Stefano Boeri, Urbania, Laterza, Bari-Roma 2021, pp. 31-39 e pp. 149-157.
9. Collettivo per l’economia fondamentale, Economia fondamentale. L’infrastruttura della vita quotidiana, Einaudi, Torino 2019.
Immagine di copertina: Luigi Manzione, Contrada Vignali, 771 (Postiglione, SA), 2021. Dal progetto The appel of ruins (an ongoing project between artifice and nature).
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]]>17 maggio 2017
Boris Hamzeian: Si pronto?
Richard Rogers: Pronto, parlo con Boris Hamzeian?
BH: Si sono io, chi parla?
RR: Sono Richard, Richard Rogers. Ho sentito che in questi giorni stai lavorando negli archivi del nostro studio per una ricerca sul Centre Pompidou di Parigi…
BH: Richard Rogers?… È…è un piacere sentirla. Non mi aspettavo una sua chiamata…
RR: Mike [Davies] mi ha fatto sapere che eri lì. Una storia su Beaubourg allora? finalmente… Hai un po’ di tempo da dedicarmi? Mi piacerebbe che mi raccontassi del tuo lavoro.
BH: Un po’ di tempo da dedicarle? Eh…certo, certo che ne ho…
RR: Ne sono felice. Passa da me a Chelsea, puoi fermarti a pranzo se ti va. Spero di poterti raccontare qualche aneddoto su quella pazza avventura parigina che è stato Beaubourg.
Il Centre Pompidou di Parigi come “meeting place for the people” (Piano+Rogers Architects e Ove Arup & Partners, 1971-1977) (Archives du Centre Pompidou)
Ed è così che ho conosciuto Richard Rogers, uno dei protagonisti della storia del Centre Beaubourg di Parigi, oggi noto come Centre National d’Art et de Culture Georges Pompidou, con tutta quell’umanità e quella curiosità che lasciavano già intendere gli appunti vergati alla mano nei suoi taccuini e le note appassionate di centinaia di lettere scambiate con Renzo Piano, e con i colleghi di Piano+Rogers Architects e Ove Arup & Partners. Sono fiumi di inchiostro, quelli di Richard, dedicati a promuovere e difendere l’idea di un’architettura che è si spazio, impianti, struttura, involucro e gadget altamente tecnologici; ma che tutti quegli elementi li asservisce all’idea di un habitat comunitario per la folla e per la sua libera ricreazione ed educazione. Nato a Firenze nel 1933 da una famiglia anglo-italiana fuggita in Inghilterra per salvarsi dalle persecuzioni del regime fascista contro gli ebrei, Rogers si avvicina all’architettura grazie all’influenza del cugino Ernesto, architetto e membro del gruppo BBPR, e all’amore per l’arte trasmessogli dalla madre Dada.
Nel quadro di un periodo formativo difficile segnato anche dalle origini straniere e dalla dislessia, Rogers si forma all’Architectural Association School di Londra negli anni in cui questo istituto è investito da alcuni dei dibattiti più vivaci dell’architettura del dopoguerra: la crisi di identità dei seguaci di Le Corbusier dopo l’apparizione del progetto per la Chapelle a Ronchamp, la ricerca di Reyner Banham e dei protagonisti dell’Indipendent Group di un’estetica nuova e al passo con la nuova società dei consumi, l’affermazione di quello che i coniugi Alison e Peter Smithson hanno appena battezzato New Brutalism e infine la nascita del New Bowellism, quel movimento studentesco che raccoglie già alcuni tra i futuri membri del gruppo Archigram. In questo clima effervescente Rogers sperimenta: si interessa alle opere di Frank Lloyd Wright, testa l’espressionismo New Bowellism, si avvicina al linguaggio New Brutalism sotto la guida del tutor Peter Smithson, si avvicina alla politica e al partito Labour grazie all’incontro con Susan Brumwell, sua prima moglie.
Tuttavia è soltanto nel successivo soggiorno negli Stati Uniti, tra un Master a Yale University e un tirocinio professionale presso Skidmore, Owings & Merrill – S.O.M San Francisco, che identifica quelli che sono destinati a divenire le cifre fondamentali della sua attività professionale (1). La scoperta degli esperimenti sulla prefabbricazione e sulla costruzione per componenti di Ezra Ehrenkrantz, l’incontro con Craig Ellwood e la visita di alcune delle Case Study Houses californiane, e le visite alla Glass House in compagnia di Philip Johnson, permettono a Rogers di riscoprire una linea dell’architettura moderna diversa da quella lecorbuseriana che critica come “an active play of mass and solids […] monumental in form”(2). Ed è così che si prefigura ai suoi occhi la possibilità di riprendere quella che definisce “una rivoluzione che non prosegue”, un’architettura leggera, prefabbricata, ottenibile dalla composizione di elementi industriali, racchiusa in un involucro traslucido e luminoso ed infine atta alla costruzione di uno spazio libero e inostruito, occupato soltanto da partizioni mobili e leggere. La Maison de Verre di Pierre Chareau e Bernard Bijvoet è destinata a diventare il manifesto retroattivo di questa nuova architettura (3).
Richard+Su Rogers Architects, Zip-Up House, 1968-1972, non realizzato (Rogers Stirk Harbour Partners Archives)
L’orientamento verso questo genere di architettura è non soltanto riscoperta ma anche evoluzione personale. Sin dal soggiorno americano Rogers fa confluire in questo orientamento un’attenzione personale per il valore ideologico e sociale della pianta libera, memore degli insegnamenti di Serge Chermayeff, e una fascinazione crescente verso gli impianti tecnici e i corpi serventi, mutuata dalla scoperta dell’architettura kahniana e della quale si trova già una prima traduzione in alcuni progetti studenteschi realizzati a Yale. Questo magma di idee ed esperimenti si chiarisce nelle prime esperienze professionali che Rogers avvia al rientro in Inghilterra in compagnia di Susan, di Norman Foster, suo compagno di corso a Yale, e di Wendy Cheesman, costituitisi sotto il nome di Team 4. Dopo una serie di progetti ancora debitori dell’influenza New Bowellism e della fascinazione per l’architettura wrightiana, la svolta modernista di Rogers si ultima negli uffici dell’impresa Reliance Controls, una scatola miesiana di vetro e acciaio predisposta a creare uno spazio libero e privo di partizioni interne che è già altro rispetto alle piante libere degli uffici americani che Rogers ha visto da stagista nei grattacieli di S.O.M. – è traduzione nello spazio di un’idea di lavoro orizzontale e democratica che stravolge la gerarchia tradizionale verticale tra direttori d’impresa, impiegati e segretari.
Nella seconda metà degli anni Sessanta, la ricerca di questo spazio liberatorio e democratico si chiarisce e si rafforza negli “shells” della serie Zip-Up, involucri leggeri ottenuti dalla combinazione di moduli industriali sandwich che Rogers concepisce nella nuova entità professionale fondata insieme a Susan, Richard+Su Rogers Architects e alla quale prenderanno parte anche John Young e Marco Goldschmied. Nel quadro di una sperimentazione che conduce Rogers a testare le potenzialità dei suoi Shell per programmi differenti, dall’abitazione, all’ufficio, sino all’industria, si colloca l’incontro con Renzo Piano che all’epoca Rogers considera “the best younger generation architect in Europe” (4). È proprio Piano a coinvolgere Rogers in una ricerca tesa a verificare le potenzialità degli Shell dei Rogers per la definizione di istituiti educativi all’avanguardia da inserire nei centri storici delle città europee per proseguire una ricerca che Piano sta conducendo con l’amico e collaboratore genovese Gianfranco Franchini e che sta portando i due alla scoperta di progetti quali la Free University of Berlin di Candilis, l’Idea Circus e il Plug In City University Node di Archigram, e certi esperimenti degli allievi fiorentini di Leonardo Savioli (5).
L’occasione professionale per testare questa ricerca si presenta nel gennaio 1971 quando Ted Happold, Partner della Divisione Structures 3 di Ove Arup & Partners, invita Rogers a concorrere insieme a lui alla realizzazione del Centre Beaubourg di Parigi. Vinte le esitazioni nei confronti di un concorso nel quale sente delle premesse monumentali e politiche a lui ostili, Rogers, insieme a Piano e Franchini, trasforma la ricerca sugli istituti educativi radicali nella definizione di un “Live Centre of Information”, un’infrastruttura urbana per la ristrutturazione del centro storico parigino e per l’informazione della folla metropolitana (6). L’idea si traduce in una sequenza di superfici inostruite, sostenute da un traliccio metallico nel quale poter rivitalizzare la tradizione delle grandi strutture metalliche francesi – si tratta di un’offerta, quella di Rogers, Piano, Franchini e di Ove Arup & Partners che il presidente francese Georges Pompidou, la giuria presieduta da Jean Prouvé e i futuri direttori del Centre Beaubourg non possono rifiutare.
L’esperienza del Centre Pompidou di Parigi è per Rogers l’occasione per definire alcuni degli assunti fondamentali della sua futura carriera professionale. È l’idea di un’architettura che deve dissolversi in un’infrastruttura internamente flessibile e costantemente riconfigurabile secondo la volontà dei suoi occupanti per ribadire che l’architettura è prima di tutto un “meeting place for the people” (7). È l’idea di un’architettura in cui spazio e struttura devono far fronte all’apparizione prepotente degli impianti che, da Le Corbusier a Louis Kahn, tutti i grandi maestri del XX secolo hanno fronteggiato ma che Rogers porta al perimetro degli ambienti del Centre e, esibendoli all’esterno, riscopre come una nuova figura dell’architettura secondo un linguaggio che prenderà il nome di High-Tech. È l’idea di un’architettura eloquente che, prima ancora della svolta semiologica attuata dall’architettura postmoderna, intende comunicare all’osservatore e farsi dispositivo didattico attraverso un codice cromatico funzionale di natura pop. È un’architettura, infine, disegnata secondo una filosofia particolare, quella che Ove Arup usava chiamare “Total Design” e dove ciascun membro del team, da architetti a ingegneri, a partire dai collaboratori più giovani, possa iniettare le proprie ricerche nel progetto. Rientrato a Londra nel 1977, Rogers trasferirà i valori e le scoperte testate nella macchina parigina nelle sue successive esperienze professionali, da Richard Rogers Partnership a Rogers Stirk Harbour+Partners, e in tutta quella serie di opere che sono destinate a segnare il dibattito dell’architettura degli ultimi quarant’anni, dal Lloyds Building al Millenium Dome.
L’eredità dell’esperimento Beaubourg nella carriera di Rogers: il Lloyds Building di Londra (Richard Rogers Partnership, 1978-1986) (Rogers Stirk Harbour + Partners Archives)
Alla scomparsa di Richard Rogers sopravvivono la moglie Ruthie, l’ex moglie Susan, il fratello Peter, i quattro figli Roo, Ben, Zad e Ab, e tredici nipoti. Alla sua scomparsa sopravvivono anche i suoi edifici, a testimonianza di uno spazio che si voleva più democratico, di un’architettura che voleva assumere i codici estetici e performativi dell’industria, e di componenti che, dalla struttura agli impianti, volevano comunicare con la folla attraverso forme e colori. I più anziani di questi edifici oggi continuano a interrogare l’architettura contemporanea: i loro impianti rivelano il limite insito nella monumentalizzazione di un elemento destinato a una rapida obsolescenza tecnica e funzionale; le loro componenti, pensate per essere rapidamente sostituite, interrogano la questione stessa del restauro. Senza più il loro guardiano, a questi edifici non resta che trovare la forza per avverare la profezia con cui Rogers li ha concepiti – devo divenire vere e proprie macchine vitali, capaci di trasformarsi ed evolvere per assecondare generazione dopo generazione i bisogni dei suoi veri destinatari: le persone.
Richard Rogers: lo abbiamo pensato prima di tutto per essere un posto per la gente, “a place for the people”, mi capisici? ma non voglio annoiarti oltre. Dimmi di te, di dove hai detto di essere originario?
Boris Hamzeian: Io sono ligure, di Sestri Levante.
RR: Sestri levante, la conosco bene. Sapessi quante cose ho fatto a Sestri levante, ma questa è un’altra storia.
Buon vento Richard.
23.12.21
***
English
17 May 2017
Boris Hamzeian: Hello?
Richard Rogers: Hello. Is this Boris Hamzeian?
BH: Yes, it is. Who is this?
RR: This is Richard, Richard Rogers. I hear you’re working these days in the archives of our studio researching the Centre Pompidou in Paris.
BH: Richard Rogers?… It’s…it’s good to hear from you. I wasn’t expecting your call….
RR: Mike [Davies] let me know you were there. A history about the Beaubourg at last?…Do you have some time for me? I’d like you to tell me about your work.
BH: A little time for you? Eh…of course, of course I do….
RR: I’m glad. Stop by my flat in Chelsea, you can stay for lunch if you like. I hope I can tell you some anecdotes about the crazy Parisian adventure that was the Beaubourg.
That was how I met Richard Rogers, one of the leading figures in the history of the Centre Beaubourg in Paris, now known as the Centre National d’Art et de Culture Georges Pompidou. It was there that I encountered all the humanity and curiosity that the handwritten notebooks and the hundreds of passionate letters exchanged with Renzo Piano and his colleagues already hinted at. Richard’s were rivers of ink dedicated to promoting and defending the idea of an architecture that is space, systems, structure, envelope, and highly technological gadgets, and yet, in all his letters, all the architectural elements were subordinate to the idea of building something that had to be first of all a communal habitat for the people, their recreation and education. Born in Florence in 1933 to an Anglo-Italian family who fled to England to escape the Fascist regime’s persecution of the Jews, Rogers became interested in architecture thanks to the influence of his cousin Ernesto, an architect and member of the BBPR group, and a love of art passed on to him by his mother, Dada. During a difficult formative period made all the more challenging by his foreign origins and dyslexia, Rogers trained at the Architectural Association School in London at a time when it was host to some of the most lively debates in post-war architecture: the identity crisis among Le Corbusier’s followers after the appearance of the project for the Chapelle at Ronchamps, Reyner Banham and the Independent Group’s search for a new aesthetic in step with the new consumer society, the rise of what husband-and-wife team Alison and Peter Smithson had just branded New Brutalism, and finally the birth of New Bowellism, a neo-expressionist student movement that included some of the future members of the Archigram group. It was in this effervescent climate that Rogers experimented: he became interested in the works of Frank Lloyd Wright, tested New Bowellism expressionism, investigated the language of New Brutalism under the guidance of his tutor Peter Smithson, and became involved in politics and the Labour Party through Susan Brumwell, his first wife.
Yet it was only during his subsequent stay in the United States, between a Master’s degree at Yale University and a professional internship at Skidmore, Owings & Merrill – S.O.M San Francisco, that he identified what were to become the fundamental aspects of his professional activity (8).
The discovery of Ezra Ehrenkrantz’s experiments in prefabrication and component construction, a meeting with Craig Ellwood and a tour of some of the Californian Case Study Houses, and visits to the Glass House in the company of Philip Johnson allowed Rogers to rediscover a line of modern architecture different from that of Le Corbusier, which he criticised as ‘an active play of mass and solids […] monumental in form’ (9). Rogers saw the possibility of resuming what he defined as ‘a revolution without perpetuation’, a light, prefabricated architecture, obtained from the composition of industrial elements, enclosed in a translucent, luminous shell, and above all suitable for the construction of a free and unobstructed space, occupied only by light, mobile partitions. La Maison de Verre by Pierre Chareau soon became a retroactive manifesto for this new architecture (10).
His attraction to this kind of architecture was not only a rediscovery but also a personal evolution: during his stay in America Rogers, mindful of Serge Chermayeff’s teachings, became convinced of the ideological and social value of the free plan and was increasingly attentive to technical systems and service elements borrowed from his discovery of Kahnian architecture, the influence of which was already evident in his student projects at Yale.
This magma of ideas and experiments could be seen in the professional work that Rogers undertook upon his return to England, where he joined Susan, his Yale colleague Norman Foster, and Wendy Cheesman to create Team 4. A series of projects still influenced by New Bowellism and his fascination with Wright’s architecture led to Rogers’ modernist turning point: the offices of the Reliance Controls company, a Miesian box of glass and steel designed to create a free space with no internal partitions, different from the American open-office plans Rogers had seen working as an intern on the S.O.M. skyscrapers. The Reliance Controls office translated into space an idea of horizontal structure in which company directors, employees, and secretaries cooperate according to a new democratic philosophy.
This growing desire for a liberating, democratic space was exemplified in the Zip-Up series ‘shells’, light envelopes obtained from a combination of industrial sandwich modules that Richard conceived in the second half of the 1960s. He now had a new professional partnership with Susan, Richard+Su Rogers, in which they were joined by John Young and Marco Goldschmied.
In 1969, while experimenting with the potential of his Shells for different applications, from homes to offices to industry, Rogers met Renzo Piano, whom at that time Rogers considered ‘the best younger-generation architect in Europe’ (11). Piano involved Rogers in a project exploring the potential of Rogers’ Shells for use in avant-garde educational institutions to be inserted in the historic centres of European cities. This was linked with the research that Piano was conducting with his friend and Genoese collaborator Gianfranco Franchini and which led them to discover projects such as the Free University of Berlin by Candilis, Josic, Woods and Schiedhelm, the Idea Circus and the Plug-in University Node by Archigram, and certain experiments by the Florentine students of Leonardo Savioli (12).
The professional opportunity to apply their approach came in January 1971 when Ted (later Sir Edmund) Happold, executive partner of the Structures 3 Division at Ove Arup & Partners, invited Rogers to join his bid for the competition to design the Centre Beaubourg in Paris.
Having overcome his hesitation about a competition the monumental and political aspects of which he found antithetical, Rogers, together with Piano and Franchini, transformed his research into radical educational institutions into the definition of a ‘Living Information Centre’, an urban infrastructure for the renovation of the historic centre of Paris and for informing the metropolitan crowd (13). The idea translated into a sequence of unbuilt surfaces supported by a metal trellis revitalising the tradition of great French metal structures. Rogers, Piano, Franchini, and Ove Arup & Partners submitted an offer that French president Georges Pompidou, the jury (chaired by Jean Prouvé), and the future directors of the Centre Beaubourg could not refuse.
The Centre Pompidou in Paris was an opportunity for Rogers to define some of the fundamental assumptions that would guide his future professional career: the idea of an architecture that must dissolve into an internally flexible infrastructure that can be constantly reconfigured according to the will of its occupants, the assertion that architecture is first and foremost a ‘meeting place for the people’ (14). His was an architecture in which space and structure must face the overbearing appearance of the technical systems which all the great masters of the 20th century, from Le Corbusier to Louis Kahn, had faced, but which Rogers brought to the perimeter of the interiors of the Centre and, by exhibiting them outside, rediscovered as a new figure of architecture according to a language that would be later named High-Tech. It was the idea of an eloquent architecture which, even before the semiotic shift brought about by post-modern architecture, intended to communicate to the observer and become a didactic device through a functional chromatic code of a pop nature. Finally, it was an architecture designed according to a particular philosophy, what Ove Arup called ‘Total Design’, in which engineers and architects work side by side and in which each member, starting with the youngest collaborators, can inject their own research.
Returning to London in 1977, Rogers transferred the values and discoveries tested in the Parisian experiment to his subsequent professional experiences, from the Richard Rogers Partnership to Rogers Stirk Harbour+Partners, and a whole series of works destined to shape architectural debate for over forty years, from the Lloyds Building to the Millennium Dome.
Richard Rogers is survived by his wife Ruthie, his ex-wife Susan, his brother Peter, his four sons Roo, Ben, Zad, and Ab, and thirteen grandchildren.
While he has disappeared, his buildings survive, testament to a space that wanted to be more democratic, to an architecture that wanted to take on the aesthetic and performative codes of industry, and to components which, from the structure to the installations, wanted to communicate with the crowd through forms and colours. Today, the oldest of these buildings continue to question contemporary architecture: their installations reveal the limits inherent in the monumentalisation of an element destined to rapid technical and functional obsolescence; their components, designed to be quickly replaced, undermine the very idea of restoration. Without their guardian, these buildings have no choice but to find the strength to fulfil the prophecy by which Rogers conceived them, that of becoming vital machines, destined to transform and evolve to meet the needs of their true beneficiaries, the people.
Richard Rogers: We designed it first of all to be a place for the people, you understand? But I don’t want to bore you any further. Tell me about yourself, where did you say you were from?
Boris Hamzeian: I am from Liguria, from Sestri Levante,
RR: Sestri Levante, I know it well. If you only knew how many things I did in Sestri Levante, but that’s another story.
Godspeed, Richard.
1 Sulla formazione americana di Rogers si veda : Brian Appleyard, Richard Rogers: A Biography, Faber and Faber, Londra, 1986.
2 Le opinioni di Rogers a tal proposito sono raccolte in una ricerca sulla Maison de Verre redatta durante il soggiorno studentesco a Yale, ma di cui è stato pubblicato soltanto un estratto su Domus nel 1966. Richard Rogers e Ludovic Chazaszcz, « Parigi 1930 », Domus, vol. 443, 1966, p. 8.
3 Ibid.
4 Richard Rogers, Lettera ad Alan e Becky Tempko, 28 luglio 1970, Rogers Stirk Harbour + Partners Archives, Londra, Collezione 1, Faldone Piano+Rogers Architects General Correspondence/Administration.
5 Sulle origini del Progetto del Centre Beaubourg si veda Boris Hamzeian, Centre National d’Art et de Culture Georges Pompidou: Monument National e Live Centre of Information. Cronache di idea, progetto e fabbricazione, 1968-1977, École Polytechnique Federale de Lausanne, Losanna, 2021, (capitolo V), pp. 109-144.
6 Ibid.
7 Renzo Piano, Richard Rogers, Gianfranco Franchini e Ove Arup & Partners, Centre du Plateau Beaubourg [relazione di concorso], Archives Nationales, Pierrefitte Sur-Seine, Archives Publiques, Fondo Construction et aménagement du Centre National d’Art et de Culture Georges Pompidou, de l’Établissement Public du Centre Beaubourg au CNAC-GP, 20100307, faldone 19, p. 1.
8 On Rogers’ American training see : Brian Appleyard, Richard Rogers: A Biography (London: Faber and Faber, 1986).
9 Rogers’ opinions on this subject are collected in a research on the Maison de Verre written during his student stay at Yale, but of which only an extract was published on Domus in 1966. Richard Rogers and Ludovic Chazaszcz, ‘Paris 1930’, Domus, vol. 443, 1966, p. 8.
10 Ibid.
11 Richard Rogers, Letter to Alan and Becky Tempko, 28 july 1970, Rogers Stirk Harbour + Partners Archives, Londra, Collection 1, Folder Piano+Rogers Architects General Correspondence/Administration.
12 On the origins of the Centre Beaubourg Project, see Boris Hamzeian, Centre National d’Art et de Culture Georges Pompidou: Monument National e Live Centre of Information. Cronache di idea, progetto e fabbricazione, 1968-1977, École Polytechnique Federale de Lausanne, Lausanne, 2021, (Chapter V), pp. 109-144.
13 Ibid.
14 Renzo Piano, Richard Rogers, Gianfranco Franchini e Ove Arup & Partners, Centre du Plateau Beaubourg [relazione di concorso], Archives Nationales, Pierrefitte Sur-Seine, Archives Publiques, Collection Construction et aménagement du Centre National d’Art et de Culture Georges Pompidou, de l’Établissement Public du Centre Beaubourg au CNAC-GP, 20100307, Folder 19, p. 1
Immagine di copertina: La ricerca di uno spazio flessibile nelle prime esperienze professionali di Rogers: Uffici della Reliance Controls A Swindon (Team 4, 1966) e uffici per la Sweetheart Plastic a Gosport (Richard+Su Rogers Architects, 1969-1970, non realizzato) (Norman Foster Foundation e Rogers Stirk Harbour + Partners Archives)
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Com’era il Lacma a Los Angeles, ph.Carol M. Highsmith da Wikipedia
Dopo mesi di chiusura a causa del coronavirus, il primo aprile 2021 riaprirà al pubblico il Los Angeles County Museum of Art, conosciuto più semplicemente come LACMA. Non si tratta di uno scherzo di aprile, nonostante negli ultimi anni il comportamento reticente e snob dei vertici del museo sia sembrato poco serio nei confronti del suo stesso pubblico.
La vicenda ha origine nel 2009, quando Michael Govan, direttore del LACMA, lascia trapelare le sue intenzioni di rinnovare il museo e dichiara di non voler farsi trovare impreparato dall’arrivo di una nuova fermata della Linea D della metropolitana, prevista all’incrocio tra Wilshire Boulevard e Fairfax Avenue, che presto faciliterà l’afflusso di turisti nell’area (1). A tale scopo Govan si rivolge all’architetto svizzero Peter Zumthor, all’epoca appena nominato vincitore del premio Pritzker. Govan e Zumthor rinsaldano così un rapporto di collaborazione nato alcuni anni prima per un progetto rimasto sulla carta, concepito per la Dia Art Foundation, prestigiosa istituzione museale precedentemente diretta da Govan.
A seguito dell’incarico, le informazioni rilasciate al grande pubblico vengono centellinate. Bisogna aspettare fino al 2013 per vedere la prima proposta di Zumthor (2). Il progetto viene presentato entusiasticamente da Govan in una mostra intitolata The Presence of the Past: Peter Zumthor Reconsiders LACMA (3). Non si capisce se la mostra sia un omaggio o un riferimento inconsapevole alla biennale veneziana del 1980 organizzata da Paolo Portoghesi (4). Ad ogni modo, il titolo non evoca il mondo dell’architettura postmoderna citazionista ed eclettica degli anni ottanta del Novecento, ma potrebbe essere interpretato come sorta di cupo presagio per una città proiettata al futuro come Los Angeles.
Il plastico preliminare rivela una forma sinuosa di colore nero, tanto muscolare nella sua stazza quanto evanescente nel suo stato di definizione. Il distributivo interno appare abbozzato e confuso e il progetto nel suo complesso non cattura. Alcuni dicono che la forma esterna ricordi un fiore, mentre altri parlano di un’ameba o di un blob. Inoltre l’edificio proposto non tiene conto dei La Brea Tar Pits, i pozzi di catrame presenti all’interno di Hancock Park, dichiarati National Natural Landmark. Zumthor è costretto a rivedere la pianta e ridimensionare il mastodontico progetto, che assume le forme di un ponte su Wilshire Boulevard (5).
La nuova proposta fa tabula rasa di buona parte del campus del LACMA. In particolare Zumthor prevede sia la demolizione dei volumi progettati da William Pereira (1909-1985) nel 1965, che l’abbattimento dell’addizione predisposta su progetto di Hardy Holzman Pfeiffer Associates nel 1986. I più recenti edifici di Renzo Piano non sono invece interessati da alcun cambiamento. Molti affezionati del museo gridano allo scandalo. Lo storico e critico di architettura Alan Hess, si impegna alacremente per decantare i pregi e le qualità del progetto di Pereira, sensibilizzando l’opinione pubblica e mettendola in guardia nei confronti di quello di Zumthor (6).
Il tema della discussione si incentra dunque sul problema della conservazione dell’architettura moderna. Il progetto di Pereira non eccelle per virtuosismi decorativi o spaziali, ma si presenta come una testimonianza significativa di un periodo storico preciso. Le caratteristiche architettoniche si elencano facilmente: edifici e piazza flottanti che occhieggiano alla lezione dell’urbanistica moderna; facciate simmetriche con pilastri in calcestruzzo da interpretare come un’adesione all’approccio pragmatico dell’International Style; volumi edilizi organizzati asimmetricamente per dare un tocco di movimento, ma con un senso classico del bilanciamento. Nel complesso il LACMA di Pereira incarna un approccio ottimista e anonimo, sponsorizzato dal capitalismo del secondo dopoguerra. L’edificio rappresenta un’icona di un modo di pensare più che di uno stile architettonico. Si tratta infatti di un museo che si presenta nelle vesti di un brutalismo gentile, che non stupisce, ma che per questo risulta familiare all’americano medio.
La distruzione della sede storica del Lacma, Courtesy of Bart Prince
Questo quadro viene compromesso nel 1986 dall’addizione di Hardy Holzman Pfeiffer Associates, che distrugge l’unitarietà dell’intervento di Pereira. È curioso che un’istituzione dedicata alla conservazione e alla valorizzazione dei manufatti del passato abbia deciso di non prendere in considerazione soluzioni alternative alla demolizione totale. Tuttavia, il destino sembrava essere stato segnato già nel 2001, quando gli edifici di Pereira erano stati minacciati da un progetto di Rem Koolhaas che prevedeva la costruzione di una grande copertura voltata semitrasparente, sotto la quale si erigeva una ordinata sequenza di volumi scatolari (7).
La polemica si trascina per diverso tempo, alimentata dalla spropositata cifra di 650 milioni di dollari preventivata per l’edificio di Zumthor e dal fatto che le immagini del progetto vengono rilasciate con parsimonia e a singhiozzo, senza lasciar capire lo stato di avanzamento progettuale (8). Tutta la vicenda assume una portata nazionale e i reportage rivelatori di Christopher Knight del Los Angeles Times diventano argomento da premio Pulitzer (9). Si scopre così che il progetto di Zumthor prevede una sostanziale diminuzione delle superfici espositive del museo. Le voci critiche si fanno sempre più feroci, tanto che Joseph Giovannini, un affermato critico di architettura, tuona dalle pagine del Los Angeles Review of Books “è molto peggio di quello che si possa pensare” (10). Giovannini scrive una serie di articoli, elencando ogni problematica del progetto di Zumthor: riduzione della lunghezza lineare espositiva superiore al 50% rispetto agli edifici esistenti, relativa riduzione delle gallerie, soffitti bassi, sottovalutazione dell’incremento dei costi di costruzione (già si parla di oltre 750 milioni di dollari), criticità finanziarie nel lungo periodo, mancanza di sicurezza negli spazi al piano terra, rendering non veritieri, mancanza di dibattito e di confronto con idee alternative. Nasce un comitato denominato The Citizens’ Brigade to Save LACMA di cui Giovannini è uno dei fondatori assieme a Greg Goldin, Evelyn Kalka, Emma Gardner (11). Dalla parte dei supporter del progetto di Zumthor troviamo, tra gli altri, l’attore Brad Pitt, noto per la sua passione architettonica, e Diane Keaton (12).
Giovannini sottolinea anche che il LACMA è finanziato con i soldi dei cittadini e accusa Govan che il dibattito sia stato viziato dalla mancata condivisione di informazioni, dal rilascio di false dichiarazioni, da illeciti e abusi, conflitti di interesse oltre che da arroganza e mancanza di rispetto nei confronti della cosa pubblica (13). Accuse pesantissime che hanno condotto ad una causa legale da parte della Miracle Mile Residential Association contro la città di Los Angeles e il Los Angeles County Board of Supervisors, quest’ultimo ritenuto colpevole di aver approvato il progetto senza aver tenuto conto di soluzioni alternative e senza aver mai visto i disegni definitivi del progetto. The Citizens’ Brigade si affretta anche ad organizzare un concorso di architettura intitolato provocatoriamente “LACMA Not LackMA” e a cui vengono invitati diversi gruppi di progettisti internazionali come Barkow Leibinger, Coop Himmelb(l)au, Kaya Design, Paul Murdoch Architects, Reiser+Umemoto e TheeAe (14). I controprogetti sono solo un riscatto digitale. Mostrano che soluzioni alternative sono possibili, ma non convincono le autorità a fare un passo indietro.
La polemica esplode letteralmente nella primavera del 2020, con l’inizio improvviso dei lavori di abbattimento (15). Approfittando delle restrizioni dovute al coronavirus, viene dato il via libera alle demolizioni. Una mossa che comunica una situazione di disagio da parte del museo e che desta disapprovazione generale (16). In questa situazione, l’atteggiamento vago e reticente del museo è certamente censurabile, ma ancora più fastidioso appare l’aver affidato il progetto ad un architetto che dalle interviste appare poco sensibile alle critiche che gli vengono mosse. Inoltre il grande edificio di Zumthor si dimostra indifferente a qualsiasi elemento della cultura orientale che rende effervescente e caratterizza la west coast americana. Non a caso, non è stata spesa una sola parola per spiegare la relazione tra la proposta di Zumthor e il famoso Pavilion for Japanese Art progettato da Bruce Goff (1904-1982) alla fine degli anni settanta e completato dopo la sua morte nel 1988 grazie a Bart Prince, che aveva lavorato al progetto sin dagli inizi ed era stato designato da Goff responsabile della preparazione dei disegni esecutivi e della supervisione della costruzione (17).
Il padiglione giapponese oltre ad essere il più grande edificio pubblico progettato da Goff è da considerarsi come una sorta di antitesi agli edifici di Pereira. Goff è uno dei pochi rappresentanti di un approccio ‘altro’, ispirato, libero, creativo, non allineato al conformismo funzionalista o agli intellettualismi dell’accademia. Il padiglione che progetta per il LACMA, oltre a riflettere l’affascinante personalità di Goff, è un omaggio alla cultura giapponese, alla ricerca spaziale, alla sperimentazione strutturale (18). L’uso dei materiali e della luce ne fanno un capolavoro di museografia da preservare e conservare.
Tuttavia, anche in questo caso l’atteggiamento del LACMA risulta misterioso e sospetto. Nel febbraio del 2018 il padiglione giapponese viene chiuso per un ammodernamento (19). Il museo lascia intendere che il padiglione di Goff sarà conservato, ma viene anche evidenziata la necessità di lavori strutturali in fondazione e il rinnovamento degli impianti. Secondo LJ Hartman, uno dei responsabili dell’ufficio tecnico del LACMA, la falda acquifera dell’area, prossima al piano di campagna, si sarebbe infiltrata nelle fondazioni. Altri lavori riguarderebbero invece i cavi della copertura e la rimozione del giardino progettato dal paesaggista Koichi Kawana (20).
Se fosse vero quanto dichiarato a proposito della falda acquifera e delle fondazioni, sarebbe abbastanza per fermare le manie di grandezza di Govan, evitando che la gigantesca mole dell’edificio di Zumthor sprofondi nei pozzi di catrame di Hancock Park. Purtroppo nessuno sembra essersi preoccupato di questo aspetto e si spera che gli ingegneri di Zumthor ne siano sufficientemente consapevoli. Nel maggio del 2020 iniziano a circolare online foto che mostrano la demolizione di una delle passerelle di accesso al padiglione di Goff, mentre non viene rilasciata nessuna altra informazione riguardo i presunti lavori di restauro. Solo nel settembre del 2020 vengono presentati al pubblico i primi disegni dell’intervento di Zumthor; in essi si nota una fitta coltre di alberi e arbusti, pensata con l’evidente scopo di isolare (e nascondere?) l’edificio di Goff (21). Rimane un mistero come i lavori di demolizione e costruzione del nuovo museo modificheranno la circolazione e l’uso del padiglione giapponese.
Purtroppo tutto questo dimostra che la pandemia abbia incoraggiato il proseguimento di un atteggiamento reticente e a tratti omertoso. Nonostante sia stato realizzato il sito web buildinglacma.org con lo scopo di sponsorizzare il progetto e attenuare le polemiche, gli articoli pubblicati sul Los Angeles Times appaiono più dettagliati e significativi delle informazioni diffuse sul sito ufficiale. Il LACMA e il suo direttore Govan hanno così stabilito un preciso decalogo di tutto quello che non si dovrebbe fare nel processo di conservazione e valorizzazione del patrimonio architettonico moderno. A distanza di quasi cento anni sembra che gli sventramenti fascisti praticati in Italia negli anni venti del secolo scorso non abbiano insegnato niente, o che abbiano insegnato troppo.
Sarebbe stato possibile dare un nuovo senso agli edifici di Pereira, demolendo solo l’addizione degli anni ‘80? E ancora, sarebbe stato possibile concepire un nuovo progetto, capace di portare il museo e la città di Los Angeles nel futuro, senza cancellare il patrimonio edilizio preesistente? Grazie alla caparbietà di Govan e Zumthor le risposte sono solo un esercizio accademico.
Di certo, possiamo solo affermare che tutta la vicenda avrebbe richiesto uno sforzo maggiore da parte delle istituzioni e degli individui coinvolti nel processo di trasformazione del LACMA.
27.3.21
(1)Cfr. Edward Lifson, “A Bolt of Zumthor”, Architect’s Newspaper, 24 novembre 2009, https://web.archive.org/web/20110107094527/http://www.archpaper.com/e-board_rev.asp?News_ID=4084 (consultato il 23/03/2021); Christopher Hawthorne, “Peter Zumthor, Michael Govan plot LACMA’s future”, Los Angeles Times, 7 dicembre 2009 https://latimesblogs.latimes.com/culturemonster/2009/12/for-those-of-you-keeping-score-at-home-were-up-to-three-architectural-saviors-for-the-los-angeles-county-museum-of-art.html (consultato il 23/03/2021)
(2) https://www.lacma.org/art/exhibition/presence-past-peter-zumthor-reconsiders-lacma (consultato il 23/03/2021); Carren Jao, “LACMA Director and Peter Zumthor Make the Case for Museum’s Redesign”, Architectural Record, 5 giugno 2013, https://www.architecturalrecord.com/articles/2898-lacma-director-and-peter-zumthor-make-the-case-for-museum-s-redesign (consultato il 23/03/2021)
(3)Amy Frearson, “Peter Zumthor unveils redesign for Los Angeles County Museum of Art”, Dezeen, 10 giugno 2013, https://www.dezeen.com/2013/06/10/the-presence-of-the-past-peter-zumthor-reconsiders-lacma/ (consultato il 23/03/2021). Per conoscere il punto di vista di Michael Govan si consiglia la lettura di: Aaron Betsky, “LACMA’s Michael Govan Defends Peter Zumthor’s Proposed Plan”, Architect. The Journal of the American Institute of Architects, 26 agosto 2013 https://www.architectmagazine.com/design/lacmas-michael-govan-defends-peter-zumthors-proposed-plan_o (consultato il 23/03/2021)
(4)Cfr. La presenza del passato: prima mostra internazionale di architettura, Corderie dell’Arsenale, Venezia: La Biennale di Venezia, 1980
(5) Rory Stott, “Peter Zumthor & LACMA Unveil Revised Museum Design”, ArchDaily, 7 luglio 2014, https://www.archdaily.com/524586/peter-zumthor-and-lacma-unveil-revised-museum-design (consultato il 23/03/2021)
(6)Tra i molti articoli sull’argomento si segnala: Antonio Pacheco, “Time is running out for William Pereira’s modernist legacy”, Architect’s Newspaper, 26 settembre 2016, https://www.archpaper.com/2016/09/william-pereira-preservation-legacy/ (consultato il 23/03/2021); Thomas Harlander, “The Nebulous Future of LACMA’s Black Blob Design”, Los Angeles Magazine, 25 marzo 2015, https://www.lamag.com/citythinkblog/christopher-hawthorne-and-friends-discuss-the-future-of-lacmas-black-blob/ (consultato il 23/03/2021); Hadley Meares, “LACMA is beloved. Its design never was”, Curbed Los Angeles, 23 aprile 2020, https://la.curbed.com/2020/4/23/21230153/lacma-museum-los-angeles-history-pereira (consultato il 23/03/2021); “Pereira in Peril: LACMA campus tour with Alan Hess & Richard Schave”, YouTube, 6 ottobre 2016, https://youtu.be/uvDFVI71XVo (consultato il 23/03/2021)
(7) https://oma.eu/projects/lacma-extension (consultato il 23/03/2021)
(8)Jori Finkel, “Lacma’s $650 Million Buiding by Peter Zumthor Is Approved”, The New York Times, 9 aprile 2019; https://www.nytimes.com/2019/04/09/arts/design/lacma-design-peter-zumthor.html (consultato il 23/03/2021)
(9) Gli articoli di Christopher Knight sono pubblicati al seguente link: https://www.pulitzer.org/winners/christopher-knight-los-angeles-times (consultato il 23/03/2021)
(10)Joseph Giovannini, “LACMA, Part I: Going Rouge”, Los Angeles Review of Books, 9 febbraio 2020; https://lareviewofbooks.org/article/lacma-part-going-rogue/ (consultato il 23/03/2021)
(11) http://savelacma.org/about/ (consultato il 23/03/2021)
(12) Per un’articolata storia della vicenda e una sintesi ad ampio raggio delle voci in campo, con un focus specifico sul pensiero di Zumthor, si consiglia la lettura di Dana Goodyear, “The Iconoclast Remaking Los Angeles’s Most Important Museum”, The New Yorker, 5 ottobre 2020, https://www.newyorker.com/magazine/2020/10/12/the-iconoclast-remaking-los-angeles-most-important-museum (consultato il 23/03/2021)
(13) La serie degli articoli di Joseph Giovannini apparsi sul Los Angeles Review of Books può essere consultata al seguente link: https://lareviewofbooks.org/article/lacma-part-going-rogue/ (consultato il 23/03/2021); Cfr. anche Joseph Giovannini, “Lacma’s $650m building plan won’t wash”, The Art Newspaper, 31 maggio 2019, https://www.theartnewspaper.com/comment/lacma-s-usd650m-plan-won-t-wash (consultato il 23/03/2021)
(14) Il titolo del concorso richiama l’omofonia tra LackMA [carenza di Modern Art] con LACMA [Los Angeles County Museum of Modern Art]. Christele Harrouk, “Six International Firms Including Coop Himmelb(l)au, Barkow Leibinger, Reiser + Umemoto Propose New Ideas for LACMA”, ArchDaily, 28 aprile 2020, https://www.archdaily.com/938482/six-international-firms-including-coop-himmelb-l-au-barkow-leibinger-reiser-plus-umemoto-propose-new-ideas-for-lacma (consultato il 23/03/2021)
(15) Cfr. “Building Project: April Update”, Unframed, 9 aprile 2020, https://unframed.lacma.org/2020/04/09/building-project-april-update
(16)Mimi Zeiger, “The cruelness of demolishing LACMA when Angelenos are unable to bear witness should not be ignored”, Dezeen, 4 maggio 2020, https://www.dezeen.com/2020/05/04/mimi-zeiger-opinion-lacma-demolition-coronavirus/ (consultato il 23/03/2021)
(17) Cfr. David De Long, Bruce Goff. Toward Absolute Architecture, Cambridge, Mass., London: The MIT Press, 1988, pp. 289-294
(18) La complessa struttura del padiglione giapponese è stata resa possibile grazie all’intuito e al calcolo di J. Palmer Boggs, visionario ingegnere che ha reso possibile la costruzione di innumerevoli opere progettate da Goff.
(19)“Visit the Pavilion for Japanese Art Before Temporary Closure”, Unframed, 31 gennaio 2018, https://unframed.lacma.org/2018/01/31/visit-pavilion-japanese-art-temporary-closure (consultato il 23/03/2021); Michael VanHartingsveldt, “Behind the Scenes in the Pavilion for Japanese Art: Where Did the Art Go?”, Unframed, 17 dicembre 2018, https://unframed.lacma.org/2018/12/17/behind-scenes-pavilion-japanese-art-where-did-art-go (consultato il 23/03/2021)
(20) I lavori da realizzare sono brevemente descritti nell’articolo di Chi-Young Kim, “What’s Going on with the Renovation of the Pavilion for Japanese Art?”, Unframed, 5 settembre 2018,https://unframed.lacma.org/2018/09/05/what%E2%80%99s-going-renovation-pavilion-japanese-art (consultato il 23/03/2021)
(21) Carolina A. Miranda, “What will LACMA’s new building look like inside? Here are the long-awaited gallery plans”, Los Angeles Times, 17 settembre 2020; https://www.latimes.com/entertainment-arts/story/2020-09-17/after-months-delay-lacma-reveals-gallery-plans-new-zumthor-building (consultato il 23/03/2021)
L'articolo Luca Guido. L’autodistruzione del LACMA proviene da archphoto.
]]>L'articolo Arianna Panarella. Christo, un eccentrico visionario proviene da archphoto.
]]>Christo, Vladimirov Javacheff (1935), l’artista concettuale diventato l’emblema della land art e leggendario in tutto il mondo per aver avvolto su una scala epica paesaggi ed edifici, è morto a New York a 84 anni. Dalla fine degli anni ’60, montagne, musei, ponti, parchi, isole sono stati solo alcuni dei soggetti delle creazioni sorprendenti a cui ha dato vita insieme con sua moglie Jeanne-Claude. Un sodalizio d’amore e di lavoro durato un’intera vita. Lui, nato a Gabrovro in Bulgaria, lei a Casablanca in Marocco, si conobbero a Parigi. Christo fuggì dal regime stalinista per rifugiarsi in Francia, dove iniziò a lavorare come pittore per sopravvivere. Chiamato a dipingere il ritratto di Précilda Denat de Guillebon, conobbe sua figlia, Jeanne-Claude e mai più si divisero.
Le carriere dei due artisti sono state definite dai loro ambiziosi progetti artistici che ogni volta sono rapidamente scomparsi poco dopo essere stati eretti, ma le grandi strutture in tessuto colorato hanno comunque lasciato un segno indelebile in tutti coloro che hanno avuto la possibilità di viverle direttamente. I grandi progetti di Christo, che spesso hanno richiesto decenni di realizzazione e tutti temporanei, hanno visto la collaborazione di dozzine, a volte centinaia, di proprietari terrieri, funzionari governativi, giudici, gruppi ambientalisti, residenti locali, ingegneri e volontari, molti dei quali spesso avevano scarso interesse per l’arte e una profonda riluttanza a vedere le loro vite e il loro ambiente sconvolti da un eccentrico visionario.
Christo ha prevalso, e se abbiamo avuto la possibilità di vedere opere che ci hanno lasciato senza fiato, lo dobbiamo alla sua grande perseveranza e alla convinzione che alla fine tutti avrebbero visto le cose come lui. Un sognatore che è stato capace di dare vita a nuove realtà, che non sono rimaste sulla carta come invece è accaduto per molte personalità geniali dell’arte e dell’architettura. Christo ha creato nuovi paesaggi, non semplici opere all’interno di paesaggi o spazi pubblici, ma interventi che spesso li hanno drasticamente cambiati e capaci di attirare l’attenzione di tutta l’opinione pubblica, un’arte non destinata solo agli addetti ai lavori o ai collezionisti.
“Per me l’estetica è tutto ciò che è coinvolto nel processo – gli operai, la politica, i negoziati, la difficoltà di costruzione, i rapporti con centinaia di persone. L’intero processo diventa un’estetica – questo è quello che mi interessa, scoprire il processo. Mi metto in dialogo con altre persone” (New York Times, 1972). Molti i no ricevuti dalle pubbliche amministrazioni, ma i rifiuti per Christo sono stati sempre lo stimolo per andare avanti e non arrendersi.
Inizialmente nel suo studio parigino, nel 1958, Christo iniziò a collezionare bottiglie, barattoli di vernice, fusti di olio e casse di legno. Li avvolge in teli impregnati di resina, li lega con spago e li ricopre di vernice nera o grigia, una serie di opere in evoluzione che chiamò “Inventory”. Continuò con automobili e mobili, ma dopo aver incontrato Jeanne-Claude, la loro scala si allargò. Nel giro di tre anni stavano lavorando insieme a un’installazione di fusti di petrolio e teloni sul molo di Colonia (“Stocked Oil Barrels e Dockside Packages”, Porto di Colonia, 1961). Come nell’opera “L’enigma di Isidore Ducasse” di Man Ray, dove una macchina per cucire è avvolta in una coperta con dello spago, Christo impiega “l’imballaggio” come tecnica per esprimere in modo più evidente il mistero che avvolge l’oggetto.
La coppia si trasferì a New York nel 1964, dove gli piaceva dire che erano “alieni illegali in un edificio illegale” a SoHo, che poi comprarono. L’anno 1968 si rivelerà fondamentale per la coppia con tre sforzi: Wrapped Fountain and Wrapped Medieval Tower a Spoleto in cui avvolsero la torre medievale e una fontana barocca nella piazza del mercato; Wrapped Kunsthalle (1967-1968) a Berna, dove il museo d’arte svizzero ha dato agli artisti la prima opportunità di avvolgere completamente un intero edificio. L’anno successivo realizzarono Wrapped Coast, One Million Square Feet (1968-1969), coprendo oltre due chilometri della costa di Sidney in 93 mila metri quadrati di stoffa antierosione, assicurandola da una altrettanto interminabile corda, fu il primo “impacchettamento” in scala reale della storia, condotto da un team di scalatori professionisti che stesero il tessuto sulle rocce della scogliera.
Valley Curtain (1970-1972) a Rifle in Colorado, in una valle contenuta all’interno del complesso delle montagne rocciose, la coppia dispiegò una sorta di tenda che serviva a coprire l’intero passaggio. Un progetto maestoso che ha richiesto 14 mila metri quadrati di tessuto, sostenuti da cavi d’acciaio e da barre di sostegno formate da 200 tonnellate di calcestruzzo. La prima realizzazione, completata il 10 ottobre del 1971 durò poco, perché fu distrutta dal vento e dalle rocce. Il loro progetto Umbrellas (1984-1991), da 26 milioni di dollari, ha visto l’installazione di 1.340 ombrelli blu in Giappone e 1.760 ombrelli blu nella California meridionale. Le opere di questi due visionari artisti, se le sono sempre autofinanziate senza l’aiuto di sponsor privati o istituzionali o donazioni e i materiali impiegati sono scarti dell’industria, riciclati e riciclabili. Proprio i proventi delle vendite dei disegni preparatori, collage, modelli in scala e litografie originali hanno consentito loro di guadagnare abbastanza per poter finanziare i loro sogni.
The Pont Neuf Wrapped, Parigi (1975-1985), copyright Christo-ph. Wolfgang Volz
Tra gli altri progetti memorabili: The Pont Neuf Wrapped (1975-1985) il ponte più antico di Parigi viene “impacchettato”, avvolto in un suggestivo telo color giallo oro, il Wrapped Reichstag a Berlino (1971-1995) per il quale sono stati impiegati più di 100 mila metri quadrati di tessuto e dove l’azione creativa dei due artisti diventa un evento generazionale, una vera e propria architettura nell’architettura; infine Surrounded Islands (Biscayne Bay, Greater Miami, Florida, 1980-1983) dove undici isole venivano circondate con 603.870 metri quadrati di polipropilene rosa fluttuante sulla superficie dell’acqua estendendosi in mare per 61 metri dalla costa di ogni isola.
Le loro opere sono state grandiose sotto ogni aspetto, dalla forza lavoro all’impatto. Oltre 600 lavoratori sono stati coinvolti nell’allestimento di The Gates (1979-2005), dove hanno installato oltre 7.503 porte in a Central Park a New York a ciascuna delle quali erano fissati teli di tessuto arancione per una lunghezza totale di 37 chilometri all’interno del parco cittadino. The Floating Piers (2014-2016), non è stata la prima operazione nel nostro paese dei due artisti, ma sicuramente quella con più visibilità e successo pubblico: anche la gente comune scopriva così l’esistenza della land art. Un insieme di passerelle montate sopra al lago d’Iseo, che permettevano ai visitatori di camminare a pelo d’acqua da Sulzano alle isole di Monte Isola e San Paolo.
Due i progetti programmati da Christo che non hanno visto la loro realizzazione: Over the River (1992), che prevedeva ì drappeggi di tessuto traslucido sopra 42 miglia del fiume Arkansas in Colorado, e The Mastaba, che fu concepito nel 1977 per gli Emirati Arabi Uniti. Sarebbe stata la più grande scultura del mondo con 410.000 botti multicolori che formano un “mosaico di colori scintillanti, che riecheggiano l’architettura islamica” di cui ne venne realizzata una versione a Londra in Hyde Park (The London Mastaba, 2017-2018).
Surrounded Islands, Biscayne Bay, Greater Miami, Florida 1980-1983, copyright Christo-ph. Wolfgang Volz
Il tessuto è come una seconda pelle che fa respirare in modo diverso gli oggetti avvolti. Christo e Jeanne-Claude riescono a immergere il soggetto della loro trasformazione in una nuova realtà ed in una differente dimensione percettiva, sia che si tratti di un semplice oggetto o di un paesaggio e per quanto opere volutamente temporanee, hanno segnato inevitabilmente la storia dell’arte e dell’architettura
“Io, Christo, faccio e distruggo opere milionarie, non cercate simboli, godetevi il paesaggio”.
Il sito ufficiale https://christojeanneclaude.net/
5.6.20
Immagine di copertina: Valley Curtain, Rifle, Colorado (1970-1972), copyright Christo-ph. Wolfgang Volz
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]]>Gordon Matta-Clark, Conical Intersect, fotografia Marc Petitjean copyright Collection Canadian Centre for Architecture, Montréal/Marc Petitjean
Gordon Matta-Clark ritorna ad essere al centro del dibattito con un libro e una mostra. A Parigi al Jeu de Paume va in scena Gordon Matta-Clark. Anarchitect, a cura di Antonio Bessa e Jessamyn Fiore, dove vengono presentati i lavori per il Bronx: i graffiti, il taglio del Pier 52, i Bronx Floor, e un omaggio alla città francese con Conical Intersect (1975),un taglio circolare nella facciata di una casa, come un grande occhio da cui traguardare la sagoma in costruzione del Pompidou. Il libro Cutting Matta-Clark. The Anarchitecture Investigation, scritto da Mark Wigley, ha l’ambizione di scoprire nuovi e inediti documenti attraverso una indagine negli archivi del Centre Canadien d’Architecture, depositario di lettere e disegni, e dell’Estate of Gordon Matta-Clark che raccoglie le fotografie, unica testimonianza, insieme ai film, dell’opera dell’artista. L’intento di Wigley é investigare la nascita dell’Anarchitettura partendo dalle parole che Matta scrive sulle postcards: Anarchitettura é fare spazio senza costruirlo…Anarchitettura aggiunge una nozione di eventi non materiali…l’Anarchitettura é più vicina al perfetto gioco di vuoti…
SITE, Best, Retail Store,Houston, 1975 copyright SITE
Di fatto l’Anarchitettura furono in molti a praticarla, basta pensare ai SITE di James Wines, gli Archigram, fino al gruppo che diede vita, fin dal1966 a Firenze, all’Architettura Radicale, tra cui figura l’artista, laureato in architettura, Gianni Pettena. Autore del libro L’anarchitetto, edito da Guaraldi nei primi mesi del 1973, Pettena viene escluso dalle ricerche degli studiosi sulla anarchitettura di Matta-Clark. Laureatosi in architettura alla Cornell University, nel dicembre del 1973, pochi mesi dopo l’uscita del libro di Pettena (che conosceva, come anche Wigley documenta), Matta Clark fonda l’Anarchitecture group (Laurie Anderson, Joel Fisher, Tina Girouard, Susan Harris, Gen Heighstein, Bernard Kirschenbaum, Richard Landry, Max Newhous, Richard Nonas, Alan Saret) anche se solo nel 1974 si palesa con la mostra del gruppo nel ristorante newyorchese FOOD. Wigley evidenzia come la storiografia di matrice anglosassone sia concentrata unicamente sul soggetto della ricerca, senza considerare il contesto culturale, politico e artistico all’interno del quale si muove Matta-Clark. In questo modo si denota una profonda differenza di metodo negli studi storici di noi italiani, che derivano dalla matrice umanistica,con quelle interrelazioni tra artisti, opere e contesto in un continuo passaggio dal dettaglio all’insieme. Si può affermare, parafrasando Trump, America First sempre e comunque anche nel caso di queste due recenti ricerche su Matta-Clark.
Gianni Pettena, Clay House, Salt Lake City 1972, courtesy Archivio Gianni Pettena
Ciò nonostante l’opera di Pettena, prende forma proprio in America, supportata anche da Artforum (giugno 1972). Dal 1971 al 1972, a Minneapolis e Salt Lake City, sperimenta il suo linguaggio anarchitettonico attivando nuovi comportamenti spaziali. Pettena e, poco dopo, Matta-Clark operano una de-costruzione dell’architettura, anticipando Gehry, Hadid e Tschumi, rompendo così tutti i limiti e configurando un nuovo linguaggio. Matta-Clark agisce con i suoi tagli sulle facciate e nei pavimenti per sottrazione di materia, creando nuove forme architettoniche, mentre Pettena accumula materia: con il ghiaccio nelle Ice Houses a Minneapolis (1971), con la creta nella Clay House a Salt Lake City (1972).
Gianni Pettena, Ice House I, Minneapolis 1971, courtesy Archivio Gianni Pettena
Entrambi trasformano spazialmente le architetture anonime americane con un gesto anarchico contro la debordante presenza della tradizione architettonica. Il rapporto tra i due è rafforzato non solo dalla de-strutturazione del linguaggio, bensì dall’usare fotografia e film in 16mm come unici racconti dello svolgimento delle loro performance. Matta-Clark nell’intervista rilasciata a Donald Wall di Arts Magazine (1976), precisa la sua distanza dalla Land Art dove definisce l’Earth artistcome colui che agisce su una tela bianca, “ho scelto di non isolarmi dalle condizioni sociali, ma di trattare direttamente con le condizioni sociali sia per le implicazioni fisiche, come nella maggior parte dei miei lavori, sia attraverso un coinvolgimento più diretto della comunità…Penso che le differenze nel contesto urbano siano la mia preoccupazione principale e siano una grande separazione dall’Earth Art”.
Anche Pettena aveva rifiutatola Earth Art nel dialogo con Robert Smithson pubblicato su Domus (1972): “Non ho il diritto di toccare un’area naturale-afferma- e anche una vecchia miniera [luogo caro a Smithson] in disuso è un posto dove la natura ha operato una rilettura secondo il suo linguaggio, e me l’ha sottratto”.
21.8.18
Immagine di copertina: Gordon Matta-Clark, Conical Intersect, fotografia Marc Petitjean copyright Collection Canadian Centre for Architecture, Montréal/Marc Petitjean
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]]>Paolo Minetti se ne è andato. Lo avevo incontrato nel 2013 quando, insieme ad Amit Wolf, stavo lavorando alla ricerca Beyond Environment. Ero andato a casa sua nel quartiere genovese di San Martino. Un uomo minuto pieno di energia creativa, che raccontava della sua amicizia con Germano Celant e di quella straordinaria stagione dell’arte contemporanea a Genova incominciata con la Borsa di Arlecchino, forma di teatro sperimentale nato a Genova nel 1957 fondato da Aldo Trionfo e diretto da Minetti fino al 1962. Anno in cui partecipa alla cooperativa di artisti che aprono a Boccadasse la Galleria Il Deposito. Da allora si sviluppa un fecondo periodo di sperimentazione in tutte le arti terminata con la fondazione del Museo di arte contemporanea di Villa Croce nel 1985, e la cui triste storia conosciamo tutti oggi.
Minetti è stato un animatore culturale, un gallerista dal fiuto impareggiabile che dialogava con i più importanti artisti degli anni sessanta-settanta e con galleristi come Ileana Sonnabend. Dopo l’esperienza al Deposito fonda con Emilio Rebora nel 1972 la Galleriaforma con la mostra inaugurale il dedicata allo scultore Mario Ceroli. Ma la sua figura di intellettuale va inserita in un contesto culturale ampio che ha visto protagonisti Eugenio Carmi che curava la rivista Italsider ed era anche dentro al Deposito, Rodolfo Vitone scomparso da poco ed editore della rivista Marcatrè, house organ del gruppo letterario ’63, diretta dallo storico dell’arte Eugenio Battisti, mentore di Celant. E ancora la Bertesca dove Celant fece nel 1967 la prima mostra sull’Arte Povera, la Galleria Porquoi Pas poi trasformatasi in Martini&Ronchetti, Unimedia di Caterina Gualco, La Samangallery di Ida Gianelli.
Galleriaforma fin dagli esordi ha saputo guardare alla sperimentazione in atto a livello internazionale concentrandosi sulla Minimal Art, Land Art e Conceptual Art, supportata dalle relazioni che Celant aveva instaurato in Nordamerica. All’inizio degli anni settanta molti artisti americani avevano trovato in Genova una città aperta al dibattito e interessata, grazie a galleristi come Minetti, Martini&Ronchetti, Gualco e Gianelli, a ospitare le loro ricerche. Tra le mostre della Galleriaforma quella di Robert Morris fu sicuramente una delle più interessanti, anche per la complessità nell’installare le travi che furono fatte passare dalle finestre, insieme a Record as Artwork. Il disco come opera d’arte (1959-1973) a cura di Celant.
Invito della personale di Gordon Matta-Clark, 24 ottobre 1973
Nonostante tutta la sua fervida attività, l’opera di Paolo Minetti rimarrà nota nei libri di storia dell’arte per aver invitato l’artista americano Gordon Matta-Clark nell’ottobre 1973 ad una mostra monografica in galleria. Matta-Clark realizza a Genova il suo primo cutting legale sulle alture di Sestri Ponente, recentemente oggetto di una passeggiata organizzata da Joseph Grima con Mark Wigley autore di una ricerca monografica su Matta-Clark (Lars Muller 2018). “Il tetto è stato asportato, lui lo ha fotografato e di lì lo abbiamo portato in galleria- mi disse Minetti nel 2013-il tetto era il più bello e l’abbiamo usato come immagine della mostra…La reazione del pubblico è stata pessima a parte Germano Beringheli [all’epoca recensore delle mostre per Il Lavoro, Il Secolo XIX]”.
Oggi l’archivio Minetti è stato parzialmente donato all’Archivio di arte contemporanea dell’Università di Genova (ADAC), fondato dal critico Franco Sborgi, che nonostante sia un archivio pubblico rimane un luogo poco accessibile ai ricercatori.
Spero che la sua scomparsa possa risollevare interesse nei confronti di un protagonista dell’arte contemporanea internazionale che merita di essere studiato e conosciuto dalle generazioni più giovani.
Ciao Paolo!
Immagine di copertina: Emilio Rebora e Robert Morris, Galleriaforma, ph.Giorgio Bergami, copyright Publifoto
L'articolo Emanuele Piccardo. Paolo Minetti, un gigante dell’arte contemporanea proviene da archphoto.
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