Alessandro Lanzetta_Archiartisti?
La dodicesima Mostra Internazionale di Architettura alla Biennale di Venezia ha uno strano sapore, simile ad un minestrone di cose già viste ma mai consumate fino in fondo. La sua visita fa venire il sospetto che i temi e le ricerche architettoniche delle nuove generazioni non abbiano avuto il tempo di consolidarsi in linguaggi stabili e sufficientemente profondi. Un certo grado di confusione linguistica è ovviamente implicito in questo tipo di eventi mediatici, e tuttavia il tema proposto dalla curatrice Kazuyo Sejima ha generato risposte così eterogenee da far sorgere il dubbio che molti autori invitati abbiano utilizzato l’occasione per esporre tutt’altro, anche se di qualità. È il caso della bellissima installazione «Detached» del cileno Pezo von Ellrichshausen, che fa dialogare le sue opere con i diagrammi che le hanno generate attraverso enormi fotografie a scala paesaggistica e modellini di cemento; dell’evocativa «Voids» dei portoghesi Aires Mateus, che propongono una riflessione sui volumi scavati nella materia, tema centrale della loro architettura; e dell’impalpabile e divertente istallazione «Blueprint» dei fratelli coreani Do Ho ed Eulho Suh, l’uno artista e l’altro architetto, che ricostruiscono la facciata di una residenza newyorkese come fosse un leggerissimo tetto di tessuto traslucido. Quest’ultima opera è emblematica della tendenza contemporanea di comunicare l’architettura con istallazioni artistiche, rendendo le esposizioni difficilmente comprensibili ai non addetti ai lavori, le persone che realmente s’incontrano e incontrano l’architettura.
Le eccezioni a quest’orientamento non mancano, ma a parte poche nuove leve come lo svizzero Christian Kerez, che espone grossi modelli strutturali dei suoi rigidi edifici per rivendicare la libertà e la partecipazione degli utilizzatori, le opere che rispondono al tema sul terreno dell’architettura sono di autori molto noti e spesso abbastanza anziani. In particolare, Toyo Ito presenta il progetto «Taichung Metropolitan Opera House», che come al solito nasce da un particolare sistema strutturale che si adatta alle esigenze e agli usi dei fruitori. La stessa Sejima presenta con Ryue Nishizawa e Fiona Tan una serie di progetti generati dal dialogo con i contesti e gli abitanti, mostrandoci quanto la sua opera ruoti intorno alle persone. Il tema proposto dalla curatrice è stato invece recepito in maniera più attenta dalle Partecipazioni nazionali e dagli Eventi collaterali, in cui si segnala una convergenza generale verso i temi urbani, con una riflessione sull’impossibilità di risolvere i problemi attuali con la scala architettonica. Non che questa non sia presente, ma è proposta a servizio di discorsi più ampi sullo sviluppo e sulle problematiche delle metropoli.
A tal proposito si segnala, nel padiglione francese, la video installazione «Metropolis?» curata da Dominique Perrault che mostra e confronta le recenti ricerche urbane promosse dalle istituzioni del paese sulle città di Bordeaux, Lione, Nantes, Marsiglia e Grand Paris. E ancora, nel Padiglione Danese la video installazione 3D «1947-2047, From Finger Plan to Loop City», che mostra il progetto di un gigantesco anello infrastrutturale per unire le città tra Danimarca e Svezia. Da non perdere, sempre sul tema della metropoli, il padiglione Coreano che presenta «re●place●ing: documentary of changing metropolis Seul» sulla nuova realtà metropolitana del paese; e quello Olandese «Vacant NL, where architecture meets ideas», che costruisce una città generica sospesa, un tetto azzurro al pian terreno che si svela nella sua tridimensionalità solo da un soppalco. L’intervento cileno «Chile 8.8» affronta in maniera magistrale il problema del recente terremoto e i suoi effetti sul paesaggio e sui rapporti sociali, nonché le ricerche fatte sulle strategie della ricostruzione; ed è veramente strano, se non sospetto, che l’Italia abbia affrontato questo tema drammaticamente attuale in un evento collaterale a Palazzo Ducale (nella mostra «SISMYCITY L’Aquila 2010» curata dall’’Associazione fuori_vista).
La bella sorpresa è l’installazione «Reclaim» del Bahrein curata da Noura Al-Sayeh e Fuad Al-Ansari, che rinuncia alla solita glorificazione delle recenti e spettacolari trasformazioni urbane concentrandosi in una sottile analisi dei mutamenti del paesaggio costiero e sul valore sociale delle «architetture senza architetti» tradizionali (nobilitate dalle bellissime fotografie di Camille ZaKharia) capaci di rivendicare il mare come spazio pubblico. Una semplice ma bellissima risposta antiretorica al tema People meet in Architecture, che è stata infatti premiata con il Leone d’oro per la migliore Partecipazione nazionale; un giusto riconoscimento ad un paese stravolto dai cambiamenti che dimostra di saper riflettere su se stesso, cosa evidentemente difficile per l’Austria, che ha presentato un faraonico e imbarazzante allestimento tutto giocato su linguaggi formalisti e iper tecnologici, ormai pesantemente consumati.