Alessandro Lanzetta_Brasil Arquitetura
Brasil Arquitetura, Museo Rodin, fotografia Nelson Kon
«In questo mondo di pura apparenza, fatto da edifici spettacolari e archistar, ci sentiamo come un pesce fuor d’acqua»: così l’architetto Marcelo Ferraz, membro dello studio Brasil Arquitetura, sintetizza la diversità di un lavoro che si fonda su un acuto sguardo antropologico, attento alla storia materiale dei luoghi e dei loro abitanti, e si concretizza in progetti di respiro internazionale, rispettosi dei contenuti culturali locali ma assolutamente contemporanei. Un atteggiamento che si può riscontrare, simile pur nelle differenze, nell’architettura di numerosi altri progettisti della città di San Paolo, gli esponenti della cosiddetta scuola paulista come João Batista Vilanova Artigas, Paulo Mendes da Rocha, o come in parte Lina Bo Bardi, architetta romana naturalizzata brasiliana e maestra degli esponenti di Brasil Arquitetura, ai quali il museo Andersen di Roma ha dedicato una mostra che si è chiusa il 1 maggio e che verrà riproposta, insieme ad un workshop (dal 28 al 30 giugno), a Casartarc di Settimo Torinese dal 1 al 25 luglio 2010.
Una architettura moderna realizzata per lo più in cemento armato, tanto da essere inserita nella corrente del brutalismo, e che tuttavia si differenzia molto dalle costruzioni europee ed americane fatte nello stesso materiale. Per l’architettura brasiliana il cemento armato non ha infatti rappresentato una scelta formale, ma una necessità contingente, l’unica materia da costruzione realmente a disposizione - una pietra liquida obbligatoria, che spesso viene felicemente usata come se fosse un altro materiale. Gli edifici paulisti - a volte maestosi come il Masp (Museo d’Arte di San Paulo) o il Sesc Pompéia della Bo Bardi, altre volte leggeri, chiari, di una pulizia strutturale estrema come quelli di Paulo Mendes da Rocha - mostrano grande attenzione ai temi sociali, ai luoghi e alla cultura urbana e si distaccano dalla produzione brasiliana più nota e più attenta alla forma architettonica, come le celebri architetture di Oscar Niemeyer a Brasilia.
Le opere di Brasil Arquitetura, ha rilevato un altro esponente dello studio paulista, Francisco Fanucci, presentando la mostra romana, sono un processo di sintesi tra preesistenze storiche (testimonianze della giovane cultura creola brasiliana, plasmata dalla fusione di nativi, europei e africani) e nuovi volumi di forte valenza moderna, fino a formare una «terza cosa», un edificio che include organicamente tanto il vecchio che il nuovo. I loro lavori viaggiano quindi in una sorta di dimensione critica della modernità, inserendo in maniera feconda le tradizioni dell’eterogenea edilizia popolare brasiliana nei linguaggi dei maestri del Movimento Moderno. Una posizione polemica sia con gli eccessi del vicino periodo dell’architettura postmoderna, sia con la maggior parte delle stupefacenti produzioni contemporanee, di cui abbiamo recenti esempi anche a Roma.
«Ci identifichiamo con il lavoro e l’atteggiamento di molti architetti più anziani, alcuni anche morti, e vediamo che esistono numerosi progettisti, sia della nostra generazione che più giovani, in cerca di un’architettura fatta di contenuti, con un senso profondo, che possa quindi contribuire a migliorare le città e la vita delle persone», sottolinea Ferraz per chiarire il senso di un’architettura capace di creare una tradizione del nuovo, che metta a sistema tutte le energie della giovane cultura brasiliana, passate presenti e future. «La definizione “tradizione del nuovo” - spiega ancora l’architetto - è stata coniata da Octavio Paz, il grande poeta e pensatore messicano, e in questa espressione vediamo una possibilità per riflettere sul nostro lavoro. Questa frase, apparentemente paradossale, apre a un modo di penetrare la complessità del lavoro con le preesistenze, in un mondo, come quello sudamericano e brasiliano, che manifesta una grande urgenza di fare e costruire. Ci suggerisce molte interpretazioni e letture, che possono risultare dirette, laterali e persino contraddittorie. E questo è molto buono, è ricco».
Brasil Arquitetura, Museo del Pane, fotografia Nelson Kon
La pratica del recupero che consegue da questi ragionamenti può comportare alcune rinunce formali, ma permette di entrare nella pelle della gente brasiliana con lo spirito di chi vuole riscoprirne le abitudini e i modi di vita, e quindi le tradizioni e le eredità culturali. Rappresenta così uno strumento essenziale per far raggiungere ai progetti di Brasil Arquitetura quella sostenibilità ambientale e sociale che, secondo gli architetti paulisti «dovrebbe essere la base della vera architettura, quella che contiene i mezzi fondamentali della buona economia». La dimensione etica del progetto, ricorda Ferraz, è l’insegnamento principale di Lina Bo Bardi, che, come testimonia tutta la sua opera, vedeva nell’architettura un modo per dare dignità agli svantaggiati.
Chiarezza di linguaggio
Brasil Arquitetura, Museo del Pane, fotografia Nelson Kon
Il recente museo del Pane (2007), parte di un vasto lavoro di recupero delle testimonianze della cultura popolare nella regione del Rio Grande do Sul (la vasta regione agricola confinante con l’Uruguay, caratteristica per il paesaggio della pampa ancora coltivato a latifondo) è un limpido esempio di questa visione del progetto di architettura come confronto tra passato e presente. Accanto a un antico mulino, costruito dai coloni veneti emigrati all’inizio del secolo scorso, gli autori si assumono la responsabilità di «incidere» la storia con un forte segno moderno: grossi volumi di vetro e cemento inseriti nel paesaggio con un’estrema chiarezza di linguaggio, struttura e materiali. La distanza di cento anni tra i due edifici è sapientemente colmata dall’utilizzo del legno brasiliano di araucaria, di cui è interamente fatto il mulino; nell’ampliamento questo materiale tradizionale è utilizzato nelle verande, nei «brise soleil», nei pilastri che richiamano le strutture della preesistenza, fino a lasciare le tracce delle travi dei casseri nella superficie del cemento a faccia vista. Al legno è quindi delegato il compito di rinnovamento culturale del progetto, quello di legare le tradizioni della comunità locale con la contemporaneità, creando una «architettura legata alla storia ma rivolta al futuro», come affermano Marcelo Ferraz e Francisco Fanucci.
Questa attenzione concreta al contesto, e il dialogo con le comunità locali sono caratteristiche comuni anche ad altri progetti dello studio brasiliano, in particolare il museo dell’Immigrazione Giapponese (2001) e il museo Rodin a San Salvador di Bahia (2006), come sono tematiche presenti nella produzione di oggetti di uso quotidiano - sedie, piccole panche, poltrone e tappeti - realizzati nella falegnameria Baraúna, di proprietà dello studio. E Ferraz sottolinea come questo sguardo meticoloso e sensibile sui dati materiali della progettazione rappresenti la base teorica del loro lavoro: «Il nostro modo di fare architettura non parte da presupposti fissati da una ricerca scientifica, non esiste qualcosa che fornisce a prescindere le basi del progetto. Facciamo il progetto mentre “nuotiamo” nel tema del lavoro, nel soggetto. Prospettive e previsioni vanno insieme. Nel nostro modo di vedere l’architettura, il progetto contiene la prospettiva, lo stimolo alla ricerca. Si tratta indubbiamente di una dialettica tra questi due termini».
Brasil Arquitetura, Museo del Pane, fotografia Nelson Kon
L’eredità italiana
Brasil Arquitettura dimostra così di possedere una dimensione politica ed etica del progetto che si distacca in maniera netta e critica da molte manifestazioni di successo dell’architettura contemporanea, e che può dare molti spunti di riflessione sulla situazione italiana. Lo studio sudamericano offre appunto un’immagine di quella che sarebbe potuta essere questa disciplina nel nostro paese, se la storia fosse andata diversamente. L’impegno sociale e l’attenzione ai contesti storici sono infatti aspetti che hanno contraddistinto la migliore produzione italiana tra le due guerre - quei lavori di Giò Ponti, Pagano, Gardella, Terragni, che Lina Bo Bardi emigrando in Brasile trasmise ai suoi collaboratori, e che oggi sembra dimenticata in patria. Quell’impegno sembra ora necessario al difficile contesto brasiliano, e il filo rosso con il nostro paese è direttamente testimoniato dalle parole degli esponenti dello studio: «I maestri italiani erano in qualche modo conosciuti dagli architetti della generazione dei nostri insegnanti, che hanno costruito poco, perché nel nostro paese siamo passati attraverso vent’anni di dittatura in cui, anche in architettura, la mediocrità ha prevalso. Lina, nonostante sia considerata una figura molto brasiliana, è colei che in un certo senso ci ha trasmesso la conoscenza degli architetti italiani».
Questo articolo è stato scritto per il quotidiano Il Manifesto