William Mc Even intervista Robert Adams
Il Cappello
Tratto da Darkroom and Creative Camera Techniques (maggio/giugno 1995).
William McEwen è un fotografo specializzato in ritratti; è autore di un volume di saggi dal titolo People and Portraits
WILLIAM MCEWEN: Innanzi tutto, congratulazioni per la sua nomina al McArthur.
ROBERT ADAMS: Grazie. Siamo ancora abbastanza frastornati, anche se il mio sentimento di esultanza è condizionato dalla consapevolezza di quanti siano i fotografi, che io conosco, che non sono ancora stati aiutati: artisti che stanno realizzando un lavoro importante e che soffrono per questo.
WM: Soffrono, in che senso?
RA: David Smith, lo scultore, disse che non sono gli acquirenti a pagare per l’arte, sono gli artisti che pagano. Aveva ragione. Molti fotografi, la cui opera ci è necessaria, sono obbligati a guadagnarsi da vivere, facendo lavori per cui non sono adatti, per continuare a fotografare. E quando questo avviene, c’è un costo da pagare. Può essere che siano sempre stanchi, o che non riescano a passare abbastanza tempo con la famiglia, o che siano tormentati in vari altri modi.
WM: Parliamo di uno dei suoi nuovi libri, Listening to the River. Gli altri suoi libri erano raccolte di singole immagini, mentre questo è formato in gran parte da una serie di sequenze.
RA: L’idea, man mano che ha preso forma, è diventata quella di dare la sensazione di una passeggiata. Le immagini in sequenza erano un modo per rappresentarla.
WM: Le immagini del libro sono verticali, mentre le sue fotografie precedenti sono tendenzialmente orizzontali.
RA: Questa è stata la cosa interessante. Lavorando ho scoperto, con una certa sorpresa, che le immagini verticali erano migliori, così ho standardizzato questo approccio. Forse una spiegazione è che l’orientamento verticale permetteva di inquadrare un primo piano più ampio, e più sentiero.
WM: Alcune sequenze mostrano lo stesso soggetto in modi diversi.
RA: Ciò che desideravo era guardare da vicino, con attenzione. Sono d’accordo con Dorothea Lange quando diceva che molti fotografi smettono di fotografare un soggetto troppo presto, prima di averne esaurito tutte le possibilità. Questo dipende forse dal viaggiare troppo in auto, dal nostro vivere solo di occhiate superficiali. Quel che volevo fare in Listening to the River era rallentare e fare qualcosa di meglio dello strettamente indispensabile.
WM: Che attrezzatura usa?
RA: Le fotografie di Listening to the River sono state scattate con una Nikon F3 35mm, un formato che non avevo mai utilizzato prima per i paesaggi. Nell’arco di tutto il progetto, ho usato un solo obiettivo, un 28mm. Talvolta era limitante, ad esempio quando vedevo degli animali che mi sarebbe piaciuto inquadrare, ma che non potevo, perché erano troppo lontani - i limiti, però, ti permettono di concentrare la visione.
WM: Ha degli assistenti quando scatta?
RA: No, tranne quando ho realizzato il libro Summer Nights. Chris Sublett è venuto in giro con me per sei settimane, un po’ come assistente, un po’ come guardia del corpo.
WM: E in camera oscura?
RA: No, la mia camera oscura è troppo piccola per più di una persona, anche se spero di riuscire ad avere più spazio. Il lavoro in camera oscura è duro. Una volta ottenuta la prima stampa buona, tutto quello che viene dopo è un’angoscia. Ad esempio, stampare Listening to the River è stata una vera sfida. Oltre 170 immagini scelte fra più di 500. Alcune serie sono formate da cinque o sei fotografie, scattate nel giro di altrettanti minuti, con il cielo che cambia continuamente e io che mi giro da una parte e dall’altra. Ne sono risultati negativi di densità diversa, ma non volevo che le stampe avessero un aspetto così differente da non sembrare legate fra loro. Perciò mi ci è voluto molto tempo per equilibrare le cose.
WM: Quanto tempo ha dedicato alle riprese?
RA: Probabilmente l’uno o il due per cento del tempo che dedico alla fotografia nel suo insieme: ovvero scattare, sviluppare, analizzare i provini, stampare, preparare mostre, vendere l’opera e realizzare i libri. L’uno o il due per cento sul campo è ovviamente di gran lunga la parte migliore. Uno sogna di riuscire ad aggiustare un po’ queste percentuali, ma,
stampare su ordinazione, preparare i pacchi, tenere la corrispondenza … far girare questa piccola impresa … porta via molto tempo. Lo stesso vale per la pubblicazione dei libri. Ad esempio, Kerstin ed io abbiamo passato centinaia di ore per selezionare le immagini di Listening to the River.
WM: È stato lei a dare il titolo a tutti i suoi libri?
RA: A tutti tranne uno. Il primo libro, White Churches of the Plains volevo si intitolasse solo White Churches, ma ho perso il controllo del progetto. Per quanto riesco a ricordare, il titolo è stato scelto, ci creda o no, dalla grafica: era un tipo autoritaria! [ride]
WM: È mai stato veramente deluso da uno dei suoi libri?
RA: Mai nel lungo periodo. Anche se In molti casi, dopo la pubblicazione, sono trascorsi mesi interi in cui non ero affatto sicuro di non aver sbagliato.
WM: Che cosa le piacerebbe fare che non ha mai fatto?
RA: Negli ultimi due anni, durante la preparazione dei libri, avrei dato non so cosa solo per potermene andar via, in un posto qualsiasi. Nessun luogo è noioso se la notte hai dormito bene e hai le tasche piene di pellicole non esposte. Ma, per rispondere alla sua domanda, credo che mi piacerebbe tornare in California. Anche se può essere che non ci vada. Il pericolo, quando ho fotografato da quelle parti, basta a pormi dei dubbi. Kerstin è contraria all’idea che io ci lavori ancora.
WM: Che cosa intende con “pericolo”?
RA: Il paesaggio era come carico di rabbia. Nel chaparral, in particolare, vi era la presenza di gente che non vorresti mai incontrare; parecchia droga pesante, i rumori di moto da fuoristrada e spari di fucili. E persino in molti quartieri residenziali, se così li vogliamo chiamare, c’era una sensazione di profonda ostilità … filo spinato, e in ogni casa cani aggressivi: pit-bull, rottweiler, dobermann. Si doveva stare estremamente attenti.
WM: Parlando di fotografia, lei ha usato spesso la parola arte. Perchè?
RA: Io credo che questa parola abbia un significato, quando la si consideri storicamente. Una definizione, non banale né semplice, comunque una definizione, ed anche utile. Molti però, non solo quelli del mondo della fotografia, hanno abbandonato questa parola, o hanno cercato di farla propria, spesso per ragioni commerciali. L’esito è stato pagato a caro prezzo dalla società in generale, e dagli artisti in particolare. La confusione, l’indifferenza, hanno contribuito, per esempio, a far cadere ad un livello sempre più basso il National Endowment for the Arts. Pochi ora affrontano il rischio di tentare di definire, anche solo in termini generali, che cosa sia l’arte, e quindi non c’è modo di stabilire il parametro del successo. Se, qualunque cosa faccia un cosiddetto artista è arte, allora, come ha fatto osservare qualche spiritoso, alle matite non servono le gomme e ai gabinetti non servono gli sciacquoni. Il nostro non voler cercare di definire quello di cui ci occupiamo ha fatto di noi un facile bersaglio per Jesse Helms ed altri reazionari come lui
WM: Allora cos’è l’arte?
RA:
Fondamentalmente, è il tentativo, nato da un’amorosa attenzione al mondo, di trovare una metafora capace di redimerlo. In ultima analisi, il dono dell’arte è quell’unità di coerenza, significato, risultato capace di dare piacere. Ho cercato di scrivere su questo tema nel piccolo libro intitolato, La bellezza in fotografia e, successivamente, in una raccolta di saggi dal titolo Why People Photograph.
WM: Gli scritti da lei pubblicati sono dedicati unicamente alla fotografia. Lei usa la penna per cercare di capire quello che fa con la macchina fotografica?
RA: Pensare è parlare con se stessi e, talvolta, scrivere può aiutare a fare chiarezza nella confusione.
WM: Una volta lei ha scritto che ci sono troppi fotografi.
RA: Ho detto questo? Forse intendevo dire che ci sono troppe persone che hanno bisogno di guadagnarsi da vivere fotografando. Non credo davvero che ci possano essere troppi grandi fotografi. È come in letteratura. Non ci può essere troppa buona letteratura.
WM: Quando era più giovane lei ha trascorso un periodo nella penisola superiore del Michigan. Ha mai preso in considerazione l’idea di ritornarci?
RA: Sì. Eagle Harbor è uno dei luoghi che Kerstin ed io vorremmo rivedere. Ci piacerebbe tornare. Ma non durante l’inverno!
WM: Ha intenzione di fotografare là?
RA: Non ci avevo davvero pensato. Devo stare per un po’ in un luogo prima che mi venga voglia di lavorarci. Se arrivo e comincio a scattare, non va bene per me.
WM: Come mai non va a fotografare in luoghi come lo Yosemite per scattare?
RA: In genere i posti come lo Yosemite mi intristiscono. Troppa folla.
WM: Che cosa sta cercando di portare a compimento nella sua vita di fotografo con tutte le sue fotografie e con tutti i suoi libri?
RA: Imparare come non lamentarmi, credo. Una volta Robert Frost ha detto che il miglior compimento nella vita è imparare ad essere cordiali. Una cosa che sento molto vicina, e molto difficile. Io sono come la donna che, dopo aver portato il suo bambino in spiaggia, se lo vede strappare in mare da un’ondata. Lei promette a Dio che, se gli fosse stato restituito, non avrebbe chiesto più nulla. E l’onda successiva riporta il bambino sano e salvo sulla spiaggia. Lei corre ad abbracciarlo, ma si accorge che il bambino aveva perso il cappello. “Il cappello, Signore”, chiede lei. “Dov’è finito il cappello?”.
WM: Lei mi ha colpito sin dall’inizio come una persona cordiale, così, a quanto pare, lei ci è riuscito.
RA: Per caso, per un nanosecondo! [ride]. I momenti migliori sono quelli in cui sto fotografando: mi aiutano a dimenticare il cappello. Mi aiutano ad essere attento alla bellezza di ciò che ci è stato donato. I fotografi, diversamente dai filosofi, cercano di mettere a fuoco quello che c’è, piuttosto che quello che non c’è.
Archphoto ringrazia Giovanni Chiaramonte e Ultreya per aver concesso il diritto di utilizzo all’intervista contenuta nel libro ” Robert Adams, Lungo i fiumi. Fotografie e conversazioni” edito da Itaca libri e Ultreya. Il libro è la traduzione di “Along Some rivers” pubblicato da Aperture nel 2006