Andrea Costa_L’architetto: mestiere in estinzione?
Tra i molti interrogativi che l’affaire Casamonti solleva, c’è inevitabilmente una riflessione sul mestiere dell’architetto oggi, in Italia. L’architetto, come professionista dotato di uno specifico sapere tecnico e culturale, come artigiano, costruttore o urbanista rischia di essere ormai relegato alle storie dell’architettura del novecento. Il paradosso è che quarant’anni di Facoltà di architettura di massa e di incremento esponenziale del numero dei laureati non hanno in nessun modo modificato le quantità e le qualità del mercato dell’edilizia. La costruzione rimane saldamente nelle mani di piccole e medie imprese e dei loro geometri. Il problema però non è tanto la “concorrenza sleale” di questi progettisti, ma il fatto che sono proprio gli architetti a non poter fare concorrenza ai geometri, almeno sul piano del mestiere. Quanti sono i giovani laureati che hanno visto un cantiere, che sanno come si fa un intonaco o si traccia un impianto elettrico? Quanti sanno cos’è una “pratica edilizia”?
Si dirà che l’architetto ha un altro ruolo, di coordinatore, di regista, di altre professionalità:
ma per potersi imporre in maniera autorevole in un campo sempre più affollato da manodopera non specializzata, che fa il muratore non per scelta ma per necessità (come moltissimi immigrati), è indispensabile che l’architetto recuperi una dimensione artigianale o se si preferisce una chiara dimensione professionale. Così erano i protagonisti dell’architettura nel dopoguerra, i Gio Ponti, i Gardella, i Quaroni. Non a caso Adalberto Libera preparava i manuali di progettazione per i quartieri INA-Casa e Ridolfi, Zevi e Piccinato curarono il Manuale dell’architetto. Uno strumento che non serviva all’autopromozione degli autori ma veniva messo a disposizione di tutti coloro che erano impegnati nel variegato mondo dell’edilizia. Chi oggi tra i più noti critici e commentatori dell’architettura saprebbe farlo? Per quanto riguarda gli incarichi pubblici - piazze, scuole, biblioteche, edilizia popolare – è invece difficile spezzare i legami tra grandi imprese di costruzione, “archistar” e amministrazioni locali. Sempre più i Comuni italiani si rivolgono a pochi “grandi” nomi per realizzare opere pubbliche anche se di limitate dimensioni, impedendo ai giovani architetti di trovare uno spazio.
Un legame, quello tra grandi imprese di costruzione, “archistar” e amministrazioni locali che è accentuato da meccanismi come il project financing, che di fatto hanno delegato agli investitori privati il compito di disegnare il futuro delle città, riducendo l’urbanistica a una mera copertura giuridica e l’architettura a paravento culturale. Alcuni anni fa, a conclusione della sua Storia dell’architettura italiana, Manfredo Tafuri diceva che “non si può ‘coronare poeta’ ogni studente”, ma bisogna puntare a un “buon artigianato”. E invitava le Facoltà di architettura a riflettere sull’insegnamento del sapere architettonico, per dare di nuovo un’utilità sociale al mestiere dell’architetto.
Da allora nulla è cambiato. E’ stato introdotto il numero chiuso, poi aggirato con la proliferazione di nuove Facoltà in tutta Italia. In una simile situazione si continuano a produrre centinaia di giovani laureati, preparatissimi nel produrre immagini sofisticate al computer, ma spesso incapaci di affrontare la complessità del mestiere e con poche possibilità di poterlo svolgere in maniera autonoma. E così hanno buon gioco docenti universitari che sono anche professionisti, che possono disporre di un serbatoio inesauribile di manodopera a basso costo. Manodopera che al tempo stesso alimenta il sempre più ricco mercato culturale delle riviste, delle mostre, dei festival (diretti dagli stessi docenti).
La normalità per l’architetto non è concessa. Un laureato in architettura può sperare soltanto di farsi strada in un grande studio, ma difficilmente potrà mettersi in proprio, a meno che non ne erediti uno studio. Difficile pensare di poter campare con i concorsi di progettazione, che sono pochi, con premi scarsi e spesso aggiudicati in maniera perlomeno discutibile.
Quasi per dare un senso al vastissimo numero di laureati in architettura negli ultimi anni c’è stata un’impressionante dilatazione normativa, accentuata in particolare dalla regionalizzazione delle competenze urbanistiche. Oggi esistono in Italia venti leggi urbanistiche regionali e analoghe differenze esistono per le norme sul risparmio energetico. Invece che investire in un più efficace sistema concorsuale per le opere pubbliche si è investito in una complessità legislativa che non ha eguali in Europa. Di tutto questo traggono vantaggio solo i grandi studi, le società di progettazione, le migliaia di geometri che hanno appreso sul campo queste norme, e naturalmente i docenti universitari che hanno fatto da consulenti alle singole Regioni.
Il mondo accademico non si cura di insegnare tutto questo, e nemmeno di farlo conoscere, salvo poi esercitare in maniera arbitraria il controllo dell’accesso alla professione con gli Esami di Stato. Eppure basterebbe una “gita di studio” negli uffici tecnici di una qualsiasi città italiana per vedere come si consegna una pratica edilizia e capire cosa attende i giovani laureati. Un mondo fatto di tecnici ostili, di consuetudini, di legami spesso opachi. Oppure ancora si dovrebbe portare gli studenti in un qualsiasi cantiere, anche quello di un piccolo appartamento, per capire tutte le difficoltà di una disciplina come l’architettura.
Forse ci vorrebbe una moratoria delle iscrizioni alle Facoltà di architettura e la chiusura di molte delle sedi aperte negli ultimi anni, per permettere di “diluire” nel tempo l’eccessivo numero di laureati degli ultimi vent’anni. Ma il mondo accademico non lo permetterebbe, perché ne andrebbe della propria sopravvivenza. L’altra faccia del sovraffollamento architettonico è infatti un sistema universitario ipertrofico, autoreferenziale e per la maggior parte slegato dalla realtà. Non che tutto debba essere finalizzato solo alla professione, ma è assurdo pensare che tutti debbano diventare nuovi Rem Koolhaas.
Chi si interroga seriamente oggi in Italia su cosa si insegna nelle Facoltà di architettura? Su che tipo di laureato esce da queste Facoltà? Su quali prospettive di lavoro hanno oggi gli architetti? Su come si assegnano gli incarichi pubblici?
Eppure molti giovani che negli ultimi anni hanno fatto l’Erasmus in altri paesi europei hanno potuto constatare di persona sia la diversità dell’insegnamento sia delle prospettive di lavoro. Non che il mestiere dell’architetto sia sempre semplice, ma appunto è e rimane un mestiere, non un surrogato di altre discipline.
E’ amaro constatare come in Italia chi ha avuto la possibilità negli ultimi anni di incidere sia sull’università sia sul dibattito pubblico lo abbia fatto solo a propria maggior gloria.