Marco Ragonese_Lo spazio urbano come open source
La definizione di strategie di marketing urbano e territoriale attraverso cui veicolare l’immagine delle città è, innegabilmente, diventata una priorità nelle politiche di governo. Sintetizzare l’anima della città con uno slogan efficace e di impatto (chi potrà dimenticare la “Milano da bere” degli anni ottanta?) sta assumendo un peso sempre più rilevante, con ricadute economiche non trascurabili. Una delle occasioni grazie a cui è possibile testare l’efficienza di tali strategie, è rappresentata dall’organizzazione di eventi che, prevedendo la partecipazione di figure rappresentative della politica mondiale, fungono da volani promozionali e da occasioni per il rinnovamento urbano. Ciclicamente Banca Mondiale, G8, Nato e altre istituzioni internazionali simili scelgono la sede dove riunire i propri delegati secondo un criterio di rappresentatività (storia, arte) e/o simbolicità (città in fase di riqualificazione, o legate a qualche avvenimento passato), facendo piovere su esse una cospicua quantità di denaro. Negli ultimi anni, però, l’innalzamento del livello di conflittualità sociale e i pericoli derivanti dalla globalizzazione terroristica pongono delle questioni che non permettono più di trattare le città come novelli villaggi Potemkin. Anzi, l’organizzazione di questo tipo di eventi si sta trasformando da opportunità di rinnovamento per le città ospitanti, a problema che gli amministratori locali devono affrontare. Il restyling di intere porzioni di città finanziato dal governo nazionale - e finalizzato alla costruzione di un palcoscenico su cui mettere in scena la propria efficienza - richiede come contropartita la garanzia di standard di sicurezza adeguati all’evento. L’innalzamento repentino di tali standard pone alle istituzioni locali questioni che incidono fortemente sul modo di fruire la città, trasformando l’onore della scelta in un onere difficile da estinguere. In quest’occasione vengono disegnate delle nuove mappe in cui alcune aree diventano dei veri e propri “vuoti urbani”, temporaneamente inaccessibili ai cittadini “normali” mentre altre vengono considerate come spazi di attraversamento e/o accesso da parte di possibili attentatori.
La città così intesa segna il passaggio da una militarizzazione “discreta”, che si preoccupava di “coprire” (mediante gli uomini) più area possibile, alla blindatura fisica della città e alla spettacolarizzazione della sicurezza quale strumento deterrente. Uno dei casi italiani più eloquenti di questo nuovo approccio è stato il G8 tenutosi a Genova, nel Luglio 2001, dove perimetrata la famigerata zona rossa (una sorta di fortino lussuosamente arredato da difendere ad ogni costo), il resto della città è stata trasformata in un campo di battaglia su cui si sono affrontati manifestanti e forze dell’ordine. Esempi medesimi sono rintracciabili in tutto il mondo, ma forse con esiti meno tragici.
Probabilmente, il difetto nell’affrontare il problema della sicurezza, in occasione di tali eventi, risiede nell’incapacità di leggere i fenomeni che riguardano la città e saperli analizzare nel profondo, alla luce dei processi trasformativi contemporanei. O, forse, consiste nel delegare una simile lettura ai soggetti sbagliati. Se vi è, come dice Bauman, una “guerra all’insicurezza, ai rischi e ai pericoli “dentro” la città” , resta da capire come sia possibile operare su un campo già impegnato in una battaglia quotidiana , senza ricorrere necessariamente a strategie militari. I contesti sono sempre più sfuggenti, mutevoli e gli organizzatori, non riuscendo ad individuare il rischio concreto - perché intanto esso è “diventato, tendenzialmente interstiziale” - assecondano un approccio poliziesco nella gestione della città. Certamente il controllo del territorio e l’incolumità dei partecipanti in queste occasioni sono dei punti fondamentali e imprescindibili, ma bisognerebbe interrogarsi se a un uso indiscriminato di spazio (da sottrarre) e forze (da distribuire) a cui la città e i suoi abitanti devono assistere passivamente, si possano sostituire delle strategie che, non perseguendo l’occupazione attraverso la delimitazione, siano capaci di interagire con i contesti (umani, fisici). Pronte a mutare nel caso in cui si presentassero delle “anomalie”. In quest’ottica, gli architetti dello spazio urbano dovranno sforzarsi di proporre progetti che siano dei sistemi aperti, dei veri e propri spazi open source. Luoghi dalla configurazione mutevole, capaci di assumere il cambiamento apportato da fattori esterni come un dato progettuale, operativo, e non come un fallimento. Spazi che, rinunciando ad una definizione formale disciplinante (e disciplinare), utilizzino proprio “l’incidente” non come aspetto problematico da risolvere a tutti i costi ma come materiale architettonico attraverso cui proporre nuove soluzioni e modi d’uso.
Evitando l’indeterminatezza della flessibilità fine a se stessa, ma ricordando la provocazione di Rem Koolhaas per cui “dove c’è il nulla, nulla è impossibile. Dove c’è l’architettura nulla (altro) è possibile” .
Un approccio riscontrabile in alcuni progetti che, fedeli al concetto situazionista di “evento”, utilizzano l’aspetto ludico come chiave per poter operare ribaltamenti semantici e funzionali. Trasformando le “aggressioni” in un gioco in cui lo spazio pubblico non deve essere “difeso” ma assume un ruolo di interfaccia attiva che utilizza la commistione di controllo e indeterminazione tipica del gioco . Resta da capire se soluzioni del genere siano comunque inadeguate perché, in realtà, la crisi dello spazio pubblico è intimamente connessa a quella della politica. Una politica che, non trovando più un linguaggio adeguato attraverso cui rappresentarsi, ricorre a modelli passati incapaci a fronteggiare la complessità contemporanea. O si affida a cicliche operazioni di restyling, scenograficamente seducenti ma strutturalmente ininfluenti, i cui effetti hanno un’inerzia cronologicamente molto breve se non addirittura nulla. Strumenti di una visione della città trasformata in medium, attraverso cui i poteri cercano legittimazione e rappresentatività senza rendersi conto che, seppur manovrando magistralmente lo strumento dell’insicurezza a proprio piacimento, gli spazi della città si stanno liquefacendo e non è più sufficiente la loro delimitazione fisica per impedirne l’occupazione.
[1] Per le opere pubbliche riguardanti il G8 di Genova, per esempio, vennero stanziati circa 60 miliardi di lire dallo Stato grazie alla legge 149/2000 più 70 miliardi messi a disposizione da vari enti. Circa il 40% vennero impiegati per lavori di pavimentazione e restauro facciate (dati reperibili in Carlo Gubitosa, Genova, nome per nome, TerrediMezzo, 2003, pag. 452 e seguenti)
[2] Zygmunt Bauman, Fiducia e paura nella città, Bruno Mondadori, 2005, pag.50
[3] E’ ormai una realtà che, sotto la spinta di una crescente richiesta di sicurezza, il processo di progettazione stia trasformandosi. In nord Europa (soprattutto in Inghilterra) nuove figure provenienti dalla Polizia affiancano il ruolo dell’architetto, come consiglieri per la progettazione (CPDA, crime prevention design advisor) affinché i professionisti si attengano ai dettami della teoria securitaria CPTED (Crime Prevention Through Environment Design) sviluppata dall’architetto statunitense Oscar Newman negli anni settanta.
[4] G.Amendola, La città postmoderna. Magie e paure della metropoli contemporanea, Laterza, 2005, pag.221
[5] Rem Koolhaas, Imaginer le néant, in “L’Architecture d’Aujourd’hui”, n. 238, 1985
[6] Il concetto di spazio passivo da difendere da agenti esterni è alla base del testo guida per la progettazione securitaria: Oscar Newman, Defensible Space. Crime Prevention through environmental design, McMillan 1972
[7] In questa direzione è indirizzata, per esempio, la ricerca del gruppo italiano MA0 (di cui è membro Alberto Iacovoni autore di Game zone. Playground tra scenari virtuali e realtà, Edilstampa, The IT Revolution, 2006) e quella dei gruppi olandesi NL Architects, West 8, Maurer United.