Alessandro Bianchi_Ricostruzione della Jugoslavia

Alessandro Bianchi
Il più grande architetto slavo del XX secolo, Joze Plecnik, da mitteleuropeo quale era avrebbe forse capito bene la situazione attuale dei paesi balcanici: da un’identità – forzata e costruita da Tito – a molte identità che ancora mancano di contenuto e rappresentazione. L’unica realtà distintiva che oggi si vede sono le frontiere: tante e vicine, a tratti surreali. Provate ad immaginare un vecchio ingresso scolastico in cui gli alunni e le alunne entrano da portoni separati per poi ritrovarsi nel medesimo atrio. Questione di forma senza contenuto, apparenza che non ha ancoraavuto il tempo di divenire sostanza. Senza equivoci: questa è un’analisi da architetto, non da sociologo. Non entro nelle questioni etniche ed antropologiche, nelle differenze culturali e religiose che da sempre caratterizzano la polveriera balcanica, ma rivendico il diritto di un’analisi scientifica condotta nei termini di una “pura visibilità” secondo i modelli di Konrad Fiedler e di Lisl Brewster Hildebrand. Saper conoscere attraverso gli occhi, vedere i fenomeni e catalogarli non solo attraverso una memoria letteraria erudita ma anche mediante un bagaglio iconografico di forme è, oggi, una questione fondativa per il futuro. Quante città, dal dopo-guerra ad oggi, sono state devastate dall’insensibilità visiva di molti urbanisti intellettuali? Si è pensato che lo zoning fosse la risoluzione di tutti i problemi, ma ci si è accorti che delle chiazze di colore indicanti destinazioni d’uso del territorio non potevano dare nessuna garanzia di buona forma urbana. Quel disegno urbano che era demandato ai professionisti in applicazione delle previsioni di piano, ma con nessuna indicazione di forma.
Le città più importanti, capitali politiche e culturali della defunta Jugoslavia, Lubiana-Slovenia, Zagabria-Crozia, Belgrado-Serbia, Sarajevo-Bosnia/Erzegovina, accanto alle splendide città romane e veneziane della costa Dalmata come Zara, Spalato, Dubrovnik, vivono un loro rinascimento contemporaneo, chi per la raggiunta autonomia e dignità di nuova capitale, chi per il turismo che tutto imbelletta, chi, in ultimo, come Belgrado, per la forza della propria storia e del proprio orgoglio.

Alessandro Bianchi
E proprio Belgrado impressiona per la maestosità di grande capitale che si estende sulle anse boscate del Danubio. L’essere capitale moderna, per una città, è prima un fatto visivo che burocratico: credo sia dovuto alla non percezione del limite della città, con gli ultimi edifici che si perdono all’orizzonte. Inoltre, alcune “macchine architettoniche” socialiste rendono il paesaggio urbano di Belgrado davvero imprevedibile, riferibile alla città futuristica di Piero Portaluppi (Hellytown, 1926).
Le altre nuove capitali, da Zagabria a Sarajevo, non hanno ovviamente quel carattere di vastità e importanza che contraddistingue una capitale continentale; ma tant’è, lo sono diventate burocraticamente, forse lo diventeranno anche urbanisticamente ed architettonicamente in futuro. Soprattutto Sarajevo può orgogliosamente nutrire questa speranza, dato il suo sviluppo lineare lungo un asse longitudinale che ne allunga indefinitamente la prospettiva e che si potrebbe irrobustire ai lati, nella diversità dei tessuti e delle architetture che la connotano stilisticamente in modo eterogeneo. Effettivamente, da nord a sud della ex-Jugoslavia, l’architettura delle città mostra il volto di popoli diversi da sempre, ma l’idea della separazione attuale, a tratti, per chi attraversa con l’auto i vari Stati in pochi giorni, disorienta. Forse perché eravamo abituati a frontiere storiche che, una volta oltrepassate, come nell’immaginario fiabesco di un bambino, precludevano ad un mondo diverso, fatto di segni e simboli diversi. Invece qui non è così, dalle cose più banali a quelle più importanti: la lingua, i cartelli stradali, le pompe di benzina, le facce della gente. Potrà apparire ingenuo, ma non è così che ci si aspetta un Paese diverso dal nostro. E’ vero che i popoli di etnia serbo-bosniaca scrivono in cirillico mentre quelli croato-bosniaci hanno l’alfabeto latino, ma la lingua parlata è uguale per tutti, provenendo da un Paese che, fino a qualche anno fa, era unico. Tutto il territorio, al di fuori delle città, ha un impronta ancora molto rurale e le case presidiano il paesaggio dispiegando una serenità rassegnata. Certo è un paesaggio non contaminato da superfetazioni di mercato, e in questo senso conserva un’originale purezza e candore di vita quotidiana… e anche di stanzialità mai messa in discussione.

Alessandro Bianchi
L’architettura urbana contemporanea invece, si è internazionalizzata trasversalmente ad ogni Paese balcanico: gettarsi il passato alle spalle è importante ma, in fondo, gli Stati Divisi di Jugoslavia desiderano in apparenza le stesse cose, lo stesso progresso, le stesse icone. Mi si passino con indulgenza queste crude parole, perché contengono il senso di colpa di popoli già peccatori, che di quelle icone capitalistiche vantano già una storia di più di cinquant’anni. A tratti, sembra di
rivedere gli albori di un’Italia da boom economico anni sessanta. Luciano Anceschi parlava di “Autonomia ed eteronomia” a proposito dell’arte; ecco, è proprio così, la necessità comunque di essere autonomi per esprimere, in realtà, principi estranei alla stessa propria volontà di autonomia.
I principi di identità e tradizione devono fare i conti con le dure leggi del mercato turistico che tutto rende omogeneo; allora il negozietto della tradizione lo troviamo dentro il centro commerciale, in una sorta di confusione demenziale che mescola tutto in una medesima zuppa, che in ogni posto
del mondo ha lo stesso sapore.
La manifestazione più interessante di mezz’estate si svolge a Sarajevo, città più martoriata dagli eventi bellici tra il 1992 e il 1995: il “Sarajevo Film Festival”. Il cinema slavo è riuscito ad emergere con un filone nuovo, a livello internazionale, proprio con la rappresentazione della guerra moderna, casa per casa, senza i classici due eserciti sul campo di battaglia. Registi come Emir Kusturica e musicisti come Goran Bregovic hanno mostrato la guerra e la ricostruzione di una Jugoslavia divisa,
con una nuova ironia fatta di familiarità e distruzione, di familiarità con la distruzione. Ed è forse questo il segno nuovo dell’architettura di quei popoli, rappresentata dalla cinematografia emergente: la rovina come paesaggio urbano, accettata con ironia, sorta di non finito che è memoria del passato e monito per il presente, ma al tempo stesso serve ad esorcizzarli. Ricordo con viva lucidità l’ingresso nella città di Mostar, che dalla fine della guerra ha concentrato tutte le sue risorse nel restauro dello storico ponte fra le due città (la parte cristiana e quella musulmana) e delle aree turistiche.

Alessandro Bianchi
Le immagini della ricostruzione hanno fatto il giro del mondo, mentre ciò che si vede quando si arriva in auto sono gli edifici bombardati ancora in rovina; è normale, tutte le nazioni che escono da una guerra spesso ci impiegano decenni a ricostruire completamente, ma ciò non toglie che il paesaggio urbano, ora, appare fortemente ferito. Anche se è un momento di passaggio, che non è la città di prima e che non sarà quella di dopo, questo momento “esiste” e costituisce uno status possibile della
città, che è interessante rappresentare e commentare – e ricordare – per un’analisi complessiva. La città che vediamo è la città reale, quella su cui dobbiamo intervenire attivamente, con l’atteggiamento “purovisibilista” del progettista, senza demandare ad una retrograda urbanistica i contenuti della nostra azione.

[Alessandro Bianchi]

Alessandro Bianchi

Le fotografie sono di Linda Spada