Massimo Ilardi_Banlieu

Corviale_progetto di Mario Fiorentino

Archphoto inizia con il testo del sociologo Massimo Ilardi, scritto per il quotidiano Liberazione, un approfondimento tematico sulla metropoli e i suoi bordi.

Una storia delle rivolte urbane di questi ultimi trent’anni non è stata ancora scritta. Eppure un pensiero critico è da qui che dovrebbe partire, da queste forme di lotta che ininterrottamente -da Roma (1977), per citarne solo alcune, a Liverpool e Londra (1981, 1985 e 1999), da Monaco, Amburgo e Francoforte (1985) a Parigi (1986, 1990 e 1994), da Briston e Leeds (1986 e 1987) a Berlino (1989), Tolosa e Lione (1991), da Strasburgo (1997) fino di nuovo a Parigi (2005)- hanno attraversato le metropoli europee nel periodo in cui la crisi dell’agire politico e della sua cultura ha delegato al mercato il governo del territorio. D’altra parte come è possibile a sinistra pensare, discutere, lavorare sulla costruzione del soggetto se non si tiene conto di queste forme di conflitto? Oppure c’è ancora qualcuno a sinistra (domanda certamente retorica perché sappiamo che c’è) che crede che in una società dell’iperconsumo uno spazio pubblico, che è pubblico proprio perché decide sulla governabilità del territorio, possa essere sempre pacificato e delimitato dalle invalicabili mura della legalità istituzionale? Ma che vuol dire oggi legalità in una società di mercato che ha spazzato via quel primato della politica che la legittimava? Non vuol dire forse legalità delle regole che hanno bisogno non della politica per essere legittimate ma semplicemente del fatto che siano rispettate ed esercitate senza discussione? E in una società senza più valori e ideologie politiche, chi meglio della polizia sa far rispettare l’ordine del mercato e l’insensatezza delle sue regole? Ma quali regole?

Elenchiamone almeno tre: intanto ‘fare società’ per stabilire gerarchie, poteri ed esclusioni, accettare poi la disciplina vigente seppure non più reale del lavoro salariato, considerare infine il consumo come semplice appendice del reddito.
Ma è stato proprio il consumo che si è materializzato come potenza extraeconomica a far saltare l’ordine stabilito dal mercato e dalle sue regole: non solo ha innescato un rapido processo di desocializzazione, non solo ha affossato comunitarismi e universalismi, ma ha trasformato l’intensità del desiderio in un vero e proprio stato di necessità (non si può che consumare) che lo ha reso autonomo sia dalla produzione, sia dal reddito, sia da qualsiasi altra regola. Le rivolte metropolitane nascono da qui, da questa opposizione reale tra mercato e sua società, da questo scarto tra potenzialità infinite del desiderio e possibilità scarse di consumare.

Cosa c’entrano, dunque, la disoccupazione, la cittadinanza negata, il fallimento del multiculturalismo, il fondamentalismo con la rivolta di Parigi? Argomenti passepartout che per essere sempre veri non spiegano nulla. Ma soprattutto cosa c’entra uno scrittore come Dominique Lapierre non solo con Parigi ma con il secolo XXI e che in una intervista idiota a ‘La Repubblica’ (6 novembre) si scaglia contro la violenza distruttiva della banlieu che non risparmia nulla rispetto alle bidonville da lui frenquetate dove “anche il valore di un fiammifero è sacro”?

Quale giovane della banlieu ci verrà a dire che spera ancora in un posto di lavoro per migliorare la sua posizione sociale o che si possa accorciare la forbice dell’ineguaglianza territoriale che crea livelli diversi di cittadinanza? Non ci sono più richieste da fare, non c’è più alcuna illusione da coltivare. Davanti a sè vede solo il nemico. E allora è l’odio che lo tiene in vita e non la speranza inutile dell’integrazione che, tra l’altro, non vuole perchè è l’anticamera di quella assimilazione/omologazione che rifiuta; l’odio scagliato contro il ghetto che umilia il suo desiderio e contro la polizia mascherata da robocop (che rimane l’unica faccia dello Stato che conosce) che impedisce e reprime la sua libertà: quella astratta dei diritti e quella ben più concreta del movimento sulle strade -libertà questa che è connessa non alla giustizia, alla democrazia o all’uguaglianza ma direttamente alle sue pratiche- con posti di blocco incessanti non solo nella banlieu, ma anche nei luoghi d’accesso a quel tempio del consumo che é il centro storico e che si trasformano con la militarizzazione in veri e propri posti di frontiera.

Libertà e sicurezza: e sulla risoluzione di questo rapporto che si giocherà il governo futuro delle metropoli del mondo. Se democratico o meno dipenderà dall’ordine di importanza in cui saranno sistemati questi termini mai dialettici. Che comunque la ricerca di sicurezza ha problemi con la domanda di libertà è un fatto che Parigi dimostra ampiamente: la sicurezza ricerca spazi chiusi, blindati, autoreferenziali, smaterializzati; la libertà invece pretende di attraversare il territorio senza impedimenti e vuole corpi che consumano in fretta e senza ostacoli desideri e piaceri. E seppure va ammesso che senza televisione e cellulari la rivolta non sarebbe durata così a lungo, rimane il fatto che nell’era del digitale, dell’esaltazione del virtuale e della fiction, il veleno della strada brucia ancora desideri ed esistenze: segno che la strada rimane tuttora lo spazio dove si sperimenta e si misura la libertà degli individui, proprio di quella “feccia” criminalizzata dal ministro liberale Sarkozy.

[Massimo Ilardi]

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