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Chi è Mr. Brown? Anzi Doctor Brown? Anzi, per essere più precisi, Doctor William C. Brown? E cosa ha fatto di così importante nella sua, e nostra, vita? Ugo Rosa e Domenico Cogliandro hanno svolto un’indagine che si svilupperà in 5 puntate concatenate, ciascuna ospitata da una webzine di argomento architettonico: ARCH’IT, Archphoto, newitalianblood, Channelbeta, AntiThesi.
Partiamo di buon’ora, dopo avere abbeverato i muli da combattimento, prefissandoci come prima tappa un qualunque motore di ricerca, giusto per cercare quel che ci interessa con le paroline magiche “ponte sullo stretto”. Ovviamente non dimentichiamo, visto che il nostro è sì un viaggio, ma con la comodità che non fu compagna del più noto dottor Livingstone di viaggiare seduti, e soprattutto rimanendo nella stessa stanza da cui si parte, non dimentichiamo di farci incoraggiare da un “the best” dei Creedence Clearwater Revival. Al via, dunque, con Proud Mary, in buona compagnia. Ci fa ben sperare il fatto di trovare quasi immediatamente, correlato alla nostra ricerca, il link www.strettodimessina.it. Ovvio, no?
E’ qui che scopriamo tre questioni nodali: uno, nel 1988 il Consiglio dei Lavori Pubblici, Ferrovie e Anas esprimono un parere, dal punto di vista tecnico, a favore della soluzione ponte, dopo avere deciso di non utilizzare il sistema subalveo, né di potenziare la flotta navale esistente; due, viene affidato l’incarico, appunto, tra il 1988 e il 1992, anno in cui, in extremis, per tutta una serie di questioni legislative, la Società Stretto di Messina presenta il progetto di massima per un ponte sospeso, unitamente allo studio di impatto ambientale; tre, annunciato a chiare lettere si legge che la “progettazione generale” è senz’altro del Dottor William Brown e la didascalia accanto al suo nome recita esattamente così: “Massimo esperto di ponti sospesi con esperienza trentacinquennale, già membro leader della Freeman Fox, progettista dei ponti Severn, Humber, Bosforo I, progettista e Direttore dei lavori del ponte Bosforo II, consulente per il ponte sullo Storebaelt, autore di numerosi brevetti per ponti sospesi”. Da questo si deduce che la nostra ignoranza in materia è abissale, o che comunque, in questo campo minato dell’ingegneria delle grandi opere, rischiamo di trovarci abbandonati, come in un videogames, su una piattaforma petrolifera in pieno Oceano Pacifico. Non possiamo negare di ignorare persino l’esistenza dei ponti citati, per non dire della Freeman Fox (oltre Ove Arup non siamo mai andati), e nemmeno di avere seguito le opere del signor Brown nei suoi anni di carriera professionale. L’ignoranza è un brutto male, di più la presunzione intellettuale. Comunque, questo è quanto.
Certo, per necessità di spazio, la società Stretto di Messina ha optato per la versione “curriculum ristretto”. Bene, ma dove si trova il curriculum completo? Non lo sappiamo. Probabilmente negli archivi della Società in questione, che però su internet non sono palesi.
C’è invece un sito tedesco di rara efficienza e precisione, mister www.structurae.de, che ci ha cordialmente ospitati per qualche tempo e condotti lungo i corridoi della sua magione fino a farci consultare un elenco di tecnici la cui iniziale del cognome era B.
Ora, detta così, pare che siamo arrivati a Berlino da Nisseghion (città grecanica dell’operoso sud, che deriva dalla fusione di località distanti qualche centinaio di chilometri) in un batter di dita. Assolutamente no. Siamo ritornati sui motori di ricerca, nulla, e da lì sui siti delle webzines di settore, e da lì sui siti delle università tecniche, e da lì per le autostrade informatiche che sono fatte di soli svincoli, incroci, ramificazioni. In un certo senso, perduti nello stesso Ingorgo dentro cui Comencini, ispirandosi a un racconto di Julio Cortazar, scaraventa Sordi, Mastroianni, Tognazzi, Depardieu, la Girardot, la Molina, fino a Ciccio Ingrassia e Nando Orfei. Bloccati per 36 ore in un luogo, al centro dell’imbroglio, da dove non si vede il capo e la coda. Dopo tutto questo, dunque, vediamo che alla voce Brown corrispondono cinque nomi.
La prima voce è, per assonanza anche la prima che consultiamo, quella del signor William H. Brown, il quale ha avuto la fortuna di realizzare il Pennsylvania Railroad Brick Arch Viaduct. Il nome del viadotto ferroviario, a memoria di Giedion, Benevolo e Frampton, non ci dice niente, ma la parola Brick non presagisce nulla di buono (il dottor Brown ha progettato un viadotto ferroviario in mattoni, e basta?). Approfondiamo la questione, e scopriamo che mister Brown ha realizzato presso la località di Wilmington, nel Delaware (USA), il viadotto nel 1908, con archi in mattoni.
Se la data non è sbagliata e se il Dottor Brown non ha progettato il ponte di Messina in un rigurgito di talento senile sopravvenuto, a occhio e croce, intorno ai centodieci anni (ma in tal caso di questo dovremmo parlare e non del ponte, che diventerebbe argomento secondario), questo mister Brown non è quel mister Brown.
Allora siamo tornati all’elenco e, rintanato al primo posto, troviamo un “Dr. Brown”, senza nome di battesimo. Clicchiamo sfiduciati e gli troviamo correlato un “Luangwa Bridge” e nient’altro. Clicchiamo su “Luangwa Bridge” e troviamo questa fotografia.
Non solo: tra i credits notiamo che questo ponte, realizzato nello Zambia, sulla strada tra Lusaka e Chipata, ha come designer la società citata dalla Stretto di Messina, la Freeman Fox (e Partners!).
Allora, finalmente, quel dottor Brown è questo dottor Brown.
Forse. La relazione tra il nostro Brown e la Freeman Fox, almeno, sembrerebbe confermarlo. A meno che la Freeman Fox non si serva, per ragioni di budget, di personale raccolto alla casa dell’orfano cui dà, convenzionalmente, il nome del mitico scienziato del film “Ritorno al Futuro”, doctor Brown, appunto.
Ora, ognuno può farsi da solo il viaggio, o ripercorrere quello che abbiamo percorso noi, sin qui. Per comodità ulteriore dei lettori, anch’essi riteniamo accomodati viaggiatori alla faccia di Chatwin, riportiamo una breve nota su questo Luangwa Bridge: i piloni sono in acciaio, e il resto del ponte è fatto in cemento armato. L’altezza dei piloni è di 42 metri e la luce che copre, essendo un ponte ad unica campata, strallato diremmo, è di 222 metri. Tutto qui. Un ponte come un altro, niente di che.
Anzi, come si vede dalla foto, un banalissimo ponte da esportazione, ottimo per il terzo mondo, chè tanto, tra le liane, di quello che faceva Robert Maillart in Svizzera (quasi cento anni fa…) non hanno mai sentito parlare. La cosa (il maggiordomo, per la precisione) ci insospettisce e, certo, non ci acquieta. Se lui è quello che è, da quel che si vede, non può essere quel Lui che ha affrontato inopinatamente tremilaquattrocento metri. Dev’esserci qualcosa sotto, oppure dietro, o sopra, o comunque da una parte che non ci sta innanzi alla vista.
[Ugo Rosa&Domenico Cogliandro]
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