Boris Hamzeian. Un tributo a Richard Rogers
Il Centre Pompidou di Parigi come “meeting place for the people” (Piano+Rogers Architects e Ove Arup & Partners, 1971-1977) (Archives du Centre Pompidou) 17 maggio 2017 Ed è così che ho conosciuto Richard Rogers, uno dei protagonisti della storia del Centre Beaubourg di Parigi, oggi noto come Centre National d’Art et de Culture Georges Pompidou, con tutta quell’umanità e quella curiosità che lasciavano già intendere gli appunti vergati alla mano nei suoi taccuini e le note appassionate di centinaia di lettere scambiate con Renzo Piano, e con i colleghi di Piano+Rogers Architects e Ove Arup & Partners. Sono fiumi di inchiostro, quelli di Richard, dedicati a promuovere e difendere l’idea di un’architettura che è si spazio, impianti, struttura, involucro e gadget altamente tecnologici; ma che tutti quegli elementi li asservisce all’idea di un habitat comunitario per la folla e per la sua libera ricreazione ed educazione. Nato a Firenze nel 1933 da una famiglia anglo-italiana fuggita in Inghilterra per salvarsi dalle persecuzioni del regime fascista contro gli ebrei, Rogers si avvicina all’architettura grazie all’influenza del cugino Ernesto, architetto e membro del gruppo BBPR, e all’amore per l’arte trasmessogli dalla madre Dada. La ricerca di uno spazio flessibile nelle prime esperienze professionali di Rogers: Uffici della Reliance Controls A Swindon (Team 4, 1966) e uffici per la Sweetheart Plastic a Gosport (Richard+Su Rogers Architects, 1969-1970, non realizzato) (Norman Foster Foundation e Rogers Stirk Harbour + Partners Archives) Nel quadro di un periodo formativo difficile segnato anche dalle origini straniere e dalla dislessia, Rogers si forma all’Architectural Association School di Londra negli anni in cui questo istituto è investito da alcuni dei dibattiti più vivaci dell’architettura del dopoguerra: la crisi di identità dei seguaci di Le Corbusier dopo l’apparizione del progetto per la Chapelle a Ronchamp, la ricerca di Reyner Banham e dei protagonisti dell’Indipendent Group di un’estetica nuova e al passo con la nuova società dei consumi, l’affermazione di quello che i coniugi Alison e Peter Smithson hanno appena battezzato New Brutalism e infine la nascita del New Bowellism, quel movimento studentesco che raccoglie già alcuni tra i futuri membri del gruppo Archigram. In questo clima effervescente Rogers sperimenta: si interessa alle opere di Frank Lloyd Wright, testa l’espressionismo New Bowellism, si avvicina al linguaggio New Brutalism sotto la guida del tutor Peter Smithson, si avvicina alla politica e al partito Labour grazie all’incontro con Susan Brumwell, sua prima moglie. Tuttavia è soltanto nel successivo soggiorno negli Stati Uniti, tra un Master a Yale University e un tirocinio professionale presso Skidmore, Owings & Merrill – S.O.M San Francisco, che identifica quelli che sono destinati a divenire le cifre fondamentali della sua attività professionale (1). La scoperta degli esperimenti sulla prefabbricazione e sulla costruzione per componenti di Ezra Ehrenkrantz, l’incontro con Craig Ellwood e la visita di alcune delle Case Study Houses californiane, e le visite alla Glass House in compagnia di Philip Johnson, permettono a Rogers di riscoprire una linea dell’architettura moderna diversa da quella lecorbuseriana che critica come “an active play of mass and solids […] monumental in form”(2). Ed è così che si prefigura ai suoi occhi la possibilità di riprendere quella che definisce “una rivoluzione che non prosegue”, un’architettura leggera, prefabbricata, ottenibile dalla composizione di elementi industriali, racchiusa in un involucro traslucido e luminoso ed infine atta alla costruzione di uno spazio libero e inostruito, occupato soltanto da partizioni mobili e leggere. La Maison de Verre di Pierre Chareau e Bernard Bijvoet è destinata a diventare il manifesto retroattivo di questa nuova architettura (3). Richard+Su Rogers Architects, Zip-Up House, 1968-1972, non realizzato (Rogers Stirk Harbour Partners Archives) L’orientamento verso questo genere di architettura è non soltanto riscoperta ma anche evoluzione personale. Sin dal soggiorno americano Rogers fa confluire in questo orientamento un’attenzione personale per il valore ideologico e sociale della pianta libera, memore degli insegnamenti di Serge Chermayeff, e una fascinazione crescente verso gli impianti tecnici e i corpi serventi, mutuata dalla scoperta dell’architettura kahniana e della quale si trova già una prima traduzione in alcuni progetti studenteschi realizzati a Yale. Questo magma di idee ed esperimenti si chiarisce nelle prime esperienze professionali che Rogers avvia al rientro in Inghilterra in compagnia di Susan, di Norman Foster, suo compagno di corso a Yale, e di Wendy Cheesman, costituitisi sotto il nome di Team 4. Dopo una serie di progetti ancora debitori dell’influenza New Bowellism e della fascinazione per l’architettura wrightiana, la svolta modernista di Rogers si ultima negli uffici dell’impresa Reliance Controls, una scatola miesiana di vetro e acciaio predisposta a creare uno spazio libero e privo di partizioni interne che è già altro rispetto alle piante libere degli uffici americani che Rogers ha visto da stagista nei grattacieli di S.O.M. – è traduzione nello spazio di un’idea di lavoro orizzontale e democratica che stravolge la gerarchia tradizionale verticale tra direttori d’impresa, impiegati e segretari. Nella seconda metà degli anni Sessanta, la ricerca di questo spazio liberatorio e democratico si chiarisce e si rafforza negli “shells” della serie Zip-Up, involucri leggeri ottenuti dalla combinazione di moduli industriali sandwich che Rogers concepisce nella nuova entità professionale fondata insieme a Susan, Richard+Su Rogers Architects e alla quale prenderanno parte anche John Young e Marco Goldschmied. Nel quadro di una sperimentazione che conduce Rogers a testare le potenzialità dei suoi Shell per programmi differenti, dall’abitazione, all’ufficio, sino all’industria, si colloca l’incontro con Renzo Piano che all’epoca Rogers considera “the best younger generation architect in Europe” (4). È proprio Piano a coinvolgere Rogers in una ricerca tesa a verificare le potenzialità degli Shell dei Rogers per la definizione di istituiti educativi all’avanguardia da inserire nei centri storici delle città europee per proseguire una ricerca che Piano sta conducendo con l’amico e collaboratore genovese Gianfranco Franchini e che sta portando i due alla scoperta di progetti quali la Free University of Berlin di Candilis, l’Idea Circus e il Plug In City University Node di Archigram, e certi esperimenti degli allievi fiorentini di Leonardo Savioli (5). L’occasione professionale per testare questa ricerca si presenta nel gennaio 1971 quando Ted Happold, Partner della Divisione Structures 3 di Ove Arup & Partners, invita Rogers a concorrere insieme a lui alla realizzazione del Centre Beaubourg di Parigi. Vinte le esitazioni nei confronti di un concorso nel quale sente delle premesse monumentali e politiche a lui ostili, Rogers, insieme a Piano e Franchini, trasforma la ricerca sugli istituti educativi radicali nella definizione di un “Live Centre of Information”, un’infrastruttura urbana per la ristrutturazione del centro storico parigino e per l’informazione della folla metropolitana (6). L’idea si traduce in una sequenza di superfici inostruite, sostenute da un traliccio metallico nel quale poter rivitalizzare la tradizione delle grandi strutture metalliche francesi – si tratta di un’offerta, quella di Rogers, Piano, Franchini e di Ove Arup & Partners che il presidente francese Georges Pompidou, la giuria presieduta da Jean Prouvé e i futuri direttori del Centre Beaubourg non possono rifiutare. L’esperienza del Centre Pompidou di Parigi è per Rogers l’occasione per definire alcuni degli assunti fondamentali della sua futura carriera professionale. È l’idea di un’architettura che deve dissolversi in un’infrastruttura internamente flessibile e costantemente riconfigurabile secondo la volontà dei suoi occupanti per ribadire che l’architettura è prima di tutto un “meeting place for the people” (7). È l’idea di un’architettura in cui spazio e struttura devono far fronte all’apparizione prepotente degli impianti che, da Le Corbusier a Louis Kahn, tutti i grandi maestri del XX secolo hanno fronteggiato ma che Rogers porta al perimetro degli ambienti del Centre e, esibendoli all’esterno, riscopre come una nuova figura dell’architettura secondo un linguaggio che prenderà il nome di High-Tech. È l’idea di un’architettura eloquente che, prima ancora della svolta semiologica attuata dall’architettura postmoderna, intende comunicare all’osservatore e farsi dispositivo didattico attraverso un codice cromatico funzionale di natura pop. È un’architettura, infine, disegnata secondo una filosofia particolare, quella che Ove Arup usava chiamare “Total Design” e dove ciascun membro del team, da architetti a ingegneri, a partire dai collaboratori più giovani, possa iniettare le proprie ricerche nel progetto. Rientrato a Londra nel 1977, Rogers trasferirà i valori e le scoperte testate nella macchina parigina nelle sue successive esperienze professionali, da Richard Rogers Partnership a Rogers Stirk Harbour+Partners, e in tutta quella serie di opere che sono destinate a segnare il dibattito dell’architettura degli ultimi quarant’anni, dal Lloyds Building al Millenium Dome. L’eredità dell’esperimento Beaubourg nella carriera di Rogers: il Lloyds Building di Londra (Richard Rogers Partnership, 1978-1986) (Rogers Stirk Harbour + Partners Archives) Alla scomparsa di Richard Rogers sopravvivono la moglie Ruthie, l’ex moglie Susan, il fratello Peter, i quattro figli Roo, Ben, Zad e Ab, e tredici nipoti. Alla sua scomparsa sopravvivono anche i suoi edifici, a testimonianza di uno spazio che si voleva più democratico, di un’architettura che voleva assumere i codici estetici e performativi dell’industria, e di componenti che, dalla struttura agli impianti, volevano comunicare con la folla attraverso forme e colori. I più anziani di questi edifici oggi continuano a interrogare l’architettura contemporanea: i loro impianti rivelano il limite insito nella monumentalizzazione di un elemento destinato a una rapida obsolescenza tecnica e funzionale; le loro componenti, pensate per essere rapidamente sostituite, interrogano la questione stessa del restauro. Senza più il loro guardiano, a questi edifici non resta che trovare la forza per avverare la profezia con cui Rogers li ha concepiti – devo divenire vere e proprie macchine vitali, capaci di trasformarsi ed evolvere per assecondare generazione dopo generazione i bisogni dei suoi veri destinatari: le persone. Richard Rogers: lo abbiamo pensato prima di tutto per essere un posto per la gente, “a place for the people”, mi capisici? ma non voglio annoiarti oltre. Dimmi di te, di dove hai detto di essere originario? Buon vento Richard. 23.12.21 *** English 17 May 2017 Boris Hamzeian: Hello? Yet it was only during his subsequent stay in the United States, between a Master’s degree at Yale University and a professional internship at Skidmore, Owings & Merrill – S.O.M San Francisco, that he identified what were to become the fundamental aspects of his professional activity (8). The discovery of Ezra Ehrenkrantz’s experiments in prefabrication and component construction, a meeting with Craig Ellwood and a tour of some of the Californian Case Study Houses, and visits to the Glass House in the company of Philip Johnson allowed Rogers to rediscover a line of modern architecture different from that of Le Corbusier, which he criticised as ‘an active play of mass and solids […] monumental in form’ (9). Rogers saw the possibility of resuming what he defined as ‘a revolution without perpetuation’, a light, prefabricated architecture, obtained from the composition of industrial elements, enclosed in a translucent, luminous shell, and above all suitable for the construction of a free and unobstructed space, occupied only by light, mobile partitions. La Maison de Verre by Pierre Chareau soon became a retroactive manifesto for this new architecture (10). His attraction to this kind of architecture was not only a rediscovery but also a personal evolution: during his stay in America Rogers, mindful of Serge Chermayeff’s teachings, became convinced of the ideological and social value of the free plan and was increasingly attentive to technical systems and service elements borrowed from his discovery of Kahnian architecture, the influence of which was already evident in his student projects at Yale. This magma of ideas and experiments could be seen in the professional work that Rogers undertook upon his return to England, where he joined Susan, his Yale colleague Norman Foster, and Wendy Cheesman to create Team 4. A series of projects still influenced by New Bowellism and his fascination with Wright’s architecture led to Rogers’ modernist turning point: the offices of the Reliance Controls company, a Miesian box of glass and steel designed to create a free space with no internal partitions, different from the American open-office plans Rogers had seen working as an intern on the S.O.M. skyscrapers. The Reliance Controls office translated into space an idea of horizontal structure in which company directors, employees, and secretaries cooperate according to a new democratic philosophy. This growing desire for a liberating, democratic space was exemplified in the Zip-Up series ‘shells’, light envelopes obtained from a combination of industrial sandwich modules that Richard conceived in the second half of the 1960s. He now had a new professional partnership with Susan, Richard+Su Rogers, in which they were joined by John Young and Marco Goldschmied. In 1969, while experimenting with the potential of his Shells for different applications, from homes to offices to industry, Rogers met Renzo Piano, whom at that time Rogers considered ‘the best younger-generation architect in Europe’ (11). Piano involved Rogers in a project exploring the potential of Rogers’ Shells for use in avant-garde educational institutions to be inserted in the historic centres of European cities. This was linked with the research that Piano was conducting with his friend and Genoese collaborator Gianfranco Franchini and which led them to discover projects such as the Free University of Berlin by Candilis, Josic, Woods and Schiedhelm, the Idea Circus and the Plug-in University Node by Archigram, and certain experiments by the Florentine students of Leonardo Savioli (12). The professional opportunity to apply their approach came in January 1971 when Ted (later Sir Edmund) Happold, executive partner of the Structures 3 Division at Ove Arup & Partners, invited Rogers to join his bid for the competition to design the Centre Beaubourg in Paris. Having overcome his hesitation about a competition the monumental and political aspects of which he found antithetical, Rogers, together with Piano and Franchini, transformed his research into radical educational institutions into the definition of a ‘Living Information Centre’, an urban infrastructure for the renovation of the historic centre of Paris and for informing the metropolitan crowd (13). The idea translated into a sequence of unbuilt surfaces supported by a metal trellis revitalising the tradition of great French metal structures. Rogers, Piano, Franchini, and Ove Arup & Partners submitted an offer that French president Georges Pompidou, the jury (chaired by Jean Prouvé), and the future directors of the Centre Beaubourg could not refuse. The Centre Pompidou in Paris was an opportunity for Rogers to define some of the fundamental assumptions that would guide his future professional career: the idea of an architecture that must dissolve into an internally flexible infrastructure that can be constantly reconfigured according to the will of its occupants, the assertion that architecture is first and foremost a ‘meeting place for the people’ (14). His was an architecture in which space and structure must face the overbearing appearance of the technical systems which all the great masters of the 20th century, from Le Corbusier to Louis Kahn, had faced, but which Rogers brought to the perimeter of the interiors of the Centre and, by exhibiting them outside, rediscovered as a new figure of architecture according to a language that would be later named High-Tech. It was the idea of an eloquent architecture which, even before the semiotic shift brought about by post-modern architecture, intended to communicate to the observer and become a didactic device through a functional chromatic code of a pop nature. Finally, it was an architecture designed according to a particular philosophy, what Ove Arup called ‘Total Design’, in which engineers and architects work side by side and in which each member, starting with the youngest collaborators, can inject their own research. Returning to London in 1977, Rogers transferred the values and discoveries tested in the Parisian experiment to his subsequent professional experiences, from the Richard Rogers Partnership to Rogers Stirk Harbour+Partners, and a whole series of works destined to shape architectural debate for over forty years, from the Lloyds Building to the Millennium Dome. Richard Rogers is survived by his wife Ruthie, his ex-wife Susan, his brother Peter, his four sons Roo, Ben, Zad, and Ab, and thirteen grandchildren. While he has disappeared, his buildings survive, testament to a space that wanted to be more democratic, to an architecture that wanted to take on the aesthetic and performative codes of industry, and to components which, from the structure to the installations, wanted to communicate with the crowd through forms and colours. Today, the oldest of these buildings continue to question contemporary architecture: their installations reveal the limits inherent in the monumentalisation of an element destined to rapid technical and functional obsolescence; their components, designed to be quickly replaced, undermine the very idea of restoration. Without their guardian, these buildings have no choice but to find the strength to fulfil the prophecy by which Rogers conceived them, that of becoming vital machines, destined to transform and evolve to meet the needs of their true beneficiaries, the people. Richard Rogers: We designed it first of all to be a place for the people, you understand? But I don’t want to bore you any further. Tell me about yourself, where did you say you were from? Godspeed, Richard.
1 Sulla formazione americana di Rogers si veda : Brian Appleyard, Richard Rogers: A Biography, Faber and Faber, Londra, 1986. 2 Le opinioni di Rogers a tal proposito sono raccolte in una ricerca sulla Maison de Verre redatta durante il soggiorno studentesco a Yale, ma di cui è stato pubblicato soltanto un estratto su Domus nel 1966. Richard Rogers e Ludovic Chazaszcz, « Parigi 1930 », Domus, vol. 443, 1966, p. 8. 3 Ibid. 4 Richard Rogers, Lettera ad Alan e Becky Tempko, 28 luglio 1970, Rogers Stirk Harbour + Partners Archives, Londra, Collezione 1, Faldone Piano+Rogers Architects General Correspondence/Administration. 5 Sulle origini del Progetto del Centre Beaubourg si veda Boris Hamzeian, Centre National d’Art et de Culture Georges Pompidou: Monument National e Live Centre of Information. Cronache di idea, progetto e fabbricazione, 1968-1977, École Polytechnique Federale de Lausanne, Losanna, 2021, (capitolo V), pp. 109-144. 6 Ibid. 7 Renzo Piano, Richard Rogers, Gianfranco Franchini e Ove Arup & Partners, Centre du Plateau Beaubourg [relazione di concorso], Archives Nationales, Pierrefitte Sur-Seine, Archives Publiques, Fondo Construction et aménagement du Centre National d’Art et de Culture Georges Pompidou, de l’Établissement Public du Centre Beaubourg au CNAC-GP, 20100307, faldone 19, p. 1. 8 On Rogers’ American training see : Brian Appleyard, Richard Rogers: A Biography (London: Faber and Faber, 1986). 9 Rogers’ opinions on this subject are collected in a research on the Maison de Verre written during his student stay at Yale, but of which only an extract was published on Domus in 1966. Richard Rogers and Ludovic Chazaszcz, ‘Paris 1930’, Domus, vol. 443, 1966, p. 8. 10 Ibid. 11 Richard Rogers, Letter to Alan and Becky Tempko, 28 july 1970, Rogers Stirk Harbour + Partners Archives, Londra, Collection 1, Folder Piano+Rogers Architects General Correspondence/Administration. 12 On the origins of the Centre Beaubourg Project, see Boris Hamzeian, Centre National d’Art et de Culture Georges Pompidou: Monument National e Live Centre of Information. Cronache di idea, progetto e fabbricazione, 1968-1977, École Polytechnique Federale de Lausanne, Lausanne, 2021, (Chapter V), pp. 109-144. 13 Ibid. 14 Renzo Piano, Richard Rogers, Gianfranco Franchini e Ove Arup & Partners, Centre du Plateau Beaubourg [relazione di concorso], Archives Nationales, Pierrefitte Sur-Seine, Archives Publiques, Collection Construction et aménagement du Centre National d’Art et de Culture Georges Pompidou, de l’Établissement Public du Centre Beaubourg au CNAC-GP, 20100307, Folder 19, p. 1 |