Emanuele Piccardo. Biennale pandemica
Giardini, fotografia Marco Introini Venezia 2021, anno II dell’era pandemica, si apre la biennale di architettura. La città è vuota, non ci sono turisti che affollano i vaporetti, non ci sono i visitatori della biennale con le shopper dei padiglioni nazionali. Non c’è la consueta mostra alla Fondazione Emilio Vedova curata da Germano Celant, scomparso lo scorso anno insieme a Bill Menking, storico dell’architettura e direttore di The Architect’s Newspaper, che sulle biennali aveva scritto il prezioso Architecture on Display: on the history of the Venice Biennale of Architecture. Una biennale sottotono, una città svuotata di contenuto. Nell’avvicinarsi all’Arsenale non c’è la massa di persone che si accalca e ondeggia lungo le calli, tutto appare sospeso, è la biennale pandemica curata da Hashim Sarkis che ha scelto un tema emblematico per il periodo How we will live together? La pandemia ha stressato notevolmente gli spazi urbani ma soprattutto quelli domestici mettendoli in crisi. Gli architetti, gli artisti, i designer sono rimasti paralizzati nel loro vangelo senza avere esplorato nuove modalità di abitare gli spazi. L’esplosione dello spazio domestico, la casa, ha fornito una opportunità per elaborare nuove modalità di vita, nuove funzioni, nuove forme, nuovi linguaggi, purtroppo non è avvenuto. Muovendoci nello spazio maestoso e infinito delle corderie dell’arsenale attraversiamo situazioni eclettiche, dove l’installazione “artistica” prevale sul progetto architettonico. Arsenale, fotografia Marco Introini Così si propone come tema del dibattito sia l’efficacia del modello espositivo sia il progetto curatoriale, dove l’architetto-curatore sostituisce il critico e lo storico mentre nelle biennali d’arte sono queste due figure a selezionare gli artisti. In diverse occasioni si è parlato della crisi della biennale veneziana, tuttavia l’istituzione appare sorda alle proposte che emergono dagli addetti ai lavori, percepiti più come fastidio che riflessione critica costruttiva. Nella primavera del 2020 ho organizzato un talk online dal titolo Ripensare la Biennale con la partecipazione della storica dell’arte Vittoria Martini, la storica della architettura Léa-Catherine Szacka e il critico di architettura Davide Tommaso Ferrando. Durante la discussione è emerso che negli anni settanta la Biennale si era fatta portavoce delle problematiche della città contribuendo alla istituzione della legge per la salvaguardia di Venezia, una attitudine che dovrebbe adottare anche oggi di fronte al continuo spopolamento del centro storico e all’avanzare degli effetti del Climate Change. Ma vi è un’altra questione preminente, abbandonare la suddivisione disciplinare tra arte, architettura, danza e cinema in favore di una sinestesia delle arti non più rimandabile. Di fatto queste discipline si parlano constantemente occorre dunque renderlo palese con una scelta politica coraggiosa dalla nuova governance di Roberto Ciccuto. In questo senso la Biennale Arte/Ambiente curata da Germano Celant nel 1976 teneva insieme arte e architettura, una situazione che non si è più manifestata. La biennale oggi, nelle sedi di arsenale e giardini, appare come una bolla di un mondo ideale mentre fuori c’è la vita vera, qual è dunque la risposta alle istanze portate dalla società civile? Questa biennale, la diciasettesima, concepita nell’era pre-pandemica, appare fuori contesto dove l’insistenza nella modalità della installazione site specific dimostra una debolezza del progetto curatoriale incapace di riadattarsi alla crisi spaziale, sociale e culturale imposta dal Covid. Contemporaneamente ad entrare in crisi è il format delle biennali consolidato nell’uso di video, fotografie, plastici di grandi dimensioni ma occorre ripensarlo profondamente. Quando il postmodernista Portoghesi deve organizzare la biennale di architettura del 1980, manifesta la presenza del passato attraverso la realizzazione di una Strada Novissima, in omaggio alla Strada Nova veneziana, tipico carattere urbano italiano, sulla quale si stagliano, nella loro monumentalità, una serie di facciate di case progettate come una sorta di manifesto di Costantino Dardi, OMA, Michael Graves, Frank O.Gehry, Taller de Arquitectura, Oswald Mathias Ungers, Charles W.Morre, Robert Venturi-John Rauch-Denise Scott Brown, Robert A.M.Stern, Lèon Krier, Purini&Thermes, Josef Paul Kleihues, Stanley Tigerman, Hans Hollein, Studio Grau, Massimo Scolari, Thomas Gordon Smith, Allan Greenberg, Arata Isozaki, Christian de Portzamparc. La forza di Portoghesi è stata avere una idea chiara esprimendo la sua posizione critica e attuando un allestimento che ha saputo dialogare con la dimensione delle corderie dell’Arsenale. Questo nel 2021 non è successo per l’assenza di un progetto culturale che tenesse insieme i temi del presente: post-covid e climate change. Sul fronte delle ricerche gli architetti hanno perseguito la relazione con la biologia come teoria del progetto e non come elemento da cui partire per generare architettura come avevano sperimentato Vittorio Giorgini e Mario Galvagni. L’influenza della biologia ha determinato la ricerca di BIT.BIO.BOT condotta da ecoLogic Studio, un esperimento sul microbioma urbano. “L’opera è progettata-scrivono Claudia Pasquero e Marco Poletto-per testare un modello di coesistenza permanente tra organismi umani e non umani”. La ricerca si basa sugli effetti della Spirulina “uno degli organismi più antichi della Terra-continuano i progettisti-è un cianobatterio commestibile in grado di rimetabolizzare gli inquinanti nell’aria trasformandoli in uno degli alimenti più nutrienti”. Rimane il dubbio nell’uso concreto di questo approccio più vicino alle sensibilità di un artista che a quelle di un architetto. All’interno del rapporto con l’ambiente emergono altri due progetti, Antarctic Resolution e Future Assembly. Antarctic Resolution, curato da Giulia Foscari della agenzia UNLESS, si pone l’obiettivo di fornire una immagine dell’antartide fornita da centocinquanta esperti tra scienziati, geologi, climatologi, antropologi, sociologi, economisti, architetti, artisti per sensibilizzare la comunità internazionale attraverso una piattaforma per il monitoraggio dei dati e delle problematiche connesse al climate change, ponendo l’attenzione anche alla proliferazione incontrollata delle stazioni internazionali che vengono realizzate sul suolo antartico che rappresenta una risorsa determinante per la vita terrestre. Ancora sul tema del Climate Change si innesta la positiva ossessione dell’artista Olafur Eliasson per le conseguenze del cambiamento climatico confluita nel progetto Future Assembly. Elaborato insieme a Sebastian Behmann,(con il quale ha fondato Studio Other Spaces) con i contributi di Paola Antonelli, Hadeel Ibrahim, Caroline Jones, Mariana Mazzucato, Kumi Naidoo, Mary Robinson, i curatori hanno chiesto a tutti i partecipanti alla Biennale 2021 di proporre stakeholder sovraumani con l’obiettivo di garantire i diritti della natura a 75 anni dalla fondazione delle Nazioni Unite. Tuttavia i progetti nelle comunità a livello globale, tra Africa, Far East e Sudamerica, dimostrano la loro versatilità per ogni Biennale e curatore, anche se il lavoro di Aravena è ancora quello più completo sul tema. Tra questi progetti emerge il lavoro degli attivisti di Arquitectura Expandida nelle periferie di Bogotà, Medellin, e di altri nuclei minori con lo slogan SOS Colombia usando il progetto dell’autocostruzione per risolvere situazioni sociali estreme. In questo modo si realizzano spazi per il cinema di quartiere, spazi per il gioco o semplicemente dove stare durante il giorno. Una pratica progettuale che andrebbe applicata anche nelle nostre periferie anziché assistere a progetti spot senza un vero e proprio piano di recupero sostenuto da risorse finanziare adeguate. Così tra Arsenale e Giardini il futuro delle città nell’era post-Covid evapora rimescolando le carte su deja vu come il co-housing dei paesi nordici nel magnifico padiglione disegnato da Sverre Fehn o i modelli lignei delle abitazioni esito delle buone politiche urbane in Belgio. E ancora una stucchevole lezione sul balloon frame nel padiglione USA senza trovare riscontro all’annuncio di una sua rivisitazione contemporanea. Un tema quello del balloon frame ancorato alla tradizione costruttiva ottocentesca che continua a essere usato essenzialmente per bassi costi e velocità di montaggio.
La Germania indica la via al 2038 come sarà la vita nella città attraverso avatar digitali che, con i qr code, ci proiettano in un palinsesto di video interviste appare più un risultato spettacolare piuttosto che denso di contenuto. Di fronte il padiglione francese il peggiore delle ultime biennali che insiste, ancora, sul modello della partecipazione con scarsa efficacia se raffrontato all’edizione 2018 con la selezione di casi studio di spazi abbandonati come ex ospedali e hotel de ville, recuperati attraverso il coinvolgimento di architetti e attivisti civici. Invece il padiglione austriaco rivela, forse in maniera univoca, l’attenzione al cambiamento dello spazio nell’era Covid attraverso le piattaforme digitali, che hanno stravolto le nostre vita dal lavoro alla scuola dei nostri figli. Così i due curatori Peter Mörtenböck ed Helge Mooshammer con Platform Austria indagano “l’affermazione delle piattaforme come forma determinante di interazione sociale ed economica nel XXI secolo”, enfatizzando la mentalità da piattaforma che condiziona la definizioni degli spazi e i loro usi. Come ha scritto Oliver Wainwright sul Guardian : “The biennale is a useful reminder that professional curators exist for a reason, and that architects, for all their other skills, might not be best equipped to do it”. 22.5.21 |