Marco Petroni. Forme di vita: Enzo Mari
…cosa abbiamo perduto nella nostra civiltà e nella nostra vita per riversarci con tanta foga sulle merci? Remo Bodei, La vita delle cose Se ne è andato Enzo Mari. Il virus se lo è portato via insieme a Lea Vergine, compagna e complice. Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi affermava David Foster Wallace sottolineando di come le nostre esistenze bloccate nella paura del contagio abbiano sempre più necessità di trovare un abbraccio con il mondo. E’ così che provare a raccontare la storia di Mari prende la consistenza di un monito a non perdersi. Il progetto ci ha insegnato non è mai separato dal mondo. E’ sempre un atto di cura, un gesto politico. La ricerca della forma ha sempre un’origine etica e come obiettivo quello di trasformare il linguaggio con cui creiamo le relazioni nel e per il nostro quotidiano. La sua opera si manifesta come costante, necessario lavoro di riscrittura e aggiornamento di uno sguardo fuori dalla finestra. Un affaccio sul reale. E’ noto l’invito che faceva ai suoi studenti di guardare il mondo fuori dalla finestra e se c’era qualcosa che non andava, lì c’era lo spazio per un nuovo progetto. Tornano alla mente anche alcuni versi di Wislawa Szymborska, poetessa che Mari ha amato: “… i paesaggi corrono velocemente…è più buio, è buio, stasera e più grande ancora: apro la porta, e più grande ancora: quando lì davanti, e ancora più grande: fiore accanto a fiore. Perché ne hai comprati cooosì tanti?”. Negli anni Settanta Mari rileva una profonda crisi del design industriale che può essere superata solo se la stessa progettazione assume una carica politica. “Chi progetta è il capitale, e sempre più il ciclo della progettazione coincide senza residui con le ragioni della produzione capitalista”. Si tratta, quindi, di comprendere e praticare le possibilità operative di un designer che non voglia essere solo uno strumento nelle mani dell’industria. Per Mari la presa d’atto dell’impossibilità di sfuggire al condizionamento del potere deve essere accompagnata da una esplicita denuncia delle contraddizioni e delle zone d’ombra di un sistema. È necessario che la progettazione assuma un chiaro significato politico attraverso la verifica dei rapporti di produzione e come sfida alle leggi capitalistiche di organizzazione del lavoro che portano all’alienazione e a una cattiva coscienza. Il design come agente di svelamento e trasformazione. Si tratta di progettare oggetti la cui produzione permetta di ottenere un concreto miglioramento delle condizioni lavorative, ma, soprattutto, si tratta di rendere consapevole un pubblico, una classe sociale delle proprie capacità creative. Solo così si potrà scardinare la gerarchia del capitale e condividere un’orizzontalità. L’obiettivo è la socializzazione del progetto. Ecco che Proposta per un’autoprogettazione (1974) assume il ruolo di un manifesto operativo e rivoluzionario. “Un progetto per la realizzazione di mobili con semplici assemblaggi di tavole grezze e chiodi da parte di chi lo utilizzerà. Una tecnica elementare perché ognuno possa porsi di fronte alla produzione attuale con capacità critica. (Chiunque, ad esclusione di industrie e commercianti, potrà utilizzare questi disegni per realizzarli da sé). Mari attiva un processo aperto, dialettico e chiede a quanti costruiranno questi mobili ed in particolare le loro varianti, di inviare le foto presso il suo studio, in piazzale Baracca, 10 – 20123 Milano). Un percorso caratterizzato da un forte slancio etico. “La proposta che le persone fossero sollecitate dagli esempi proposti a realizzare ciò di cui avevano bisogno, anche altre tipologie oltre a quelle proposte, ed a realizzarle liberamente assumendo l’esempio suggerito solo come sollecitazione e non come modello da ripetere ha avuto molto successo e mi sono pervenute migliaia di richieste.” Ma nel 99 per cento dei casi non è capita in nome di un mercato che, in quegli anni, richiedeva oggetti poveri, ingenui, di ritorno alla natura (anche come soluzione a problemi di giovani studenti) o per arredare la seconda casa di campagna, in stile rustico”. Nonostante tutto il risultato è raggiunto e Mari continua a scompaginare il sistema come ha già fatto invitando il designer a fare un passo indietro nella direzione della coprogettazione con Proposta per la lavorazione a mano della porcellana (1973) Qui gli oggetti richiedono necessariamente il lavoro manuale di un artigiano che partecipa al progetto iniettando nel corpo degli oggetti i suoi saperi, le sue tecniche e attivando un’umanizzazione del processo produttivo. Torna l’amore di Mari per l’Arts and Crafts. E’ un invito al coraggio e il design si apre su sentieri al principio poco frequentati, e che però col passare del tempo si allargano a ritmi sempre più incalzanti lasciando disabitate le strade maestre con l’intensità di chi sa raccontare con la grazia e la verità dei poeti che quando non capisci dove stia andando a parare come ci ha insegnato Roberto Bolano ”si mette a cantare all’orecchio una canzone da ubriachi che parlava della morte e dell’amore, le due uniche cose vere della vita”. La vitalità della sua lezione è quanto mai utile in questo nostro tempo e ci invita a non aver paura di allenare il pensiero per cambiare lo stato e il punto di vista sulle cose o almeno, di provarci. Nel contesto generale della crisi che si trascina anche se cambiano i tempi, le politiche, i protagonisti, quella di Enzo Mari è una storia che andrebbe rimeditata con rigore. La partita nel campo del design si gioca nella messa in questione della nozione stessa di progetto che va inteso come esperienza di conoscenza, interpretazione e cambiamento del mondo. Occorre sintonizzare le frequenze della cultura del progetto sui grandi temi del nostro tempo incerto e malato. 1.10.20 |