Massimo Ilardi. Solo la vita conta
C’è un vecchio spettro che si aggira dopo ogni tragedia dell’umanità non solo per l’Europa ma per tutto il mondo e si chiama niente sarà più come prima. Lo vedevi vagare nelle trincee della prima guerra mondiale, errare tra le rovine della Berlino del 1945 dopo la sconfitta del nazismo, gironzolare nel 1989 sempre a Berlino sopra le macerie del muro e la fine dei regimi comunisti, volteggiare nel 2001 su ‘ground zero’ dopo il crollo delle Twin Towers a New York. Ma lo spettro, seppure evocato dalla speranza di milioni di persone, non si è mai materializzato e così tutto ha seguitato ad essere come prima. La immutabilità della natura umana, fondata sui rapporti di potere, sulla volontà di dominio e sulla irriducibilità del conflitto, ha sempre facilmente vinto sulla utopia di un altro mondo possibile e sulla aspettativa di un cambio di civiltà che ci avrebbe reso migliori. E, d’altra parte, il realismo politico, che da Machiavelli va ad Hobbes fino a Schmitt ha rivelato un mondo che non esiste? Ha raccontato di una natura umana che era sporca, brutta e cattiva solo nelle teste dei suoi teorici? Oppure è reale e vigente una immutabilità della stessa natura umana che fonda uno dei presupposti essenziali dell’agire politico e della sua autonomia? Penso proprio che è da questo ultimo e retorico interrogativo che bisogna partire. Non solo. Più si ammonisce a coltivare la memoria, a non dimenticare, anzi a pontificare che il passato è sempre più presente tra noi e più si riesce a fare rapidamente tabula rasa non solo di tutto il passato ma anche della tragedia appena trascorsa. Il ritorno alla normalità non è altro che il ritorno a ciò che si era prima, magari con qualche arnese cambiato ma con gli obiettivi e le pratiche per raggiungerli che sono rimasti gli stessi: “moto, ordine e potenza”, direbbe Machiavelli. Ma anche questa impossibilità del mutamento si dimentica presto, perché di fronte alla catastrofe attuale della pandemia universale, che di nuovo ci assicurano cambierà la vita di uomini e donne, lo spettro, nonostante tutto, viene ancora una volta invocato. E allora ecco che si ricomincia a sognare come possibili un ritorno degli spazi pubblici che non siano più quelli ridotti al rito del consumo ma dove si discute e ci si incontra, una rinnovata coscienza sociale, l’emergere di un senso irrefrenabile per la comunità, la scoperta finalmente dell’altro, una libertà individuale che non sovrasti gli interessi della collettività. Insomma, dopo la nottata, ci garantiscono che staremo tutti insieme appassionatamente. Ma quelli più avveduti sanno che non sarà così. Gli uomini conoscono come trasformare il mondo ma non la loro natura e probabilmente sanno trasformarlo proprio perché sono fatti così. E’ questo quel “senso dell’attuale”, di cui scriveva Walter Benjamin, “dovunque esso viva nella selva del passato”. Ma allora quali sono le ragioni di questo desiderio di un rinnovamento che però è sempre mancato? Credo che la vera origine stia nella difformità tra ciò che si è e ciò che si ha o, meglio, tra ciò che senza consapevolezza si è e ciò che consapevolmente si ha. Da qui la ricerca dell’impossibile pur di ottenere quello che non si ha. E così, al contrario di quello che si crede, non viviamo affatto in una società disincantata. Violenta, egocentrica, portata al sopruso, alla prepotenza, alla guerra ma non disincantata. Le persone hanno bisogno continuamente dell’incanto per sentirsi vive, utili, sicure, di relazionarsi, partecipare, solidarizzare, amare, odiare, venerare. E tutto questo compiuto in riti sempre-uguali e ripetitivi che spesso la paura fomenta e che sono l’opposto della percezione della realtà. Non solo. L’incertezza, determinata dalla caduta dei Valori fa rivolgere loro gli occhi in alto verso i santi o in basso verso la superstizione; le passioni le travolgono. Ecco allora che gli antichi idoli, ridotti ormai a simulacri della cultura del moderno, vengono rispolverati per un trionfale “ritorno al passato”. Ci si inoltra sempre più nel folto della grande foresta della storia fino a riscoprire localismi, comunitarismi, fondamentalismi religiosi, ossessioni apocalittiche ed escatologiche, pratiche magiche, pseudo-religioni, apparizioni divine. In questa situazione, il recupero di un senso della realtà, che il potere della comunicazione e delle immagini ha pericolosamente ridotto, sarebbe fondamentale, ma questo recupero passa attraverso un ritorno dell’agire politico, il solo che può portare a non cadere in quelle illusioni che allontanano la possibilità di affrontare la realtà per quello che è e non per quello che vorremmo che fosse, e soprattutto di affrontare noi stessi per quello che siamo e non per quello che vorremmo che fossimo. La politica ha infatti a che fare con il particolare, la contingenza assoluta, l’incertezza, non con i valori e gli universali di cui ci sentiamo ancora orfani. E infatti quel niente sarà più come prima che cosa è se non un valore a cui ci aggrappiamo e dal quale immancabilmente precipitiamo? C’è un indimenticabile dialogo in “Viaggio al termine della notte” scritto dal grande Ferdinand Céline che spazza via ogni pericoloso universalismo, in questo caso l’ideologia del pacifismo, e che riconduce le scelte dell’individuo ai suoi interessi reali, alla misura del suo corpo, dei suoi limiti e della sua consapevolezza: “Sì, addirittura vile, Lola, rifiuto la guerra e tutto ciò che c’è dentro […] La rifiuto nettamente, con tutti gli uomini che contiene, non voglio avere nulla a che fare con loro, né con essa. Anche se fossero novecentonovantacinque milioni e io solo, sono loro che hanno torto, Lola, sono io che ho ragione, perché sono il solo a sapere che cosa voglio: non voglio morire […] Solo la vita conta […] Io non credo all’avvenire, Lola”. 1.6.20 Massimo Ilardi, è un sociologo urbano ed ha insegnato Sociologia urbana presso la Facoltà di Architettura di Ascoli Piceno, Università di Camerino, ha fondato la rivista Gomorra. |