Agostino Petrillo. Ex captivitate salus?…
Genova, veduta dal forte Tenaglie, fotografia Emanuele Piccardo. Conosci il tempo! Pittaco Che cosa è quello che i moderni chiamano solitudine? E’ qualcosa di diverso dalla solitudine che potevano sperimentare gli antichi? Fino a che punto e in che modo siamo legati agli altri? C’è una solitudine “buona” e ce n’è una “cattiva”? Sono quesiti classici che tornano oggi di attualità al tempo del confinamento e del forzato “distanziamento sociale”. Una condizione di reclusione che irrompe bruscamente in società della comunicazione generalizzata, della iperconnessione, della mobilità continua, riconducendo i singoli a una dimensione inusuale. Improvvisamente cessa o quantomeno si attenua l’intensità della interazione sociale. Ci si trova ricacciati in una condizione poco esplorata, nota forse tutt’al più al disoccupato di lungo periodo, a chi ha visto per una ragione o per l’altra allentarsi i suoi legami sociali, al solitario eccentrico e controcorrente. Difficile e a volte amaro esplorare questa dimensione inedita. Nella privatezza dello spazio domestico si diventa come l’agrimensore di Kafka, il Landvermesser, patetico misuratore affaccendato in attività fondamentalmente inutili, risucchiato a mettere ordine un universo in cui “tutto è già in ordine” come dice il Sindaco del “Castello”. Le opportunità, a lungo agognate, di avere tempo per sé si rivelano vuote, la “interiorità feticizzata” come la chiamava von Lukacs si sgonfia, mentre i siti porno registrano un boom di contatti. Con un curioso ampliamento e un sostanziale rovesciamento prospettico la zona rossa dei giorni del G8 diviene l’intero mondo esterno, cui si accede solo via permessi, controlli, certificazioni, improvvisamente divenuto remoto e foriero di minacce e pericoli biologici. Ma i veri confini di questo brave new world che è la casa-cella, li disegna la paura più di quanto non li delimiti la noia o il potere con i propri provvedimenti polizieschi e amministrativi. Solitudine e paura procedono di conserva, vanno di pari passo, dato che nella paura il singolo è continuamente riprecipitato in se stesso. Non c’è solitudine che non si accoppi all’ansia, soprattutto quando le possibili cause del pericolo non sono immediatamente identificabili, e ci si sente inadeguati a fare fronte alla nuova condizione in cui ci si trova. Così isolamento e ansia si intensificano quando ci si ritrova improvvisamente catapultati e ristretti in una realtà che non è nemmeno paragonabile alla precedente, di cui non sappiamo quando vi ritorneremo. E’ la paura che permette al potere di esercitarsi dispiegando integralmente la sua potenza, che altrimenti rimarrebbe poco più che parola e divisa… “solo chiacchiere e distintivo”, come recita la battuta di un film celebre. Nel momento in cui tutto il mondo esterno viene percepito attraverso la paura, la propria dimora diviene isola e carcere volontario, la solitudine si fa forzatamente domestica e scelta. In uno scritto giovanile Gilles Deleuze rifletteva sulla condizione di chi vive in un’isola. L’abitante dell’isola non fa che ribadire in continuazione la propria separatezza, il proprio essere sottratto al mondo, e sviluppa uno psichismo tutto particolare. Ex captivitate nulla salus… da una parte alcune cose che appartengono al “mondo esterno” per l’isolano perdono di valore, il denaro, il possesso di beni materiali, ma dall’altra c’è un allentarsi del legame sociale, un difensivo “egoismo di ritorno”, che prelude alla regressione tribale e alla ripresa della “guerra di tutti contro tutti”, con le dinamiche benissimo illustrate da James Ballard in “High Rise”…mentre dileguano i concetti di cittadinanza e solidarietà. Il santo abbandono del mondo praticato dai vecchi mistici e dagli eremiti ora rischia di trasformarsi in una defezione di massa dalla dimensione del pubblico e del collettivo, da cui rimane esclusa solo la gita al supermercato. Il mondo si contrae alla dimensione angusta della stanza/cella, da cui si fuoriesce con patetici stratagemmi, rispolverando la vecchia tuta da jogging o la bicicletta che arrugginiva in garage. O mediante il misero surrogato della comunicazione via Skype, che, come dice Slavoj Zizek, rischia di diventare la forma “normale” di contatto tra le persone nell’epoca del distanziamento sociale. Dopo avere così tanto scritto sulla crisi dello spazio pubblico, denunciando la sua scomparsa e privatizzazione, e dopo avere spesso lottato per conservarlo e riaprirlo, oggi, nella nuova epoca della paura che si è drammaticamente dischiusa, siamo pronti a rinunciarvi in nome della salvezza, di una salvezza corporea e materiale, non di quella redenzione metafisica che cercavano i mistici del santo abbandono. Come ha scritto efficacemente su queste stesse pagine di archphoto Alessandro Lanzetta: “il Covid 19 ha annullato lo spazio pubblico trasformandolo in una circonferenza di un metro di raggio con al centro il singolo individuo”. D’altro canto, lì dove non frenano la paura e l’azione di sorveglianza svolta dallo stato interviene un terzo fattore: il diffondersi del controllo collettivo esercitato dal basso. La denuncia corre sui social, l’irresponsabile che si muove è fotografato, spiato, braccato da un urlio che proviene dai balconi e innaffiato a secchiate d’acqua. Naturalmente nessuno si chiede perché nel frattempo gli operai debbano continuare a lavorare…Ma da dove proviene lo scatenarsi improvviso di questo irresistibile impulso a denunciare? Non è possibile ricondurlo unicamente alla paura, per alcuni psicologi, come Theodor Reik, esiste nell’umanità un mai sopito Jagdlust, un “piacere della caccia”, che si intreccia al piacere della punizione del criminale, e sarebbe anche all’origine della fortuna di un intero genere letterario come il romanzo giallo. Certo nell’epoca della delazione di massa torna d’attualità, sia pure deformata, quella figura sociale all’incrocio tra flaneur e detective che aveva già individuato Sigfried Kracauer nelle metropoli degli anni Venti, e che nasceva dalla noia di “coloro che aspettano”. Elisabeth Noelle-Neumann, che aveva attraversato a sue spese hiltlerismo e stalinismo, ha fornito un’altra spiegazione suggestiva nel suo libro “La spirale del silenzio”, in cui sostiene che il timore dell’esclusione e di rimanere isolati spinge gli individui ad aderire in maniera morbosa e acritica all’opinione pubblica “ufficiale”, da cui temono di distaccarsi per la paura di rimanere soli. In tempi difficili ci si adegua il più possibile a quello che media e informazione di regime ci propongono, guardandosi bene dall’esprimere posizioni controcorrente o devianti rispetto alle verità proposte. Anzi la Anpassung come la chiamano i tedeschi, l’allineamento, diviene entusiastica fino al fanatismo. Mi torna alla mente che in un libro di una ventina d’anni fa, “La città perduta”, che purtroppo torna attuale, mi ero scagliato contro i teorici della “sorveglianza naturale” di vicinato e del Neighborhood Crime Watch, sostenendo che questo tipo di approccio ai problemi della sicurezza urbana finiva per creare un clima favorevole alla nascita di società dispotiche e profondamente desolidarizzate, gettando al contempo le basi per città di estranei. Nel modello ideale di convivenza prospettato dal Community Policing, isolati in cellule domestiche, imprigionati nelle loro stesse abitazioni, trincerati nel cortile di casa, i cittadini-delatori si sostituiscono quasi completamente alle agenzie ufficiali della sicurezza, che non devono fare altro che raccogliere le loro segnalazioni su tutto quanto di anomalo si muova sui territori. Ma oggi ci troviamo già oltre la stessa più estrema formulazione delle teorie della “sorveglianza naturale”: il modello foucaultiano della città appestata, descritto mirabilemente in “Sorvegliare e punire”, di cui stiamo sperimentando la riedizione su scala planetaria, rischia di fondersi con una sorta di panottismo decentrato, in cui il “grande occhio” è collettivo e in agguato ad ogni angolo, supportato e potenziato dalle tecnologie. Potere di costrizione, di analisi degli spostamenti e di differenziazione dei profili dall’alto, entusiastico panottismo di massa dal basso e proliferazione di social della denuncia, magari alimentati dal piacere della caccia di cui sopra. Il cerchio si chiude. Quando si cede alla paura, questa trascina i singoli verso gli aspetti più bassi e regressivi della vita. Lo “stato di emergenza” si alimenta di questi comportamenti e di questa regressione collettiva. Una volta abbandonato il terreno solido di ciò che è normale e consueto, la paura può degenerare in odio, in crudeltà, cerca sfoghi e risposte, ha bisogno di dare forma materiale a quello che non vede. Nel contesto bizzarro in cui ci troviamo improvvisamente a vivere non possono perciò non tornare alla mente le teorie della violenza e del sacrificio umano in chiave antropologica, alla Walter Burkert, il riemergere dello Homo Necans, o del desiderio mimetico, per dirla con René Girard che prelude alla violenza generalizzata, e se si proseguirà su questa strada di esasperazione e di caccia all’untore non c’è che da aspettare le prime vittime… Questo accade dentro, ma cosa accade realmente fuori? Nell’isolamento, guardato da “dentro”, il mondo esterno assume contorni più netti e inquietanti. Le città vuote non sono solo quelle senza amore della bellissima canzone di Mina, ma sono quelle che i poteri autoritari desiderano contemplare. “Pietroburgo deve essere vuota!” pare ripetesse Pietro il Grande che l’aveva creata. Città morte, imbalsamate, da cui scompare la vita, che funzionano unicamente come scenario pittorico e monumentale. La rara figura umana che passa pare l’omino che veniva strategicamente collocato nel vecchio vedutismo per dare un’idea delle proporzioni degli edifici. Per contro muta la percezione degli odori, dei suoni della città. Una sola automobile che passa in lontananza lacera il silenzio, pare produrre un rumore enorme. Ma nel vuoto di umanità si può cogliere anche tutta la bellezza delle città antiche, mentre la bruttezza di tante periferie risalta ancora di più nella mancanza di vita. Nel nostro autoesilio ritroviamo il profumo dei fiori che giunge improvvisamente dalla campagna, e forse questa immagine sospesa della città, sorpresa da quello che c’è intorno, proiettata in una dimensione quasi atemporale è anche una suggestione di quello che nelle metropoli ci manca, del silenzio, del grande tempo della natura che la vita “normale” in esse cancella. Una specie di monito quindi che ci giunge in questi giorni strani, e al tempo stesso un invito potente a ripensare la città e la socialità dopo il coronavirus. 31.3.20 |