Fabrizio Violante. Max von Sydow

Max von Sydow ci ha lasciati. Inevitabilmente ci abbandoniamo alla suggestione cinefila dell’attore novantenne, vinto nella partita definitiva a scacchi con la morte. L’immagine che torna alla mente è naturalmente legata alla celebre sequenza del film Il settimo sigillo, diretto da Ingmar Bergman nel 1957. Non aveva neanche trent’anni allora von Sydow, quando indossò i panni del cavaliere crociato Antonius Block che, al ritorno dalla sua missione di guerra santa, sfidava la morte al gioco degli scacchi, nel vano tentativo di rimandare l’ora fatale, entrando così nella storia del cinema.

Era nato il 10 aprile del 1929 nella cittadina di Lund, da una famiglia della colta borghesia luterana. Dopo gli studi drammaturgici a Stoccolma era entrato nel teatro stabile di Malmö, diretto proprio da Bergman che lo sceglierà come interprete di ben undici dei suoi lavori per il grande schermo. Titoli indelebili, come Il posto delle fragole (1957), Il volto (1958), La fontana della vergine (1960), Come in uno specchio (1961), Luci d’inverno (1963), che riempì con la sua figura imponente e caratterizzò con una recitazione controllata, dalla gestualità contenuta e dalle espressioni che tradivano perfettamente tutta la tensione del dramma interiore e della spiritualità inquieta e interrogativa dei protagonisti bergmaniani. La fermezza recitativa e il tormento di quei personaggi si legarono indelebilmente all’immagine di una personalità incisiva che trovò anche il successo hollywoodiano, anche se quasi sempre in ruoli di comprimario. Presente, così, soprattutto in pellicole di genere, Max von Sydow ci ha regalato personaggi come il killer Joubert de I tre giorni del condor (1975), l’improbabile imperatore Ming, acerrimo nemico di Flash Gordon (1980), del fantasioso polpettone fumettistico prodotto da De Laurentiis, l’ufficiale nazista Karl Von Steiner di Fuga per la vittoria (1981), il dottor Kynes, planetologo imperiale del fallimentare Dune (1984) di David Lynch. Svariate prove d’attore, tra cui anche l’interpretazione di una personalità non da poco come Gesù Cristo nel kolossal biblico La più grande storia mai raccontata (1965), sempre colorate da una sorniona, quasi impercettibile ironia, che furono premiate solo con due nominaton all’Oscar: una per Pelle alla conquista del mondo (1987), film vincitore a Cannes diretto dal danese Bille August, e l’altra come attore non protagonista per il film Molto forte, incredibilmente vicino (2011), scialbo adattamento del romanzo di Jonathan Safran Foer.

Tra gli innumerevoli ruoli (così tanti che secondo alcuni hanno finito con lo svilire in parte la sua carriera) interpretati da Max von Sydow, quelli che sono rimasti impressi, più di altri, nella mia memoria di cinefilo sono due. Il primo è quello dell’anziano e ieratico padre Lankester Merrin che, nel paurosissimo L’esorcista (1973) di William Friedkin, viene chiamato a liberare la giovane protagonista Regan dalla possessione diabolica. Il film è da annoverare tra quelli che più hanno tormentato il buio dei miei sonni notturni e la silhouette lugubre del prete esorcista che, sulle note ossessive di Tubular bells, si staglia davanti alla casa dove avrà luogo il rito che porterà alla battaglia ferale con il male, illuminato dalla luce magrittiana di un lampione e avvolto nella gotica foschia invernale di una scena costruita con tutti i crismi del cinema horror dal fotografo e dal regista, è di quelle che proprio non si dimenticano. Confesso che, dopo la prima visione televisiva da adolescente, che mi agghiacciò letteralmente, ho rivisto il film solo nella riedizione per il quarantennale sullo schermo di una multisala fiorentina, e ancora ritrovai il capolavoro di allora (magari meno spaventevole, certo), così come il lampo degli occhi chiari da omone nordico dell’attore, che puntano allo spettatore uno sguardo invece problematico, febbrile e magnetico, scavando dubbi e graffiandone indelebilmente l’animo.

L’altra prova interpretativa che soprattutto ricordo è quella del capitano Ortiz ne Il deserto dei Tartari, riuscito adattamento dell’omonimo romanzo di Dino Buzzati realizzato da Valerio Zurlini nel 1976. Nello spazio sospeso della remota fortezza dove si svolge la vicenda, nella insensata e severa ritualità militaresca che scandisce la quotidianità dell’avamposto, nell’atmosfera di una frontiera desertica e metafisica in perenne minaccia di un’invasione nemica, l’attore sembra aderire magistralmente all’alienazione dell’attesa frustrante. È proprio il capitano impersonato da von Sydow, in servizio ormai da quasi vent’anni, a riconoscere, con compiaciuta schiettezza, l’inutilità dell’isolato baluardo parlando al nuovo arrivato, il giovane ufficiale Giovanni Dogo, protagonista interpretato da Jacques Perrin. Un ruolo secondario in cui si ritrova comunque tutto il carattere peculiare dell’interprete svedese, che sembrava non smarrirsi mai veramente nel personaggio, pur rimanendone lucidamente aggrappato, così da renderlo credibile, convincente, ma anche perfettamente suo. Insomma, la sua personalità e la sua fisicità emanavano certo un forte carisma, sempre sotteso da misurati distacco e ironia, che generavano una grande empatia nello spettatore.

Si potrebbero ancora citare altre partecipazioni – in film importanti come Cadaveri eccellenti (1976) di Francesco Rosi, La morte in diretta (1980) di Bertrand Tavernier, Hannah e le sue sorelle (1986) di Woody Allen, Fino alla fine del mondo (1991) di Wim Wenders –, ma sarebbe arduo dare conto dei tanti titoli ai quali Max von Sydow ha partecipato in una carriera lunga sette decenni, dividendosi tra blockbuster e film d’autore, fino al successo televisivo della serie Il trono di spade, per il quale sarà ricordato anche tra i più giovani, eppure la partita con la morte de Il settimo sigillo, che riassume con incredibile potenza visiva l’imponderabilità del gioco della vita e della fine, resta sicuramente l’immagine più iconica della sua esistenza artistica. Vincerla era certo impossibile, ma almeno lui ci ha provato. E poi, oggi, non può che sembrarci una significativa coincidenza l’abbandono della scacchiera di quello che fu l’audace crociato Antonius Block proprio nei giorni in cui tutto il mondo sta giocando la sua difficile partita con la triste mietitrice, nei panni di un invisibile quanto insidioso coronavirus.

[Fabrizio Violante]

12.3.20