Fabrizio Violante. Spazi perturbanti: Hitchcock a Genova
Ospitata negli ambienti della Loggia degli Abati del Palazzo Ducale genovese, la mostra Alfred Hitchcock nei film della Universal Pictures offre la ghiotta occasione di curiosare nei dietro le quinte di alcuni dei maggiori lavori dell’indimenticato regista britannico.Hitchcock sbarca a Genova, dunque, e come mai il maestro del brivido venga omaggiato proprio nella patria di Colombo, ce lo spiega uno dei primi pannelli informativi del percorso espositivo, ricordando che il primo ciak del primo film di Sir Alfred fu battuto proprio sulle sponde genovesi. È nel porto di Genova, infatti, che nel giugno del 1925 il maestro giunse per girare alcune scene di The Pleasure Garden (Il labirinto delle passioni), spostandosi poi ad Alassio e sul Lago di Como, prima di approdare agli studi cinematografici Emelka di Monaco per le sequenze in interni. Le riprese riguardavano la partenza di una nave dalla vecchia stazione marittima e, come informano le didascalie, il giovane Hitch a Genova aveva preso alloggio al Bristol Palace Hotel, dove ritornerà anche durante le riprese di To Catch a Thief (Caccia al ladro, 1955), il cui scalone ellittico in stile liberty potrebbe aver ispirato il motivo della spirale che ricorre, sin dai titoli di testa, nel capolavoro Vertigo (La donna che visse due volte) del 1958. Accompagnato dai dotti e compiaciuti video-commenti del curatore Gianni Canova, il visitatore può agilmente muoversi tra i materiali scelti dall’archivio della major hollywoodiana Universal Picture con la quale il maestro filmò alcuni dei suoi lavori più noti e celebrati, scoprendo particolari tecnici e curiosità sulla realizzazione delle scene più iconiche, sulle scenografie, gli effetti speciali e sul rapporto tra il regista e i suoi attori feticcio. Ma quello che più colpisce lo sguardo dello spettatore architetto in questa piccola e interessante esposizione (i miei ricordi di appassionato cinéphile vanno inevitabilmente all’esperienza della più ricca e scenografica mostra Hitchcock et l’art. Coïncidences fatales al Beaubourg parigino di qualche anno fa) è la grande attenzione di Hitchcock alla costruzione degli spazi dell’azione cinematografica e alla loro natura inquietante. Gli Uccelli, 1963 Due i film esemplari sopra tutti, Psycho, del 1960, e The Birds (Gli uccelli), del 1963. Nel primo, sin dalla sequenza d’apertura (che segue quella dei titoli di testa, frutto del sempre straordinario talento grafico di Saul Bass) il regista gioca ad ingannare le aspettative dello spettatore: un lento carrello inquadra in campo lungo la città di Phoenix (come avverte la scritta sovraimpressa, che indica anche la data dell’undici dicembre), da destra verso sinistra, fino a stringere sulla sagoma di un edificio qualunque; la macchina da presa zooma piano su una delle finestre, scegliendola apparentemente a caso, per poi attraversarne il confine tra esterno e interno, tra ciò che è concesso alla pubblica visione e quel che invece ne dovrebbe restare celato, violando l’intimità di una camera da letto, dove la (temporanea) protagonista amoreggia con un uomo. Un ambiente casuale, una coppia come tante, a suggerire che quella che sta per essere narrata è una storia qualunque, che potrebbe coinvolgere chiunque. In realtà, come si scoprirà più avanti, la storia che segnerà il film non avrà l’ambientazione urbana di questa prima scena, né tantomeno la donna in sottoveste e reggiseno che riempie della sua avvenenza la stanza inquadrata sarà protagonista dell’intera pellicola, ma uscirà di scena dopo venti minuti, trovando la propria fine sotto la doccia di una delle stanze di un fatale motel. Già solo da questi primi elementi non meraviglia che Hitchcock fosse così entusiasta della sfida di portare sul grande schermo il romanzo di Robert Bloch, scritto nel 1959 ispirandosi alle vicende reali del serial killer Ed Gein, nonostante il parere contrario della casa di produzione, che prima cercò di dissuaderlo e poi lo costrinse a ridurre drasticamente il budget e a utilizzare set e troupe della serie televisiva Alfred Hitchcock Presents. La scena dell’inattesa uccisione della bionda Janet Leigh è una delle più inquietanti della storia del cinema, la più citata e sicuramente la più ricordata dell’intero corpus filmico del maestro del brivido. Quarantacinque secondi di puro cinema, di incommensurabile talento visivo, di maestria tecnica e di incredibile potenza emotiva montati freneticamente e sottolineati dalle note stridenti di Bernard Herrmann, che derivano da un lavoro di riprese durato una settimana e composto da ben settanta inquadrature. Secondo una sua dichiarazione dell’epoca, riportata in mostra, Hitchcock sarebbe stato convinto a realizzare il film proprio dal «modo improvviso con cui si commette l’omicidio sotto la doccia, è del tutto imprevisto ed è questo che mi ha interessato. Farà veramente impazzire il pubblico». Hitchcock in un video promozionale per Psycho Oltre alla scena della doccia, il film presenta un altro elemento distintivo del talento visionario del regista: la casa di Norman Bates, l’omicida incarnato da Anthony Perkins, attore che ricoprirà lo stesso ruolo in tre sequel, dirigendone anche uno. Architettura apparentemente innocua eppure quanto mai sinistra, la Bates mansion, inquadrata dal basso in una prospettiva sghemba e deformante, si palesa allo spettatore come un dispositivo panottico alla sommità di una collinetta incombente sull’anonima orizzontalità dell’edificio del motel. Dalle finestre della casa, una figura oscura scruta e sorveglia la vita (e la morte) che scorre ignara nelle camere dell’albergo. La casa sembra essa stessa esercitare uno sguardo indagatore e minaccioso, e le sue finestre sono occhi spalancati, incarnando fisicamente l’ossessionante presenza materna nella mente deviata del killer seriale protagonista. Nella realtà del set, la casa fu costruita solo nelle due facciate inquadrate nel film, mischiando elementi architettonici di derivazioni diverse, esemplari di un linguaggio vagamente vittoriano, con superfici lignee dall’aspetto trasandato e perciò oscuro; una costruzione spaesante, insomma, e fuori luogo rispetto al motel annesso, composto da una fila indeterminata di camere tutte uguali, affacciate su una distesa piatta e polverosa. Pochi elementi, ai quali con forza si impone anche il richiamo al dipinto di Edward Hopper intitolato House by the Railroad, a creare un’atmosfera di inquietante sospensione, di presenza fuori dal tempo, di precipizio nello spazio del familiare perturbante. Un edificio dalla riconoscibilità straniante che si impone come icona filmica della paura, che, insieme all’Overlook Hotel dello Shining kubrickiano, costituisce certamente il ritratto più fedele dello spazio ansiogeno che il cinema abbia mai saputo rappresentare. L’altro lavoro esemplare, The Birds, è probabilmente quello più ambizioso e sperimentale di Hitchcock, un film dalla complessa realizzazione tecnica, dove trucchi ed effetti speciali caratterizzano quasi un terzo delle inquadrature totali, con uccelli meccanici o realizzati per mezzo di disegni animati, oltre alle decine di volatili di diverse specie addomesticati da Ray Berwick, che non mancarono di assalire e ferire realmente gli attori. Qui, la minaccia non è celata dalle mura dello spazio domestico, ma essa al contrario si manifesta al suo esterno, sotto forma di un inspiegabile attacco degli uccelli contro la specie umana. Se negli anni cinquanta la paranoia disumanizzante dell’invasione comunista aveva preso forma cinematografica nel fantascientifico Invasion of the body snatchers (L’invasione degli ultracorpi), girato con budget ridottissimo da Donald Siegel nel 1956 e diventato nel tempo vero oggetto di culto, nel 1963 per Hitch il clima ansiogeno dovuto al pericolo di una catastrofe nucleare si trasforma invece nella ribellione del mondo naturale alla presenza invadente della specie umana. In realtà il regista non concede spiegazioni allo spettatore, né chiude il film con un finale risolutivo, ma guardando The Birds, appare più che lecito il richiamo alla fantascienza paranoica della produzione hollywoodiana nel pieno clima della guerra fredda e soprattutto alla pellicola di Siegel. Si potrebbero addirittura spingere ancora oltre le analogie, considerando gli uccelli hitchcokiani una diversa incarnazione dei celebri baccelloni alieni del 1956, come se gli ultracorpi extraterrestri avessero scelto stavolta di invaderci non possedendo i nostri simili, ma scatenandoci contro le specie volatili. Invasion of the body snatchers è tuttavia quasi privo di effetti speciali o di clamorose scene madri, ma, come nel caso di The Birds, riesce perfettamente a comunicare allo spettatore un senso di disagio e di pericolo incombente, grazie a un fine lavoro di regia e all’abile meccanismo narrativo. I due film hanno in comune anche l’ambientazione nella sonnolenta provincia californiana, nella cittadina di Santa Mira il primo, nel porto turistico di Bodega Bay il secondo, la cui solare tranquillità comincia presto ad adombrarsi nella iniziale incredulità degli abitanti. La scelta del piccolo villaggio affacciato sul Pacifico come location per quello che di fatto è un film horror, così come lo definisce il maestro del genere John Carpenter in un video trasmesso in loop all’interno della mostra genovese, è in linea con l’intenzione di trasferire il terrore dalle irreali scenografie gotiche del cinema pauroso classico alla scena naturale del sogno americano, quella dei paesaggi extraurbani considerati immuni dalla corruzione metropolitana del genere noir degli anni d’oro di Hollywood e del poliziesco violento, che scuoterà il cinema mainstream dalla fine degli anni sessanta. Il maestro sfrutta magistralmente il potenziale dissonante della scelta scenografica, dando vita a sequenze di grande efficacia dove la serenità del villaggio viene incrinata dalla violenza degli uccelli e ognuno dei luoghi canonici della securizzazione sociale – la chiesa, la scuola, l’ambiente domestico – si trasforma in spazio claustrofobico e sotto assedio. A concretizzare l’idea del confinamento ansiogeno, il regista fa ampio ricorso ad inquadrature zenitali, per amplificare la sensazione degli edifici come scatole opprimenti, o ad obiettivi grandangolari, come nel caso della scena in cui la protagonista rimane intrappolata in una cabina telefonica, trasformandola in un cubicolo sotto attacco ornitologico. La suggestione dell’ingabbiamento monta per tutto il film, ogni luogo è percepito come potenziale campo dell’invasione animale e le reazioni sconnesse degli abitanti dimostrano la fragilità dell’ordine sociale che regnava nel villaggio. Anche la scelta di non utilizzare una colonna musicale extradiegetica e di affidare la partitura sonora all’accorta rielaborazione elettronica dei suoni ambientali, dei versi degli animali, dello sbattere delle ali, dei colpi di becco ai vetri delle finestre e delle vetture, non fa che calcare la mano sulla costruzione di un paesaggio cinematografico irrazionale e spaventoso, nel quale lo spettatore finisce con lo sprofondare con inaspettata immedesimazione. Attraverso i materiali che la mostra mette a disposizione, insomma, il visitatore può calarsi nei segreti di un cinema intramontabile, nella creatività di un regista in grado di incidere sull’immaginario novecentesco come pochi altri maestri hanno saputo fare. 14.2.20 |