Luigi Manzione. Sigmar Polke o dell’errore fotografico

Sviando dalle strade principali, ci si imbatte a volte in scoperte inaspettate. Così a Parigi, a pochi passi dalla costante animazione di place Clichy, entrando in un’impasse silenziosa si trova “Le Bal”, piattaforma indipendente di esposizione, edizione e riflessione dedicata all’immagine contemporanea, creata da Raymond Depardon e Diane Dufour, dove è in corso (fino al 22 dicembre) la mostra “Les infamies photographiques de Sigmar Polke”. Tra i più influenti artisti europei (pittura, fotografia, installazioni), fondatore nel 1963 (con Gerhard Richter e Konrad Fischer-Lueg) del “realismo capitalista”, Polke (1941-2010) dà vita ad un’arte sperimentale critica verso la società e la politica. Un’opera che può definirsi, citando Bernard Marcadé (tra i curatori della mostra), “un campo di battaglia dove si affrontano materie e soggetti pericolosi”, ben rappresentato da questa esposizione di trecento fotografie inedite del periodo 1970-1996, ritrovate dal figlio Georg.

Come da tradizione, Polke utilizza dapprima la fotografia come supporto per la pittura, poi la esplora come modalità autonoma di espressione, contaminandola non solo con la pittura, ma con tutti i media e gli strumenti disponibili. Da qui un dialogo ininterrotto tra pittura come fotografia e fotografia come pittura, che attraversa tutta la sua opera. Un’opera che fa corpo con il mondo, un organismo vivo che lui stesso definisce, senza mezzi termini, “ignominia”. Riportandoci a Jorge Luis Borges, le infamie esibite nella mostra parigina confermano la sua “cattiva reputazione”, anche nel legame indissolubile tra arte e vita privata. Polke rende infatti corrosive immagini ordinarie (foto di famiglia, autoritratti, foto ricordo e di viaggio). Corrosive nel duplice senso del termine: da un lato rispetto ai luoghi comuni e alle convenzioni; dall’altro per la costante inclinazione verso l’errore, provocato con l’impiego di agenti (chimici in primo luogo) che generano incidenti materici, alterazioni del supporto. In queste elaborazioni fotografiche, Polke si affida appunto a mezzi altrimenti considerati “ignominiosi”, per assorbirvi una intenzione artistica e, insieme, per espellervi qualsiasi concetto consolidato di arte.

Un’opera maltrattata, insomma, il cui stato avanzato di distruzione emana energia e forza (1), nella quale tutto diventa lecito: sovra o sottoesposizione; chimici esausti o impropri; acidi pericolosi; pigmenti tossici (come il verde di Schweinfurt); negativi, carte o supporti inappropriati (o ritenuti tali). In queste immagini non esiste demarcazione tra bianconero e colore: il primo può essere colorato, il secondo aspirare alla monocromia. L’errore – consapevolmente perseguito – può tradursi in allucinazione; la sperimentazione accogliere l’aleatorio. L’irripetibilità può farsi scopo di una intera pratica artistica ordinariamente votata alla infinita riproducibilità. Non a caso, ogni fotografia di Polke è un originale, frutto del caso e dell’imprevisto. È un unicum in cui “la chimica è una chiave” (secondo Harald Szeeman) in mano ad un provocatore accanito di incidenti, ad un recidivo dell’errore qual è Polke. Come tale, egli appare l’artigiano-alchimista di una camera oscura in cui si confondono e si mescolano, senza ragionevole criterio, sostanze rivelatrici e fissanti, colori e ossidi, veleni di specie diverse. Come fotografo, Polke assume per intero lo status dell’amatore, del dilettante, contravvenendo tuttavia – in quanto artista “di professione” – a tutte le regole che disciplinano il dilettantismo. Se il dilettante si attiene, infatti, all’uso conforme del mezzo (e del linguaggio) fotografico, Polke si dedica senza risparmio al suo abuso ininterrotto e totale. Metodo, ordine, rigore del fotografo “ordinario” sono sistematicamente destabilizzati, con un approccio anarchico in cui sfumano – insieme ai pregiudizi – tutte le differenze tra fotografia, pittura, disegno.

Il linguaggio di Polke è onnivoro. Accoglie senza distinzioni la sperimentazione post-Bauhaus, l’esplorazione documentaria di Walker Evans, la controcultura nelle sue forme più disparate (da Fluxus al trash), assorbendo tutto per minare e contaminare la tradizione con un atteggiamento libertario e dissacratorio. E tutto ciò Polke lo fa in nome dell’errore come pratica intesa in senso conoscitivo (a cui si riferisce implicitamente anche la sua citazione posta in esergo al presente scritto). Pratica, o insieme di pratiche, di cui tratta Clément Chéroux in Fautographie (2), una “piccola storia dell’errore fotografico” dove Polke figura a fianco a Lee Friedlander, Bernard Plossu e altri, accomunati in senso lato dalla citazione/incitazione di Diane Arbus in apertura del libro: “È importante fare cattive fotografie”. Importante perché l’errore fa sempre avanzare o, come dice Polke, permette di svilupparsi “non solo verso l’alto ma anche verso il basso”. Non a caso, la metafora della conoscenza come misto di luce e di ombra – pensiamo a Gaston Bachelard – sembra adattarsi perfettamente alla fotografia.(3)

Se assumiamo quindi l’errore come strumento conoscitivo, l’opera di Polke, in particolare questa in mostra a Parigi, si può leggere sotto una luce diversa da quella a cui ci hanno abituato i critici e i manualisti della fotografia, in seguito al proliferare del dilettantismo dalla fine dell’Ottocento. In questo senso, Polke pratica una sistematica eversione di qualsiasi vademecum ad uso del fotoamatore. Sistematica proprio in quanto si assume in pieno – diversamente da Gerhard Richter, con cui condivide parte del suo percorso artistico – il compito di “sbagliare” nei tre punti chiave della fotografia: l’autore, il soggetto, la tecnica. L’errore in Polke consiste essenzialmente in una puntuale trasgressione di tutto ciò che è normato e codificato.

Da artista, egli decide cosa sia o meno una “buona” fotografia: la riuscita o l’errore sono infatti connessi all’idea che un autore si forma di una “buona” fotografia (4). Il tempo e il contesto sono i fattori fondamentali per decretarne il successo o il fallimento. Ma è soprattutto il tempo a far sì che quanto prima era generalmente considerato un errore diventi qualcosa di legittimo: incidenti come il mosso, lo sfocato, l’inquadratura-ghigliottina, la deformazione, la bruciatura vengono così relativizzati, poi pienamente accettati e perseguiti quale materia prima della fotografia di massa nell’epoca del virtuale (da Lomography a Instagram). Se possiamo apprezzare queste trecento immagini di Polke, lo dobbiamo allora a due ragioni strettamente legate: il suo statuto di artista (malgrado l’anarchismo che lo ha ispirato) e la diversa percezione che abbiamo oggi dell’errore fotografico. Ovviamente ciò non vale solo per l’artista tedesco, ma appare particolarmente calzante in rapporto alle sue fotografie esposte a Parigi. Anche in queste infatti, “l’errore permette di comprendere meglio l’insieme degli elementi costitutivi della fotografia” (5) sopra citati. D’altra parte, se consideriamo l’approccio lomografico lato sensu ed il suo recupero sistematico dell’errore, la fotografia “sbagliata” assume con evidenza la funzione di strumento per misurare e valutare la fotografia in generale. Strumento da cui quest’ultima non può più prescindere.

Non si tratta dunque solo di legittimazione. È la fotografia tout court ad essere rimessa in questione dai/nei suoi stessi fallimenti (o, per riprendere il lessico della mostra, nelle sue “infamie”), come possiamo verificare in modo esemplare nell’opera di Sigmar Polke, in cui si ripresenta in altre forme ciò che avviene dall’inizio del Novecento, ad esempio con l’”auto-ombromania”, ossia la presenza, accettata e poi ricercata, dell’ombra portata del fotografo nell’inquadratura (da Atget a Friedlander, passando per Moholy-Nagy e Kertész). Nelle immagini di Polke non si proietta però un’ombra reale; piuttosto quella simbolica concretizzata da macchie, corrosioni, decolorazioni, scalfiture, lacerazioni. Oltre la riabilitazione dell’ombra, su cui riflette anche Victor Stoichita, nel lavoro di Polke ritroviamo tutti gli incidenti stigmatizzati nei manuali di tecnica e di composizione. Per lui, ad esempio, il tempo di posa appare meno dipendente dalla sensibilità della pellicola che dalla propria sensibilità al momento dello scatto; la permanenza nel rivelatore non si piega a regole precise, rispondendo solo all’effetto voluto, alla intenzione artistica.

Polke non si limita tuttavia a proseguire le sperimentazioni dell’avanguardia (da Man Ray a Ugo Mulas), che pure si proponevano di mettere la fotografia sottosopra (“au rebours”), sfruttando insieme l’ottica, la chimica e la fisica. I suoi non sono fotogrammi creati in maniera diretta, ma comuni fotografie colte dalla vita quotidiana, sottomesse ad una radicale decostruzione nel buio della camera oscura. Sottoposte cioè ad un sistematico mal-trattamento nel contesto di una strategia complessiva di produzione dell’immagine, basata sulla trasgressione delle regole e dei principi consolidati. In questo senso, ancora nel solco del “realismo capitalista”, Polke sembra avvicinarsi a Moholy-Nagy quando quest’ultimo individua nel convenzionale, negli stereotipi, nei modi d’uso, i principali nemici della fotografia (6). E, come per Moholy-Nagy, anche per Polke l’errore ha ragion d’essere proprio nella sua fecondità, nella capacità di disvelare un mondo solo in apparenza ordinario.

In linea con le avanguardie che intendono ricondurre la fotografia alle sue qualità costitutive, sottraendola alla contiguità – servile o meno – rispetto alla pittura, Polke assume quanto la fotografia possiede di intrinsecamente proprio, fino a verificarne la tenuta con manipolazioni al limite della visibilità, se non della distruzione stessa del visibile. Di fronte alle immagini esposte non ci si può non domandare se, pur avendola esplorata da artista in perfetta autonomia dalla sua pittura, anche lui pensasse, come Man Ray, che “la fotografia non è arte” (7). Se la fotografia è almeno una specie di erranza, nella duplice accezione di viaggio e di errore – praticata in modi diversi sulla strada da autori come Robert Frank o Raymond Depardon – quella di Polke resta un’erranza tutta circoscritta all’interno dei bordi della singola immagine. Impressa, incorporata, incrostata sulla sua superficie materiale, nel tempo breve e nello spazio limitato della sua camera oscura. Nella camera oscura di un dilettante quale Polke non ha mai smesso di essere, pur forzando all’estremo i limiti (reali e simbolici) della fotografia.

[Luigi Manzione]

13.12.19

Note bibliografiche

(1) V. Annabelle Martella, “Sigmar Polke. Empreintes toxiques”, Libération (10/11/2019).(2) C. Chéroux, Fautographie. Petite histoire de l’erreur photographique, Crisnée, Yellow Now, 2003 (trad. it. L’errore fotografico. Una breve storia, Torino, Einaudi, 2009).
(3) Ma in generale all’arte e alla sua stessa origine, come ha magistralmente mostrato Victor I. Stoichita in Breve storia dell’ombra. Dalle origini della pittura alla Pop Art (Milano, Il Saggiatore, 2015).
(4) Serge Tisseron, Le mystère de la chambre claire. Photographie et incoscient, Parigi, Flammarion, 1999.
(5) C. Chéroux, Fautographie, cit., p. 62 (traduzione mia).
(6) L. Moholy-Nagy, Vision in Motion, Chicago, Theobald, 1947.
(7) M. Ray, La photographie n’est pas l’art, Parigi, GLM, 1937.