Vignetta di Fabio Sironi pubblicata su La Rivista dei Libri, aprile 1994
Il panorama architettonico italiano del secondo dopoguerra è dominato da una serie di tentativi di ridefinizione dell’architettura e del suo racconto storico alla luce della crisi del moderno. «Una difficile dialettica fra il conoscere e l’agire si impone, all’indomani della Liberazione, agli architetti impegnati a dare risposte alla nuova realtà italiana»1scrive Manfredo Tafuri nel primo capitolo dedicato agli anni della ricostruzione nella sua Storia dell’architettura italiana.
Il problema di confrontarsi con il recente passato aveva determinato un ripensamento nel modo di guardare all’architettura e all’insegnamento dei maestri degli anni Venti e Trenta del Novecento. Per le generazioni cresciute durante il fascismo e in lotta con il regime, le istanze morali dell’architettura rappresentavano il portato di una lezione in cui la storia era intesa come strumento di pensiero e di azione, secondo gli insegnamenti di Benedetto Croce, il cui incontro con la politica e con la pratica professionale appariva una necessità di fronte alla messa in crisi degli ideali progressisti del razionalismo architettonico.
Uno dei protagonisti di questo periodo è senza dubbio Bruno Zevi che, sin da giovanissimo, si impone nel dibattito architettonico avviando una revisione della costruzione storiografica del moderno, contestando e ampliando le letture critiche “ufficiali” di Sigfried Giedion e Nikolaus Pevsner.
Il tentativo portato avanti da Zevi era duplice: da un lato prevedeva un’azione sul terreno pratico, veicolando la produzione architettonica attraverso gli strumenti della critica militante e dell’azione culturale, dall’altro promuoveva, sul terreno della didattica, un impegno teorico volto a rileggere la storia alla luce delle nuove problematiche ed esigenze. Zevi, come noto, si fa portavoce delle idee di Frank Lloyd Wright, ma contemporaneamente cerca di estendere il dominio dell’architettura “organica” «di là dall’apporto culturale di Wright»2. L’organico di Zevi rappresenta essenzialmente «uno sforzo di liberazione della rigidità teorica dei clichés [del funzionalismo] e di umanizzazione»3dell’architettura4.
Inoltre, sulla scorta della sua esperienza personale, maturata presso la scuola di architettura della Harvard University, dove era entrato a contatto con l’insegnamento di Walter Gropius, Zevi si era convinto che i maestri del moderno, e i loro biografi, avessero tralasciato l’importanza dei valori della storia. Non a caso era solito ricordare che, all’interno del Bauhaus, Gropius aveva abolito l’insegnamento della storia dell’architettura, ritenendone il metodo didattico in contrasto con i valori e le ricerche del moderno5.
É in questa cornice, nel promuovere un approccio post-razionalista ed organico, capace di andare oltre gli stilemi e gli archetipi modernisti, che Zevi cerca di riempire quello che percepiva come un “vuoto” nella formazione dell’architetto moderno. Libri comeVerso un’architettura organica (1945), Saper vedere l’architettura(1948), Storia dell’architettura moderna(1950), Architettura e storiografia (1950), La poetica dell’architettura neoplastica(1953), si impongono alla ribalta della storiografia architettonica e aprono la strada ad una nuova disciplina storica denominata critica operativa,6ovvero la storia come metodologia operativa del fare architettonico.7
Negli anni Sessanta la critica operativa diviene oggetto degli interessi e dell’analisi della nuova generazione di storici dell’architettura, rappresentata da Paolo Portoghesi e Manfredo Tafuri. Dopo aver mosso i primi passi all’interno della facoltà di architettura di Roma, rispettivamente sotto le ali protettrici di Guglielmo De Angelis D’Ossat e Ludovico Quaroni, i due giovani studiosi si avviano a una brillante carriera universitaria, stabilendo con Zevi una relazione contrastata. Se Portoghesi rimane affascinato dal metodo di lettura critica di Zevi, venendo iniziato all’esperienza dei “plastici critici”8e alla ricerca sul Michelangiolo Architetto9(1964), Tafuri non trova veri stimoli nella storiografia operativa, divenendone successivamente un perspicace critico.
Metodi e approcci storiografici nuovi fanno da contraltare al bisogno di architettura sviluppatosi dopo la crisi degli ideali modernisti: era diventato chiaro che la cosiddetta architettura moderna non era stata quel movimento compatto che gli storici come Giedion e Pevsner volevano far credere; piuttosto essa rischiava di apparire un cimitero di lapidi illustri, nonostante i tentativi di Zevi di recuperarne i valori morali e la vitalità creativa, evidenziando il ruolo di maestri dimenticati come Asplund, Neutra, Mendelsohn, Terragni10. Sebbene gli interessi non fossero allineati, Zevi intuisce le qualità di Tafuri e agevola la sua carriera universitaria pubblicando alcuni scritti su L’architettura, cronache e storia11e recensendo puntualmente su L’Espresso12i suoi primi studi, con l’effetto di moltiplicare l’interesse generale nei confronti del giovane storico. Tuttavia le strade battute da Zevi, Portoghesi e Tafuri finiscono per andare in direzioni molto diverse.
Sul finire degli anni Sessanta, con una certa generosità ed astuzia, Zevi cerca di sollecitare un’azione comune, rimasta inascoltata da parte di Tafuri: «Subito dopo il concorso, scrissi a te e a Portoghesi una lunga lettera proponendo un accordo attraverso il quale le nostre attività, pur rimanendo distinte, avrebbero potuto valorizzarsi a vicenda. Non ti sei degnato neppure di rispondere».13 Si tratta di un episodio da cui scaturisce una successiva serie di accuse, incomprensioni e di prese di distanza reciproca. Con il 1968 si apre per Tafuri un anno di conferme e di svolte. Dopo una parentesi di insegnamento a Palermo, viene chiamato definitivamente a Venezia, come professore di storia dell’architettura presso l’IUAV, e pubblica Teorie e storia dell’architettura, uno dei suoi fondamentali contributi agli studi architettonici.
InTeorie e StoriaTafuri affronta un riesame critico dell’architettura moderna alla luce di un discorso storico di ampio respiro, e allo stesso tempo si scontra con la critica operativa, a cui dedica la parte centrale del libro. Secondo Tafuri la critica operativa scaturisce da «analisi storiche programmaticamente finalizzate e deformate»14, un atteggiamento storiografico già riscontrabile da Giovanni Pietro Bellori in poi. In altre parole la critica operativa viene definita essenzialmente come un lavoro di “progettazione” poiché essa, in maniera simile alla critica illuminista, non può far altro che «[…] proiettare nel futuro i risultati di un colossale lavoro di razionalizzazione, di dissacrazione, di verifica sistematica […]»15 Nell’analisi condotta da Tafuri i riferimenti a Zevi e alla sua produzione storiografica sono numerosissimi e non privi di giudizi taglienti. Si parla di «ambiguità accettate di buon grado» e di «una storia scritta con il pugnale»16, fatta di vincitori e vinti, ovvero di figure storiche partecipi dei momenti storici rivoluzionari in qualità di protagonisti-eroi e/o antagonisti.
Nell’evidenziare come l’approccio operativo sia orientato a sollecitare la necessità di una partecipazione coraggiosa e impegnata di fronte alle inquietudini del presente, Tafuri coglie il senso dello sforzo di Zevi, definendolo, assieme a Sartre e Vittorini, uno dei «più validi assertori, in Europa, di un rilancio ideologico rivolto a colmare il salto fra impegno civile e azione culturale»17 Ma da qui, secondo Tafuri deriverebbe anche l’impossibilità, da parte della critica operativa, di rileggere correttamente gli eventi storici, sostituendo al rigore analitico giudizi di valore precostruiti e che trovano ragione solo nella dimensione specifica dell’azione: «la critica operativa è quindi una critica ideologica»18condannata a «un processo critico ininterrotto»19nel quale i miti prevaricano le strutture e i significati dell’architettura.
Zevi risponde in maniera circostanziata e polemica nell’editoriale Miti e rassegnazione storica, evidenziando voluttà di crisi e indulgenza rassegnata nell’analisi tafuriana: «senza incisività operativa, senza una direttiva storica capace di alimentare, si cammina o ci si agita nel buio […] buttandosi sempre più a sinistra con la segreta angoscia di poter essere scavalcati, quando buttarsi a sinistra significa imbrattare tutto e tutti, “demitizzare” e “umanizzare” negare ogni evento positivo, crogiolarsi nell’asserzione che tutto va male, è sporco e va sfasciato. Forse, così comportandosi, ci si sente à la page con i moti autodistruttivi dei nostri tempi»20. Un confronto che si acutizza nel successivo editoriale Come demitizzare la demitizzazionein cui Zevi tuona contro il «vezzo/vizio […] filologistico» e contro l’ «obiettivo [di] portare tutto e tutti a livello zero o, come si dice nei salotti, cacca»21in cui uno dei riferimenti non esplicitati è da individuarsi negli studi di Mario Manieri Elia sull’architettura americana dell’Ottocento22oltre che in quelli dello stesso Tafuri.
Dopo aver sviscerato «il meccanismo della demitizzazione» Zevi finisce per consigliare ai suoi colleghi di non utilizzare «le parole “demitizzazione” e “demistificazione” […] per non apparire studenti ritardati»23. Si tratta di parole polemiche che si prolungano dagli scritti alla corrispondenza tra i due storici. L’archivio della Fondazione Zevi conserva alcune lettere che ricostruiscono le intime ragioni di unaquerellecritica che raggiunge l’insulto personale. Con la pubblicazione del saggio di Tafuri Design and Technological Utopia, contenuto nel catalogo della mostra Italy: The New Domestic Landscape24,curata da Emilio Ambasz presso il MOMA di New York, Zevi si sente attaccato in prima persona per un acido commento di Tafuri, inserito in una nota del testo.
Tafuri replica ad un biglietto25speditogli da Zevi: «Caro Zevi, dal biglietto che mi hai inviato, constato che una banale nota riesce a farti uscire dai gangheri […] Vorrei solo che ti domandassi se è civile –il termine è tuo- rispondere con il volgare attacco personale di “Miti e rassegnazione storica” all’articolato ragionamento da me tentato in “Teorie e storia”»26ed aggiunge «É ben vero: quel “with his usual superficiality” mi è sfuggito dalla penna […] ma la sostanza sarebbe rimasta, è una frase scritta con grande amarezza»27. Tafuri dichiara nella stessa lettera di nutrire un profondo affetto personale nei confronti di Zevi e cerca di giustificare l’uso del termine “superficialità”: «penso che una volta scelta la “superficialità” come un’arma polemica, dovresti accettare le conseguenze di tale scelta. Sono sicuro infatti che tu stesso sei convinto –e giustamente- di passare alla storia per “quella” superficialità (intendo dire, per una superficialità ben ricca di intelligenza e, spesso, perfino di generosità) e non per meriti nel campo della ricerca scientifica»28. Zevi reagisce con la sua solita verve: «[…] ho sbagliato considerandoti una persona seria»29e ricorda la lettera in cui aveva proposto un accordo comune30e le relative conseguenze del non aver preso in considerazione l’offerta: «A distanza di qualche anno, possiamo fare un amaro bilancio: ognuno di noi ha commesso errori che la presenza e l’amicizia attiva degli altri avrebbero potuto evitare»31.
Ma il punto sostanziale della lettera di Zevi rimane la questione della “superficialità” e della “scientificità”:
Anzitutto: non cercare di indorare la pillola parlando di una “superficialità ‘ben ricca di intelligenza e, spesso, perfino di generosità’”, forse destinata a “passare alla storia”. Queste specificazioni non c’erano in quella lurida nota del tuo articolo. Non diventare anche ipocrita. In secondo luogo, fino a quando credi che possa avere efficacia quella maschera di teutonica scientificità dietro la quale nascondi la mancanza di idee, di sensibilità per l’architettura e di gioia umana? Sei veramente convinto che bastino quattro citazioni tedesche e un atteggiamento di filologica superiorità per darla a bere? […] Ti chiamano Barone von Tafuri. Forse ne sarai orgoglioso. Me ne dispiace, per te. Non è serio […] occorre che tu ti liberi dal complesso del padre, e dal personaggio del “rivoluzionario” e dello “scienziato” di maniera32.
Una questione rimasta in sospeso per ventidue anni, fino alla morte di Tafuri nel 1994, quando Zevi gli rivolge l’ultimo saluto dalle pagine de L’architettura33.
Concludendo un dialogo, ormai impossibile, Zevi pubblica infatti un estratto dell’intervista che Tafuri aveva rilasciato alla Rivista dei libri, poco prima di morire34. Si tratta di un testo in cui Tafuri riconosce, senza troppe riserve, l’imponente valore storiografico delle ricerche di Zevi.
Il commento di Zevi è tagliente come al solito, ma si dichiara toccato dai passaggi che lo riguardano direttamente: un «giudizio estremamente generoso che, seppur tardivo, ci commuove»35. Inoltre aggiunge un riferimento a quello scambio epistolare avvenuto ventidue anni prima, intendendo persistere nelle proprie convinzioni, per tener vivo il ricordo del collega: «Necessitando di una maschera [Tafuri] ha scelto quella stereotipa dei filologi tedeschi, che conoscono sempre un documento ignorato dagli altri “superficiali” […] Tafuri ricorda le molte ed aspre polemiche che ci hanno diviso. Intendiamo insistere, perché non muoia»36
Di fronte alla crisi del moderno, e ai suoi sviluppi, i due storici hanno dimostrato la possibilità per gli architetti di reagire svelando, disilludendo ed entusiasmando: il racconto storico non è poi solo una successione di miti e neppure di avvenimenti da demistificare.
[Luca Guido]
20.6.18
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