Emanuele Piccardo. Lucio Fontana: quando la riproduzione si fa opera
Lucio Fontana, Struttura al neon per la Triennale del 1951, Hangar Bicocca 2017 Environment in inglese significa ambiente ma in ambito artistico é considerato uno spazio tridimensionale, fisico, che accoglie una azione che a sua volta prende il nome di happening. L’happening si svolge attraverso un programma di azioni “progettate” dall’artista ed é erede del teatro delle avanguardie dada, futurismo e del teatro totale di Walter Gropius. Non si può quindi affermare che Lucio Fontana o Allan Kaprow siano stati gli inventori dell’environment. Entrambi hanno realizzato ambienti diversi, nel senso di divergenti, con approcci e modalità che mirano a riconfigurare uno spazio esistente attraverso i loro linguaggi. Lucio Fontana Ambienti/Environments é il titolo della mostra in corso all’Hangar Bicocca, a cura di Marina Pugliese, Barbara Ferriani e Vicente Todolì, laddove si producevano le locomotive Breda. Lo spazio industriale completamente buio viene illuminato dai box all’interno dei quali sono stati ricostruiti gli ambienti realizzati da Fontana dal 1949 al 1968, per gallerie e musei. Il visitatore viene subito abbagliato dal sinuoso quanto caotico intreccio di neon bianchi che riproducono in scala 1:1 la Struttura al neon per la IX Triennale di Milano del 1951, collocata originariamente nello scalone d’onore. Qui riprodotto accanto ad un pilastro di acciaio che ne accentua la potenza espressiva. Una percezione molto diversa dalla riproduzione, dalle dimensioni ridotte, installata al Museo del Novecento da Italo Rota all’epoca diretto proprio dalla Pugliese. Se analizziamo con attenzione le riproduzioni degli ambienti non possiamo non notare come Fontana usi la tecnologia del neon e delle lampade fluorescenti per cambiare la percezione dello spazio di una galleria che spesso coincide con una stanza. E’ il caso dell’Ambiente spaziale e luce nera (1948-1949) alla Galleria al Naviglio di Milano durato dal 5 all’11 febbraio 1949.
Questo concetto di “ambiente” non trova corrispondenze teoriche con gli “ambienti” che l’artista americano Allan Kaprow realizza a New York nel 1958, alla Reuben Gallery (18 Happenings in six parts). Eppure in una recente intervista a Lucia Tozzi, Marina Pugliese dichiara: “Quando ho studiato tutte le bozze del libro di Kaprow(Assemblages, Environments and Happenings) al Getty, per vedere se ci fosse qualche cenno poi rimosso, ho trovato una frase che probabilmente è una frecciata diretta a lui (Fontana), che suonava pressappoco così: «Uno può anche fare un taglio o un buco, appenderlo a una parete e illudersi che quello sia uno sfondamento della terza dimensione, ma lo spazio reale è un’altra cosa». Una vera e propria omissione dell’Ambiente a luce nera del ‘49”. La questione non riguarda chi abbia fatto prima un environment ma se quelli fatti da Fontana possano essere considerati tali se confrontati con quelli che si sono sviluppati negli anni seguenti, in particolare rispetto a Kaprow. L’artista americano, nato ad Atlantic City in New Jersey nel 1927, si forma come pittore e teorico dell’happening a partire dal 1958 quando mette in scena alla Reuben Gallery di New York 18 Happenings in Six Parts. Mentre Fontana nasce a Rosario in Argentina nel 1899 si forma come scultore e pittore, ma appartiene ad una generazione diversa che aveva nella pittura e nella scultura il fine delle proprie ricerche. Indubbiamente i tagli della tela operati da Fontana rompono lo spazio bidimensionale del quadro ed entrano nella terza dimensione ma visto dalla prospettiva di Kaprow, la vera rottura dello spazio é il passaggio dal quadro all’environment, concepito come uno spazio tridimensionale, una sorta di stanza al cui interno i performer generano l’happening seguendo un programma scritto prestabilito, con lo scopo del disorientare e spaesare il pubblico. Dunque l’ambiente viene decostruito attraverso il rapporto tra spazio-performer-spettatore. Lucio Fontana, Ambiente spaziale con neon, Stedelijk Museum Amsterdam, 1967 In Fontana si assiste ad un rapporto tra spazio e spettatore, é lo spettatore che si muove nello spazio e lo percepisce in maniera differente a seconda della luce fluorescente o neon. Mentre in Kaprow abbiamo una complessità concettuale che coinvolge più soggetti in uno spazio con una dimensione collettiva tipica del periodo, in Fontana si ha una dimensione più intima e rarefatta. Quello che stupisce in Fontana é la semplicità degli elementi necessari a fare lo spazio: quattro muri, una vernice fluorescente e lo spazio cambia percezione e uso;una modalità da cui gli architetti dovrebbero imparare nel progetto degli interni. Allo stesso modo la luce artificiale prodotta dai neon determina un abbagliamento che lo rende piu vicino a Doug Wheeler piuttosto che al concetto di environment espresso e praticato da Kaprow. Tuttavia rimangono alcune perplessità sul display scelto dai curatori e sulla necessità di riprodurre le opere di un artista seguendo le sue istruzioni, fuori dal contesto originario. Non é una questione che riguarda solo questa mostra, bensì altre situazioni dove si ricostruiscono gli ambienti: dagli igloo di Merz fino ai lavori di Gianni Colombo o le pareti disegnate al tratto da Sol Lewitt. Questo avviene quando gli artisti non sono più viventi e il curatore si sostituisce all’artista nell’installare la riproduzione nello spazio. Lucio Fontana, Fonti di energia, soffitto al neon per “Italia 61” a Torino Allora forse sarebbe più onesto intellettualmente dichiarare che si tratta di mostre documentarie, dove l’autorialità dell’artista non si manifesta direttamente ma tramite l’artefatto della riproduzione. Usare le fotografie, i filmati storici, gli scritti dell’artista é una operazione culturale interessante che consente di costruire relazioni e legami tra l’artista e il suo tempo, piuttosto che ricostruire oggi un ambiente realizzato cinquant’anni fa, anche se é andato distrutto . E’ come se si perdesse il senso originale del progetto, nato per per uno spazio e una situazione culturale specifica. Allora come può essere considerato originale un ambiente spaziale ricostruito? In questo modo si perde l’occasione di mostrare tutto il lavoro di ricerca e di analisi delle opere di Fontana fatto dalle curatrici Pugliese e Ferriani, senza le quali gli ambienti non si sarebbero potuti realizzare con maniacale verosimiglianza. D’altronde non siamo in un museo ma in uno spazio privato di una multinazionale, Pirelli, dunque il mercato impone di mostrare l’opera e non il processo di conoscenza del linguaggio di Fontana. Il pubblico apprezza, dunque il progetto é riuscito. Ma si é fornito il pubblico degli strumenti per comprendere il significato delle opere di Fontana? Sarebbe utile e necessaria una profonda riflessione su queste modalità espositive, soprattutto in relazione alla formazione di una cultura contemporanea diffusa. 25.1.18 Peer Review AL |