Emiliano Ilardi. Donald Trump, Elon Musk e Peter Thiel a caccia di nuove frontiere

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Uno degli effetti più interessanti, ma tra i più trascurati da opinionisti e politologi, dell’avvento di Donald Trump alla Casa Bianca è stato la profonda divisione che ha provocato in quello che a prima vista è sempre sembrato un fronte politico piuttosto compatto, ossia quella fitta rete di imprese, centri di ricerca pubblici e privati e università che forma il comparto ipertecnologico californiano. Tradizionalmente democratico e ferocemente “obamaniano”, proprio durante la campagna elettorale di Trump ha cominciato a mostrare delle crepe. Google, Facebook, Amazon, Apple hanno appoggiato più o meno ufficialmente Hillary Clinton mentre Peter Thiel di PayPal ed Elon Musk di Tesla hanno sostenuto Donald Trump. Al di là dei meri calcoli elettorali di natura economica o lobbistica, la frattura appare molto più profonda di quanto possa sembrare a prima vista perché riguarda maniere diverse di immaginare il futuro e il ruolo della tecnologia nella sua costruzione. Per spiegarci meglio partiamo dalla frase più famosa attribuita a Peter Thiel, fondatore di PayPal, che è ormai divenuta un aforisma: “Volevamo le auto volanti e ci siamo beccati i 140 caratteri di Twitter”. L’accusa che Peter Thiel ed Elon Musk muovono nei confronti delle principali imprese informatiche californiane è di aver tradito l’immaginario tecnologico occidentale soprattutto di matrice americana. Invece di utilizzare la tecnologia per inventare o scoprire nuovi spazi e frontiere, favorire e velocizzare gli spostamenti, potenziare il corpo umano, ci troviamo di fronte a investimenti mirati quasi esclusivamente alla velocizzazione delle informazioni e dei servizi ad esse legati. Il sogno non è più quello pionieristico di Star Trek (“Spazio, ultima frontiera”) ma quello più prosaico di Desperate Housewife ossia poter controllare il proprio frigorifero sullo smartphone mentre si è a far compere al centro commerciale. Il web insomma non è diventato la nuova frontiera digitale come era nei sogni dei primi pionieri informatici degli anni Settanta e Ottanta. A partire dagli anni Duemila il nuovo spazio dei flussi si è semplicemente affiancato agli altri spazi senza dissolverli. E infatti non ha prodotto una nuova versione, tecnologicamente avanzata, del pioniere ma l’individuo diasporico che vive tante vite spostandosi da una dimensione spaziale all’altra, abbracciando via via differenti immaginari, totalmente schiacciato sul presente e scettico verso la dimensione profetica tipica della religione civile americana.

Già nel “lontano” 1992, agli albori della network society, Bruce Sterling vedeva delle grosse differenze tra il vecchio e il nuovo pioniere americano. La più importante “consiste nel fatto che attualmente la società americana si trova in uno stato molto vicino a quello della rivoluzione tecnologica permanente. Soprattutto nel mondo dei computer, è praticamente impossibile smettere di essere un pioniere, a meno che uno non caschi a terra stecchito o decida di mollare tutta la faccenda. […] Se però si passa tutta la vita lavorativa a fare i pionieri, la parola perde progressivamente il proprio significato. Il modo di vita assomiglia sempre meno a una premessa a qualcos’altro, e diventa sempre più una situazione stabile. Una ‘rivoluzione permanente’ è davvero una contraddizione in termini”. Secondo Thiel e Musk questa rivoluzione permanente propugnata da Steve Jobs e compagnia è una falsa rivoluzione, un semplice spot pubblicitario per vendere prodotti che di rivoluzionario non hanno nulla in quanto servono solo a creare reti, connessioni, database e servizi. Ed è anche un tradimento del più genuino immaginario americano perché rifiuta quella dimensione radicale di rischio estremo, di luogo di non ritorno tipica della cultura della frontiera e rivendicata ad esempio da F. D. Roosevelt o J. F. Kennedy nei loro famosi discorsi sulle Nuove Frontiere dell’America. Ecco spiegati allora i “veri” progetti rivoluzionari di Thiel e Musk: di colonizzare Marte, di creare velocissime metropolitane sotterranee, di inventare aerei sempre più simili al teletrasporto, di costruire città galleggianti che vanno alla deriva sugli oceani, etc. Ed è su questi obiettivi che i loro sogni tecnologici si sono incrociati con quelli elettorali di Donald Trump. In tutta la campagna elettorale Trump ha più volte dato l’idea di voler ri-materializzare l’economia, contro le derive globali, finanziarie e smaterializzanti dei colossi dell’informatica (Google, Facebook, Apple, Amazon, etc.) preoccupati unicamente dell’andamento del titolo in borsa e quindi portatori di una tecnologia troppo schiacciata sul presente e incapace di rispondere alla missione che da sempre gli ha affidato l’immaginario americano ossia scoprire e/o inventare nuove frontiere spaziali. Ecco perché questa missione non può essere lasciata al mercato, che produce esclusivamente profezie a brevissimo termine, come hanno fatto i governi da Clinton in poi; deve essere lo Stato a guidare l’innovazione tecnologica come accadeva ai tempi di Roosevelt o Kennedy. Come scrive Alessandro Aresu su Limes “Thiel sa che nessun settore ha la capacità di spesa della difesa: il ruolo dell’investimento pubblico non riguarda solo la politica industriale, ma la sopravvivenza e la proiezione degli Stati e degli imperi. La frontiera infinita della tecnologia passa sempre per i militari”. La tecnologia non può essere mai rivoluzionaria se non ha dietro la Stato che, in America, ha sempre assunto le fattezze del Pentagono e del comandante in capo, il Presidente, il profeta della nazione colui che deve dare un contenuto ai concetti americani di Destino Manifesto e American Dream. È in questo senso che Thiel ha letto la campagna elettorale di Trump: “Quando Donald Trump ci ha chiesto di rendere grande l’America, non sta suggerendo un ritorno al passato – sta correndo per riportarci a quel brillante futuro.”

Quindi, la promessa del Presidente di un ampliamento delle spese militari non sembra avere solamente una funzione di minaccia verso i nemici esterni (e speriamo proprio di non essere smentiti su questo), ma rappresenta piuttosto il recupero del ruolo dell’industria militare come principale motore dell’innovazione tecnologica e, di ricasco, dell’eterno sogno americano di una nuova frontiera. Il continuo insistere di Trump sull’obsolescenza della tecnologia militare statunitense sembrerebbe andare proprio in questa direzione. E in questo modo sarebbe risolta anche l’apparente contraddizione di un Trump che vorrebbe disimpegnarsi in politica estera ma, contemporaneamente, aumentare le spese militari. Mentre Washington e Eisenhower sostenevano la necessità di un freno nella politica estera contro il pericolo di un sistema militare ampio e permanente, Trump ha capito che i due ambiti nell’immaginario americano sono indipendenti l’uno dall’altro: e quindi vuole mettere un freno alla politica estera ma non smantellare il sistema militare che diventa una struttura essenzialmente di difesa e una piattaforma di ricerca tecnologica al servizio dell’immaginario nazionale. In questo senso vanno le ultime azioni di Trump che da una parte ha intenzione di mettere sotto controllo la rete di internet, considerata come una falsa frontiera, e dall’altra stanzia ingenti finanziamenti alla Nasa per la ripresa di programma spaziali che abbiano come obiettivo la colonizzazione della Luna. Il sogno tecnologico americano ritorna sul corretto binario: non i 140 caratteri di Twitter, ma l’astronave Millenium che salta nell’iperspazio.

[Emiliano Ilardi]

12.1.18 Peer Review EP