Alexios Tzompanakis. Architettura e città ai tempi della crisi: Atene
Nell’estate del 2004 Atene ospita la XXVIII Olimpiade dell’era moderna. Con l’Olimpiade come volano, Atene e la Grecia tutta vivono un decennio di euforia (dalla fine degli anni ’90 fino allo scoppiare della crisi), euforia che si traduce in massicci investimenti nel settore immobiliare che accelerano un processo di trasformazione della piana dell’Attica in un territorio di sobborghi altoborghesi e di tessuti consolidati abbandonati, in una compresenza di dinamiche di suburbanizzazione e di riurbanizzazione. Si riscoprono le aree dismesse e i tessuti degradati del centro storico dove interventi puntuali di riqualificazione promuovono la ricerca su un nuovo abitare destinato a quei ceti «creativi» che trasformano la città in un laboratorio culturale. Il tutto in una cornice in cui anche l’amministrazione centrale pone in essere tentativi di messa a sistema di spazi pubblici come leve di gentrificazione (il sistema pedonale costituito dalle aree archeologiche della rocca dell’Acropoli, del Filopappo, del foro Romano, del Ceramico e del tempio di Efesto ne è il principale esempio). Molto si potrebbe dire sulla effettiva possibilità di innescare, attraverso questi interventi, circoli virtuosi dal punto di vista urbano, capaci di promuovere sviluppo e inclusione, ma non è questa la sede per una valutazione di questa natura. Tuttavia una valutazione va fatta non rispetto al parossismo collettivo dell’ubriacatura olimpica ma, viceversa, rispetto alle nuove dinamiche urbane -ora che ci si avvicina al giro di boa dei 10 anni di crisi e di austerità della finanza pubblica. Da sempre gli architetti ellenici discutono dell’ identità dell’architettura ellenica e della sua feconda schizofrenia bipolare: un radicamento profondo nella tradizione del Moderno e allo stesso tempo un’adesione negoziata alla modernità. Un patteggiamento continuo che se da una parte dà la cifra di una certa complessità e fecondità della condizione ellenica, dall’altra denuncia un certo disincanto rispetto a processi che l’architettura non è più in grado di controllare. Dico questo non perché voglia fare la morale sulla natura speculativa della produzione dello spazio, che evidentemente è un fatto connaturato al fare città, ma perché le modalità di tale produzione sono il frutto di un disegno pianificato. Mi spiego meglio: l’assimilazione della tradizione moderna è stata limitata, in Grecia, al suo portato di tecnica e non di principi universalistici. K. Frampton ebbe modo di descrivere Atene come «città moderna per eccellenza», tuttavia, tale modernità puramente e semplicemente assoggettata alla tecnica ottiene come risultato non tanto l’impossibilità di gestire la città e l’architettura, quanto di fornire l’alibi per questa impossibilità. Quanto detto si spiega facilmente facendo ricorso al concetto di egemonia così come espresso da A. Gramsci, per il quale il potere è basato sulla coesistenza di forza e consenso: al prevalere del primo si ha il dominio, mentre al prevalere del secondo, l’egemonia. Se riletta dunque in questa luce, l’architettura ellenica dal dopoguerra a oggi si dimostra strumento di egemonia, attraverso il consenso. Un consenso non relativo a una classe borghese illuminata capace di proporre un’idea di città e ricondurre all’interno di essa i principi della rivoluzione moderna (e del Moderno), ma relativo a ceti eterogenei di neo-inurbati per i quali si voleva un’architettura come prodotto oggettivo, funzionale come un frigidere, che, senza ulteriori valenze, andasse diffuso come puro lifestyle. Questa idea di architettura è, come ebbe a scrivere B. Colomina, una proiezione sul suolo europeo dell’avanguardia culturale americana, o meglio, di quella diaspora europea che, emigrata negli Stati Uniti, porta, nell’Europa degli anni ’50, un’architettura come strumento di un nuovo ordine mondiale. Tale consenso, per apparire politicamente neutro, ha bisogno di presentarsi come pura tecnica (e di mondarsi passando per Washington via Yalta, come la pizza per Little Italy). Il tipo edilizio della polykatoikia, ovvero la palazzina a schiera con fronte urbano continuo viene a dar man forte alle truppe cammellate della tecnica, assurgendo a strumento principe del consenso. Con la polykatoikia si produce spazio costruito non attraverso la remunerazione per prestazione d’opera, ma attraverso il sistema dell’ «antiparochì», ovvero attraverso lo «scambio in vece di prestazione», una specie di premoderno baratto tra il costruttore che costruisce con mezzi propri e il proprietario che fornisce il lotto. Entrambi vengono ricompensati «in natura», ovvero attraverso la percentuale pattuita sulla cubatura costruita finale, che comincia a produrre plusvalore solo da questo momento in poi, se immessa sul mercato. Questa pratica, basata su piccole società di costruzione e su manodopera non specializzata, che esautora la pianificazione dall’alto (e il ruolo regolatore dello Stato), è stata spesso descritta come «informale» in quanto legalizza di fatto la pratica dell’autocostruzione. Ma è davvero così? Tale pratica, sostituendosi allo Stato nel proporre una soluzione alla questione della casa, crea, allo stesso tempo, un ceto di piccoli proprietari. La ricostruzione seguita alla II guerra e alla guerra civile (1945-49) rappresenta, dunque, in tutto e per tutto, un atto politico basato su un nuovo contratto sociale teso a costruire (dopo le carcerazioni e le fucilazioni) una nuova struttura sociale in base a una strategia egemonica mirata a creare consenso. L’«informalità» è una risposta «altra» ad un disegno performante che mira a vedere il territorio nel suo insieme come spazio urbano potenziale e quindi come strumento di accumulazione di rendite fondiarie. Dal punto di vista urbano, la città della polykatoikia non ha applicato (più per incapacità intrinseca che per scelta ideologica) la Carta di Atene (non vi è zonizzazione di funzioni nè progettazione di quartieri isolati di edilizia popolare), ma ha riprodotto, all’infinito, un continuum fatto di isolati urbani basati sulla cellula-base della polykatoikia e riproposti attraverso il disegno urbano della griglia (soluzione anch’essa falsamente oggettiva). Ne consegue un paesaggio urbano denso e compatto che tuttavia va inteso come sommatoria di frammenti edilizi. Atene compatta e mediterranea è in costante bilico tra due termini che apparentemente costituiscono un ossimoro: ripetizione e differenza. Alla scala urbana, la ripetizione ha il suo apogeo nella densità quasi ossessiva della griglia, mentre alla scala architettonica vi è la totale varietà dei singoli elementi che costituiscono l’isolato urbano. In mezzo, l’abisso dell’ assenza, clamorosa, della qualità urbana e dello spazio pubblico. La polykatoikia è riuscita per decenni a sopperire, in quanto edificio «generico», alla mancanza di urbanità, interiorizzandola, creando micro-densità multifunzionali localizzate alla scala di quartiere e di vicinato. Tale urbanità latente che caratterizza la polykatoikia la rende una macchina complessa dove spazio urbano e scala architettonica si compenetrano: al pianterreno vi sono sempre negozi in molti casi intervallati da passages o filtrati da portici, mentre dietro le facciate continue si celano gli usi più disparati. Si ha così una sezione urbana policlassista, diversificata, osmotica. Oggi è proprio la complessità di questa sezione ad essere colpita, poiché la vita dei piani terra non é abbastanza vitale per alimentare tutto questo basamento urbano. Solo le zone del centro riescono ancora ad avere l’adeguata densità e multifunzionalità di usi e funzioni per poter continuare a svolgere il proprio ruolo di spazio di incontro. Atrove, questo spazio a cavallo tra la sfera pubblica e quella privata, questo sì «informale» davvero, in quanto non formalizzato, fluido, costituito da piccoli slarghi, «tasche», passages, portici e androni, lo spazio della prossimità e del contatto sociale, diventa oggi lo spazio della paura e dell’ignoto, dell’incontro, non sempre voluto, con l’«altro». I meccanismi che permettevano alla struttura ripetitiva e differenziata della polykatoikia di innescare processi «informali» capaci di creare urbanità sono stati cancellati dai cingoli della concentrazione finanziaria a marca UE con lo scopo di «riformare» un’economia atipica, troppo diversa dal resto delle economie dell’occidente europeo, mentre lo spazio pubblico urbano su vasta scala è tornato ad essere il grande assente. Un bene collettivo frammentato e conteso da movimenti che si territorializzano: dai gruppi criminali nelle periferie, all’industria del divertimento lungo tutta la costa, ai nuovi e vecchi senzatetto cui si aggiungono le ondate di profughi. Ma assieme a tutti questi vi sono anche numerosi movimenti e organizzazioni che sembrano cercare canali di resistenza all’interno dello spazio pubblico, attraverso circuiti di economia solidale, recupero urbano partecipativo, orti urbani, strategia di riqualificazione di spazi urbani di quartiere in modo da rafforzare quella scala di vicinato, quella sfera semipubblica che risulta essere la più colpita, ma che forse è l’unica che per il momento non ha permesso di vedere bruciare Atene come abbiamo visto succedere più volte nelle banlieues parigine. Le belle opere dell’Atene città globale (prima fra tutte la Fondazione Niarchos di Renzo Piano), sono meravigliosi palliativi per un mostro urbano atipicamente «informale» che fagocita tutto e tutto, miracolosamente digerisce, inglobando la complessità e facendola coesistere con il sostrato seriale apparentemente omogeneo della polykatoikia. Sembra insomma -e questa è una speranza-, che dalla mancanza di forma di una città moderna per virtù di tecnica, si manifestino pratiche realmente «informali» della gestione dello spazio urbano che possano essere foriere di progresso accettando una città senza forma e senza bordi, affinché anche la polykatoikia possa risorgere dalle sue ceneri e dare nuove risposte alle necessità contemporanee di una città che insegue, da sempre, una identità instabile. 23.9.17 Peer review EP Alexios Tzompanakis, architetto, dotttore di ricerca in Progettazione architettonica e urbana, docente presso la facoltà di Architettura del Politecnico di Creta. Ha scritto numerosi saggi e articoli sul tema della spazialità meditrerranea. Fondatore del gruppo Mediterranean architecture_Atelier, ha vinto numerosi concorsi e premi di architettura nazionali e internazionali. Per approfondire: Yannis Aesopos, Yorgos Simeoforidis, “The contemporary Greek city,” in The Contemporary (Greek) City, ed. Yannis Aesopos and Yorgos Simeoforidis, Athens: Metapolis Press, 2001 B. Colomina, Domesticity at war, Cambridge: MIT Press, 2007 Panos Dragonas, “The suspended stride of the Athenian polykatoikia,” Domes, 03/2008 Andreas Giacumacatos, “From conservatism to populism, pausing at modernism,” in Greece: 20th Century Architecture, ed. Savas Condaratos and Wilfried Wang, Munich: Prestel, 1999 Lila Leontidou, The Mediterranean City in Transition: Social Change and Urban Development, New York: Cambridge, 1990 Dimitris Philippidis, Neohellenic Architecture, Athens: Melissa, 1984 Alexios Tzompanakis, Labirinti Mediterranei, Fiernze: Alinea 2012 Alexios Tzompanakis, “Teseo e il labirinto del sistema territoriale ateniese”, Gomorra, 10/2006 Richard Woditsch, “From thinking with to thinking of the polykatoikia: The need for a theoretical knowledge about the public and private spaces of the polykatoikia” Domes, 03/2008
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