Emanuele Piccardo. Christo: alienazione mediatica
The Floating Piers è l’opera firmata da Christo Vladimirov Javacheff (bulgaro naturalizzato americano) e Jeanne-Claude Marie Denat (francese naturalizzata americana), scomparsa a NYC nel 2009, che era stata progettata nel 1970. Prevista inizialmente per il Rio della Plata e successivamente per la baia di Tokio si è concretizzata solo nel 2016, dopo una serie di sopralluoghi nei laghi del nord Italia. La scelta è ricaduta sul lago d’Iseo. L’opera dell’artista americano ha prodotto polemiche e critiche da quel cenacolo di intellettuali poco aperti alla contemporaneità, con un sottofondo non troppo nascosto di reazionarismo, ben rappresentato da Philippe Daverio e Vittorio Sgarbi. Ma occorre distinguere tra i profeti della tradizione come Daverio che ha affermato “uno ascolta duecento volte la fuga di Bach o ammira centinaia di volte il David di Michelangelo e ogni volta percepisce una nuova sensazione”, e chi cerca di capire il senso di un’opera mettendo in evidenza gli aspetti critici. Io appartengo a questi ultimi. Ho sempre creduto che il lavoro di un artista vada visto dal vivo per comprenderlo e che sia necessario anche un approfondimento bibliografico specifico, mettendo in relazione l’opera di Christo con la sua precedente ricerca e con lavori analoghi di altri artisti. The floating piers ha avuto una grande visibilità mediatica a differenza di ciò che accadeva alla fine degli anni Sessanta con gli earthworks che non avevano pubblico e spesso erano ignorati dai mezzi di comunicazione di massa. I paragoni con gli earthworks sono inappropriati. Diverse sono le dimensioni, diversi i paesaggi e la loro orografia, ma soprattutto manca quel senso di conquista quando percorri miglia di strada sterrata lungo il Great Salt Lake. Lì, dove il navigatore gps del cellulare non prende, devi muoverti nello spazio unicamente con il tuo istinto. Ti avvicini alla Spiral Jetty (1970) di Robert Smithson nell’incertezza di non trovarla, quando finalmente ti appare. Tutto questo non accade con The Floating Piers. Ci arrivi in treno o in auto, passi ore ad aspettare sotto il sole per entrare e poi la magia di camminare sull’acqua, come nella parabola del Cristo, si dovrebbe compiere. Ma non succede. Superstudio, Supersuperficie, 1971 Le regole imposte dall’artista all’uso delle passerelle non hanno consentito quell’appropriazione da parte dei visitatori come accadeva nel fotomontaggio della Supersuperficie del gruppo radicale Superstudio. Qui famiglie hippies facevano il pic-nic a contatto con la natura su una superficie uniforme, al pari del tessuto giallo. Poche persone si fermano sui bordi delle passerelle, fatte rialzare da solerti “guardiani” che non consentono neanche di bagnarsi nelle acque del lago. Quello che manca è proprio l’aspetto dell’esperienza e del coinvolgimento sensoriale che un luogo come il lago d’Iseo tuttavia non riesce a trasmettere, per la sua dimensione e la sua orografia. Certamente un luogo meno affascinante del lago di Como, ricco di storia tra I promessi sposi di Alessandro Manzoni, le architetture di Radice, Terragni e Lingeri. Per la prima volta Christo rende partecipi i visitatori della sua opera spettacolare, non sono più spettatori ma attori della messa in scena. Sul lago d’Iseo è l’opera ad emergere e non il contesto come invece accadeva nei lavori degli anni Sessanta-Settanta quando Christo & Jeanne-Claude impacchettavano montagne, scogliere, muri, la cui forza era data appunto dalle dimensioni del contesto ma dove il carattere temporaneo è sempre stato presente. Ciò avviene in antitesi con gli earthworks che sono in continua trasformazione proprio perché la natura agisce su di essi. In questo senso se osserviamo l’opera da Iseo verso Sulzano, percorrendo l’antica via Valeriana si ha una visione diversa, sopraelevata, che la colloca nel lago. Si percepisce come The Floating piers si possa considerare più come un progetto architettonico che artistico.
Ma The Floating Piers pone anche altre questioni. La prima riguarda il dopo evento nell’auspicio che non sia un caso isolato ma che apra la strada a nuovi progetti di arte contemporanea sul lago d’Iseo. La seconda, invece, riguarda un problema italiano ovvero chiudere ogni spazio ai meno famosi artisti/curatori, giudicandoli non per il brand che rappresentano ma per il contenuto dei progetti. Ancora una volta il monopolio curatoriale di Germano Celant, il sacerdote dell’arte dei Settanta, dall’arte Povera a Vedova, da Christo a Heizer, dimostra come sia impossibile oggi nel nostro paese, per le nuove generazioni di curatori e artisti indipendenti imporsi sulla scena del contemporaneo. Tuttavia bisogna constatare come nessuno dei polemisti, artisti attivisti, curatori e critici militanti, direttori di accademie, ha sollevato questo problema a dimostrazione della intoccabilità del potere celantiano. 13.7.16 Questo primo articolo sancisce lo scambio culturale con Il Giornale dell’Architettura su temi comuni. E’ un esperimento per condividere esperienze e punti di vista. |