Emanuele Piccardo. Il fronte dell’architettura guarda a sud

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Quali sono oggi i fronti dell’architettura? In che modo l’architettura può cambiare in positivo la nostra quotidianità?In Italia c’è un fronte dell’architettura così come lo intende Aravena? Ossia una capacità di agire più con le idee che con i soldi e la demagogia? Da quello mostrato dai Tam nel padiglione italiano siamo ancora lontani. Gli architetti italiani non riescono ad intervenire con piccoli progetti risolutivi, senza fare l’elogio fricchettone del pneumatico, del pallet, del finto processo di partecipazione, o del modulo abitativo ricavato dal container come avviene per i cinque studi invitati da Tam ad “agire”(Alterstudio, ARCò, Marco Navarra/Nowa, Matilde Cassani, Antonio Scarponi) con altrettante organizzazioni no profit. Un richiamo alle sperimentazioni degli anni Settanta con esiti banali e scontati, quando il modello container è stato superato da alcuni anni (basta vedere la vasta bibliografia sul tema), testimonianza che le architetture mobili e temporanee non appartengono alle ricerche dei progettisti selezionati.

I Tam non sono critici ne tanto meno curatori di architettura e le sbavature sono inevitabili, però questa situazione evidenzia l’annosa questione su chi debba curare i padiglioni nazionali e la sezione internazionale della biennale. D’altronde sono poche le biennali dove il direttore è un critico o uno storico, l’ultimo fu Aaron Betsky nel 2008.
La Biennale di Aravena ci pone di fronte al fatto che il sud del mondo ha affrontato gravi problemi come l’abitare e l’assenza di spazi pubblici con una creatività che il vecchio Occidente e soprattutto l’Europa hanno smarrito. Se nel 2014 la Biennale proponeva, con dieci anni di ritardo, i postulati teorici di Koolhaas che irrideva gli architetti con un allestimento da fiera edile ai Giardini, e una overdose di video all’Arsenale sui principi fondamentali della disciplina, l’odierna kermesse veneziana è più sobria e misurata, senza sottoporre il visitatore ad una sorta di pellegrinaggio al tempio della divinità del momento.

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Monditalia, 14esima Biennale di Architettura di Venezia, 2014

Ribaltare il punto di vista e guardare all’architettura da sud consente di ridefinire le logiche con le quali fino a oggi abbiamo giudicato i progetti del movimento internazionale degli architetti star,alquanto marginale in questa edizione, ristabilendo le giuste distanze. Non tutto, però, quello proposto da Aravena è coerente con il report dal fronte dell’architettura. In alcuni casi, soprattutto ai Giardini, abbiamo assistito a esercizi di autocompiacimento senza nessuna contestualizzazione teorica della propria ricerca. In questo senso è esemplare il lavoro della Grasso Cannizzo, valido architetto italiano, che ha lavorato in un territorio di frontiera, nonostante lei abbia sempre affermato che lavorare in Sicilia fosse uguale a qualsiasi altra regione. La sua installazione con una serie di teli, da soffitto a pavimento, sui quali sono stampati disegni e fotografie, risulta comprensibile solo a chi conosce già i suoi progetti; evidenziando una imbarazzante difficoltà comunicativa nonostante le sue architetture siano in sintonia con il tema dell’esposizione. E’ il caso del progetto della casa di Ragusa, ampliata attraverso una sostituzione della casa pre-esistente, espressione di una volgare speculazione, e trasformata in un’architettura. Anziché scegliere una sola architettura paradigmatica di un modo di fare architettura evidenziando cosa significa lavorare al fronte, Cannizzo si è persa in una serie di progetti che non sono tutti generatori di conflitto. Ciò evidenzia anche un’altra attitudine negativa degli architetti: l’incapacità nel sintetizzare attraverso una installazione il proprio pensiero. Ma alla fine la giuria internazionale della Biennale ha ritenuto opportuno riconoscere a Grasso Cannizzo una menzione speciale “per la perseveranza nel ricorrere all’integrità della disciplina per trasformare il quotidiano in progetti di architettura capaci di andare al di là del proprio tempo”. Come se ogni bravo architetto non potesse assumere questo atteggiamento.

Questa Biennale, più di altre, afferma quanto l’architettura sia una cosa seria ma pericolosa quando si usano parole come partecipazione, bene comune, sostenibilità. Parole che spesso nascondono un vuoto teorico, senza nessuna sperimentazione che produca una architettura interessante. Si assiste infatti ad atteggiamenti demagogici come è il caso di quei progettisti, in gran parte europei, che in Africa ripropongono case di fango donando il loro sapere per realizzare architetture che in Europa sarebbero definite opere edilizie o baracche. Invece per i progettisti che lavorano in quei contesti, così come in Afghanistan o Sudan, sono un vanto da mostrare consentendogli un riconoscimento internazionale attraverso prestigiosi premi. L’obiettivo della Biennale 2016 è dunque sottoporci una ulteriore domanda: dove sta andando l’architettura? Quello che racconta Aravena, non è la storia descritta da Giufré sul Manifesto che lo ritrae negativamente come un architetto-imprenditore (chi non lo è oggi o non lo è stato nel passato, basti pensare a Corbu o Gropius?), ma è una idea di architettura ricca per la gente che la vive nelle zone depresse dell’Alabama, dell’Africa e del Latinoamerica. Architettura come possibilità di sviluppo con poche risorse e tante idee, senza ambiguità. E’ necessario un parco in un favelas? Il collettivo Pico a Caracas lavora con gli abitanti e realizza opere utili, efficaci, formalmente interessanti risolvendo un problema contingente: una volta è una piazza, un campo da basket, un centro sociale. Progetti presentati dal Venezuela che ha risposto meglio dei padiglioni europei all’invito del direttore della Biennale.

Caracas1Colectivo Pico, Barrio Canaima – Los Frailes, Caracas 2015

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Colectivo Pico, Plazas las 3 Marias, Caracas 2015

La Francia con un campionario di progetti in aree periferiche ha dimostrato un inutile sciovinismo affermando “noi facciamo l’architettura”, andando fuori tema. Molto diverso dall’intelligente padiglione curato nel 2014 dallo storico Jean Louis Cohen in sintonia con l’indirizzo di Koolhaas, dove un grande plastico della casa di Mon Oncle, film culto di Jacques Tati, accoglieva i visitatori al pari dei frammenti di facciate progettati da Jean Prouvé. La sorpresa è la Germania, con il suo open pavilion, esibisce una serie di progetti di abitazioni per i rifugiati, realizzate mediamente in quattro mesi, dove prevale la trasformazione del container in case a ballatoio con esiti formali poco interessanti, una variante degli alloggi proposti dalle protezioni civili nazionali senza nessun disegno urbano. Sempre sul tema dell’accoglienza il padiglione dell’Austria, in controtendenza con le scelte nazionalistiche del governo, con un allestimento sbagliato fatto di pile di manifesti raffiguranti la vita dei migranti, non è riuscito a comunicare il senso di Places for people. Tre progetti affidati ad altrettanti team di progettisti: Caramel Architekten, EOOS, e the next ENTERprise architects, che hanno operato a Vienna su diverse scale di intervento. I Caramel hanno progettato un ombrellone-tenda in autocostruzione; EOOS ha fornito una serie di strumenti utili per cucinare, vivere e lavorare rappresentati da elementi modulari in legno che si trasformano a seconda delle esigenze, infine the next ENTERprise ha trasformato un edificio della periferia viennese adattandola alle nuove esigenze funzionali dell’accoglienza ai rifugiati. Questi progetti si comprendono, però, solo dal giornale cartaceo in grande formato che viene regalato ai visitatori, ritorna ancora il problema di come rappresentare e sintetizzare il contenuto.

caramel_architekten_home_made_c_paul_kranzler_its_nice_thatCaramel Architekten, Home Made, Vienna, fotografia di Paul Kranzler 

Un discorso a parte merita il padiglione americano, sotto la direzione di Monica Ponce de Leon (dean della School of Architecture di Princeton), e Cynthia Davidson (direttore di Log), il cui tema è The architectural Imagination. Una risposta visionaria e lanciata verso il futuro di cosa sia il fronte del progetto oggi. La scelta di indagare Detroit, la città industriale di Henry Ford e della casa discografica Motown, pone la questione del riuso delle aree industriali attraverso lo sguardo visionario e formalista dei dodici architetti invitati. Greg Lynn, Andrew Zago, Present Future, Stan Allen, A (n) Office, Marshall Brown Projects sono solo alcuni degli architetti che hanno lavorato su quattro aree. “Il tipo di fronte dell’architettura che noi abbiamo immaginato- racconta Davidson-non è la nostalgia verso il passato di città industriale ma il futuro. Crediamo nel potere dell’architettura di cambiare le cose. Non vogliamo costruire edifici ma un immaginario pubblico. Per ogni sito- continua Ponce de Leon-abbiamo chiesto agli architetti di lavorare con le comunità e con le organizzazioni no profit attivando un dibattito”. Indubbiamente la scelta di un tema unico coincidente con una città industriale in profonda crisi, rafforza il legame tra il titolo del padiglione e quello della Biennale “Reporting from the front”, affermando quanto sia necessario fornire ai cittadini una visione che li proietti nel futuro. Il caso Detroit è analogo a Ivrea, anche se sono incomparabili a livello dimensionale, differente però è la scelta per rinnovarsi. Se la città americana punta sulla trasformazione urbana attraverso l’architettura, Ivrea, la città di Adriano Olivetti, cerca il rinnovamento attraverso il riconoscimento Unesco come città industriale del XX secolo, non attivando nessun processo di rigenerazione urbana.

Se da un lato la Biennale ci fa ripensare a un grado zero di architettura al servizio della società,tema del Novecento, Aravena ha deciso di non rendere omaggio agli architetti anticipatori dei contemporanei, il riferimento è per Fuller, Soleri, De Carlo, Bo Bardi, le cui opere sono state pensate e realizzate per migliorare le condizioni di vita delle persone. Parallelamente l’altro punto critico riguarda come rappresentare l’architettura, la cui soluzione è ancora lontana. Certamente più materiali, ricostruzioni in scala 1:1 di frammenti di spazi, consentono al grande pubblico una immersione tridimensioanle e un coinvolgimento maggiore rispetto alla serie di maquette, fotografie e disegni.Tuttavia quello che rimane di questa Biennale è la fiducia che viene distillata negli spettatori da piccoli progetti evidenziando il contributo che l’architettura può fornire nel risolvere i conflitti urbani.

[Emanuele Piccardo]

6.6.16

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