Fabrizio Violante. Ettore Scola, un ricordo

ettore-scola

“Vivere come ti pare e piace non costa nulla, perché si paga con una cosa che non esiste, la felicità” dal film C’eravamo tanto amati

“Per tirare a campare, bisogna lasciare campare”
dal film Gente di Roma

Addio a Ettore Scola, che ha cambiato il cinema italiano, che ci ha mostrato i nostri difetti e le nostre contraddizioni di cittadini di un paese che fa sempre più fatica a riconoscersi bello, che avevamo tanto amato e che ci ha lasciati martedì 19 gennaio a ottantaquattro anni. Ci rimangono i suoi disegni, dal tratto preciso e un po’ grottesco, con i quali parlava per immagini della “importanza di un pensiero, difficile magari da esprimere a parole” e con i quali aveva cominciato giovanissimo sulle pagine del Marc’Aurelio. I suoi omini buffi, i “pupazzetti” come li chiamava, nei quali “c’è una vita – diceva – che continua anche oltre, anche quelli finiti nei cestini, continuano a mostrarci che c’è un lato buffo nella vita, ed è in fondo quello che ci fa continuare a vivere, sapere che è il lato buffo che prevale”.

Ci rimangono ancor di più i suoi film, le sue tragicommedie sentimentali e crepuscolari, in cui raccontava le delusioni di una generazione che dopo i disastri della guerra aveva fatto il boom,di quelli che “volevamo cambiare il mondo e invece il mondo ha cambiato noi”, come ammette con sconsolata sincerità l’intellettuale misantropo interpretato da Stefano Satta Flores nel memorabile C’eravamo tanto amati del 1974. Ci rimane la sua attenzione alle cose del mondo, la passione comunista, lo stile irriverente e complice insieme allo sguardo realistico e antropologico con i quali ci ha restituito il ritratto di personaggi indimenticabili, mai innocenti ma neanche mai veramente colpevoli, vittime e carnefici di una società in cui prosperano approfittatori e malaffare, eroi sbagliati e inconcludenti di un mondo che non riescono a fare proprio, sempre in ritardo o troppo in anticipo,come lui stesso, che si lamentava di essere stato troppo giovane per fare la Resistenza e troppo vecchio per il Sessantotto.

Ci rimane la sua sobrietà di maestro senza vanità, la sua voce roca con la quale diceva solo parole misurate. Pensava quello che diceva e diceva quello che pensava, Ettore Scola, che ho avuto il piacere di conoscere e con il quale ho trascorso alcune delle ore più ricche della mia vita di cinefilo appassionato, durante le quali ascoltavo i suoi racconti che erano la storia del cinema che amo e ai quali ribattevo con le mie parole a volte ingenue. Mi diceva che i maestri non vanno ammirati, ma anzi presi come esempi da superare. Ricordo un pomeriggio nel suo studio, io a parlargli della mia tesi e lui a darmi pochi consigli, perché diceva che non aveva nulla da insegnare. Ricordo che mi diceva che era stanco di fare cinema, che aveva rinunciato a impegnarsi sul set, per riscoprire il piacere della lettura, di tutti quei piccoli momenti apparentemente insignificanti che gli erano mancati nei tempi dell’attività lavorativa. Ricordo la sua disponibilità e voglio ricordarlo ora con un’intervista che registrai qualche tempo fa, parlando insieme di cinema e città, di Roma, la sua città, qualche anno dopo il viaggio al termine della romanità di Gente di Roma (2003), sguardo frammentario sui vizi privati (troppi) e le virtù pubbliche (poche) della capitale, dei romani e degli “extra-romani”…

Fabrizio Violante: Il dibattito sull’architettura e l’urbanistica che durante gli anni del fascismo contrappose in Italia gli architetti tradizionalisti ai giovani razionalisti ha indubbiamente contribuito ad alcune delle più importanti realizzazioni architettoniche e trasformazioni urbane del nostro novecento. Naturalmente la città di Roma, la capitale del nuovo impero, ha rappresentato lo scenario principale di queste innovazioni. Nel suo cinema c’è spesso, come sottotraccia, il ricordo della Roma su cui il fascismo ha agito utilizzando l’architettura come propaganda, sia nel senso della auto-rappresentazione e legittimazione del proprio potere, ma anche avendo una reale intenzione di modernizzare la città.

Ettore Scola: E comunque era uno strumento di consenso. Il fascismo ne ha avuti tanti: la radio, il cinema, l’architettura, il dopolavoro, il tempo libero, non lasciava spazi liberi il fascismo, proprio perché doveva costruirsi, negli anni trenta, quel consenso che gli era mancato dopo l’avvento al potere. In quegli anni il regime consolida questo consenso con argomenti naturalmente molto popolari. Il dopolavoro sicuramente fu un’innovazione, cioè l’uso del tempo libero, le vacanze, le colonie marine. Bisogna dire che il minculpop, il ministero della cultura popolare, fece un lavoro capillare. Pensiamo anche alla radio, che è stata uno strumento invasivo come la televisione oggi. In fondo molti meccanismi che sono rimasti nella programmazione televisiva sono di ispirazione fascista, non nelle intenzioni politiche, ma sicuramente nei metodi: i reality show potrebbero essere stati un’invenzione dell’epoca, cioè vedere come si sarebbe comportata gente qualunque lasciata libera in un microcosmo chiuso. Il fascismo questo cercava, il consenso, oggi si dice audience, più vasto possibile, più che la qualità. Sì, ha fatto molto per l’architettura ma ha fatto anche molti scempi: per esempio tutto il Borgo buttato giù per aprire via della Conciliazione; interi quartieri sono stati aboliti, quartieri medioevali, strade bellissime, palazzi eccezionali che furono sacrificati per questo disegno più vasto che ricollegava il nuovo impero all’antica grandezza di Roma. All’Eur, è evidente che il Colosseo quadrato è proprio dell’ispirazione alla grandezza romana.

Nel mio cinema non è che io abbia perseguito, però, percorsi urbanistici o architettonici preordinati, siccome mi sono occupato spesso di quell’epoca, che ho vissuto da bambino e poi da ragazzo, è chiaro che quella Roma per me è stata importante, come collocazione dei miei film. E poi, Roma è importante per tutto il cinema, anche se è nato a Torino, ma a Roma si è sviluppato, grazie alla grande intuizione di Cinecittà, anche quella un’altra opera del regime. «Il cinematografo è l’arma più forte» aveva detto Mussolini, proprio perché sapeva che per raccogliere audience il cinema era un’arma popolare molto forte.

FV: Diceva che Roma è la capitale del cinema…

ES: Roma si è prestata al cinema più di ogni altra città proprio perché a Roma restano allineati, come in un’esposizione postmoderna, tutti gli stili, uno accanto all’altro. A Roma in una breve passeggiata è facile incontrare le vestigia della romanità e tutto il percorso architettonico del medioevo, del rinascimento, del seicento e del settecento, il barocco, il moderno, il littorio, il postmoderno: tutti questi stili convivono, quindi è una città particolarmente ricca per il cinema. In tutti i film che ho fatto, ecco, sapevo già in quali quartieri sarebbe stata ambientata la storia, e quindi non soltanto l’architettura, ma direi tutto il modo di vivere delle grandi concentrazioni urbane dove i ceti sociali sono divisi secondo chiare catalogazioni. Ci sono i quartieri a Roma che ancora oggi si chiamano umbertini proprio perché nati dopo l’unità d’Italia, sotto il re Umberto, dove è stata usata un’architettura che si rifaceva al Piemonte, allo Juvarra, un’architettura che non era tipicamente romana ma che poi è diventata quella tipica della Roma ministeriale. In ogni quartiere c’era un tipo non solo di umanità, ma di vita diverso. La circolare rossa che percorreva tutto l’anello di Roma attraversava dieci città diverse, dieci paesi, dieci borghi. Forse la grandezza di Roma come metropoli è nata proprio da questa commistione di stili di vita, e quindi anche di culture diverse, di civiltà diverse: ogni quartiere aveva, molto più di adesso, una sua caratteristica precisa.

Ogni mio film, essendo film di ispirazione diversa, ha prescelto un quartiere: sia quelli che si riferivano all’epoca fascista, come Una giornata particolare, o un periodo ne La famiglia, oppure le leggi razziste di Concorrenza sleale, ma anche negli altri film. Ogni film nasce con un’anima di quartiere precisa. Un altro film meno fortunato che ho fatto, Mario Maria e Mario, che è un film sulla caduta del partito comunista, non poteva che svolgersi, secondo me, tra piazza Verbano e piazza Crati, cioè quei quartieri anch’essi nati in epoca fascista, che poi hanno assunto una loro caratteristica, una loro concentrazione anche di partito, perché prima anche i partiti si erano divisi le zone; c’erano i quartieri dove erano più frequenti i fascisti, altri dove erano più presenti i comunisti.

FV: La commedia all’italiana, di cui lei è stato indiscutibilmente uno dei maestri, sia come sceneggiatore che come regista, fa suo l’insegnamento del neorealismo dell’impegno a raccontare la realtà. Lei è un osservatore molto attento della città e delle sue architetture. Nei suoi film l’architettura ha una connotazione ben precisa, storica, sociale – penso, ad esempio, all’uso straordinario che riesce a fare della casa Papanice di Portoghesi in Dramma della gelosia, del 1969. Direi che, a differenza di un regista come Fellini, che inventa la sua Roma, una “città sogno” quasi sempre ricostruita in studio, lei è molto preciso nella scelta delle “scenografie reali”. È la Roma vera che lei racconta.

ES: Ma sì certo, le differenze con Fellini sono ampie, lui era un grande genio della visionarietà, del sogno, dell’iperbole, dell’espressionismo anche, e quindi la realtà doveva ricrearla, riportarla al livello di Fellini: i suoi film sono grandi anche per questo, perché appartengono tutti più al suo mondo che alla realtà. La sua è una realtà immaginata, poeticamente rivissuta e ricreata, quindi. No, io sono più figlio del neorealismo e purtroppo non sono così vicino a Fellini, ma forse più a De Sica che invece faceva una ricerca reale, realistica dentro Roma. Roma c’è, c’è tutta nei film di De Sica. Quando ho ricostruito anche io in teatro – come ne La famiglia tutto girato a Cinecittà (in un palazzo di Prati e in una stradina ridisegnati in teatro, ma molti non si sono accorti dell’artificio), o la strada di Concorrenza sleale, sempre ricostruita a Cinecittà su ispirazione di vie romane presso il Vaticano, tipo via Ottaviano – avevo come modello Roma, le strade reali in cui avrei girato. Fellini invece, quando ricostruisce, ricostruisce il mare di plastica, il Rex, ha altre esigenze, per cui il suo rifugio nel teatro è proprio necessario, connaturato alla sua ispirazione.

FV: Nel film del 1977  Una giornata particolare protagonista, al pari degli attori, è il palazzo in cui si svolge la vicenda. Trovo molto significativa la scelta del falansterio di via XXI aprile progettato da Mario De Renzi, un palazzo dalle linee moderniste, una microcittà nella città, che diventa l’immagine stessa dell’architettura del consenso.

ES: Per quanto riguarda Una giornata particolare, avevo bisogno di un “piccolo borgo” dove tutti un po’ si conoscessero, dove ci fosse vita di aggregazione. Ho scelto allora questo complesso che era un’opera del regime, destinata agli impiegati dei ministeri, agli uscieri non gli alti livelli. Una grande piazza, un grande paese con quindici scale, credo: un microcosmo, una città.

Mi interessava mostrare la vita di questa comunità, con i suoi limiti di ignoranza e i suoi guardiani, come la portiera, occhiuta vigilante della vita privata – in tutti i palazzi di Roma ogni portiere era un confidente della polizia, quindi era un personaggio temibile. […] Avevo bisogno di questo tipo di controllo a vista tra le persone che vi abitano. Lo stesso, sia pure in un’altra epoca, che ho avuto con Romanzo di un giovane povero. Anche lì avevo bisogno di una piccola comunità che si conosce tutta e che si sorveglia, con pettegolezzi, con falsi dispetti, dove ognuno ha qualcosa da mostrare e che poi invece non c’è. Protagonista è una piccola famiglia composta da una madre e un figlio disoccupato, ai limiti del bisogno, che però hanno l’obbligo del decoro, dell’apparire. Ho deciso di ambientarlo ancora in un “piccolo paese”, che ho trovato di nuovo lì in via XXI aprile.

FV: Conosceva già l’edificio, prima di sceglierlo come set del film con Mastroianni e Sophia Loren?

ES: Si perché lì c’era un cinema una volta, il XXI aprile, di seconda e terza visione, uno dei più frequentati da me che andavo spesso al cinema.

FV: Secondo lei gli abitanti  percepivano di vivere in un’architettura nuova, giudicavano questo come un fatto positivo?

ES: No, io credo che questi siano tutti giudizi e concezioni a posteriori. Quelli che ci andarono a vivere si trovarono bene, erano felici perché gli ambienti erano vasti, vi era una grande piazza al centro dove la gente si sarebbe dovuta incontrare, riunire. Non credo che lo abbiano vissuto come esperimento architettonico, questo lo escluderei; erano fieri perché andò Mussolini a inaugurarlo, fu un evento perché era un esempio, ma non di architettura fascista – non è neanche un esempio di architettura fascista –, piuttosto come esempio di vita ravvicinata con gli altri, ecco questo lo hanno percepito. Come i treni popolari o le colonie marine, erano modi di aggregare le persone, anche i meno abbienti, dando loro una coscienza di “cittadino alla pari”. Questa fu un’operazione riuscita, non c’è dubbio.

FV: Quindi in quegli anni funzionò l’intenzione di creare comunità aggreganti, come invece non hanno funzionato molti degli esperimenti di architettura sociale successivi?

ES: In quegli anni funzionò. Anche la Garbatella è un altro quartiere romano di degna architettura ancora oggi, un quartiere con sue caratteristiche originali, interessanti e sì, funzionò. Il consenso grande che nella seconda metà degli anni trenta il fascismo ha avuto è dovuto proprio alla sua politica, politica culturale, sociale e anche politica architettonica. Forse il fascismo sarebbe caduto prima se non ci fosse stato questo tipo di penetrazione per cui tutti alla fine si sentivano “lietamente fascisti”. Bisogna dire che il fascismo, sia pure nella sua esecrazione, aveva fatto delle cose per le classi meno privilegiate che funzionavano.

FV: Tornando al “neorealismo crepuscolare” di Una giornata particolare, vorrei soffermarmi su un aspetto. Il film racconta due incontri, quello storico tra i dittatori italiano e tedesco – che rimane sullo sfondo e che viene restituito solo attraverso sequenze tratte da cinegiornali dell’epoca – e quello dei due protagonisti, l’intellettuale perseguitato e la casalinga – dapprima completamente distanti, si ritrovano inaspettatamente vicini per un interminabile momento, poi si allontanano definitivamente. È come se in quel palazzo di via XXI aprile si inscenassero al tempo stesso il consenso al potere fascista e il suo contrario. In questo passaggio conta anche l’architettura, al contempo “di regime” e espressione di una progettualità modernista e innovativa, o è solo il mio sguardo di architetto e critico a vederci tutto questo?

ES: Sì un po’ credo di sì, perché la storia del film sarebbe potuta accadere anche in un altro tipo di palazzo. Quello che mi interessava restituire è questo contrasto tra il regime con i suoi fasti e le sue cerimonie e la vita familiare della donna in fondo “ridotta”, claustrofobica, misera, spiritualmente inesistente e culturalmente povera. Quella del regime non mi interessava mostrarla, anche perché era uguale dappertutto, Mussolini era stato a Monaco e più o meno le cose si erano svolte allo stesso modo, cioè con parate militari, aerei, sfilate […]. Invece volevo mostrare proprio questa piccola vita che aveva i suoi limiti di ignoranza, i suoi guardiani. Se qualcuno poi ha visto il palazzo Federici come connaturato al film va bene, ma in realtà il contrasto che mi interessava non era quello architettonico.

FV: Un altro luogo importante del film è la terrazza, anche se quella che si vede non è sul tetto del palazzo Federici…

ES: Sì è all’Istituto Eastmann in Viale Regina Margherita. Ho visto tante terrazze, quella di palazzo Federici non era interessante, mi serviva una terrazza più aperta, lì c’era un pavimento tutto a mattonelle disegnate. Le terrazze sono state certo importanti, io ho fatto un film intitolato proprio La terrazza. A Roma, come in altre città, si andavano a lavare i panni sulle terrazze, dove c’erano le fontane, e a turno vi si andava a fare il bucato perché in casa le lavatrici non c’erano. Quindi anche la terrazza era un importante segno di vita quotidiana dei piccoli borghesi romani.

FV: La vera città del fascismo è rappresentata dall’Eur (le città pontine erano piuttosto villaggi, centri di un rinnovato sistema rurale cui il regime intendeva dare vita), pensato per l’Esposizione Universale del 1942, dove mi sembra lei non abbia mai girato, ma dove si svolgono alcune scene di film da lei scritti, come Io la conoscevo bene (1965, di A. Pietrangeli) o l’episodio con protagonista Nino Manfredi de I complessi (1965, ep. di D. Risi). Secondo lei che significato ha avuto allora e che significato ha oggi l’Eur? È percepito realmente come una parte della città o è solo una scenografia retorica e metafisica, come è stato più volte definito?

ES: L’impressione è che, almeno fino a quando non interruppero i lavori, no non era una città che fosse già entrata nel contesto. Mi pare che fosse come una cosa a sé, non dico come Latina o come una città fuori Roma, ma quasi però. Era presa come un’opera di regime che non c’entrava con Roma. Poi quando invece sono stati ripresi i lavori, è stato finito, credo con le Olimpiadi, ecco allora è diventato più dentro il contesto cittadino, anche come mentalità, anche come spostamenti: prima dire “andiamo all’Eur” non capitava, era come dire “andiamo a Pontina”. Invece dopo è diventato una città vissuta. Vi ambientammo Io la conoscevo bene proprio perché all’Eur, più che famiglie radicate, con la loro tradizione, abitavano singoli, o singole, che poi a poco a poco hanno formato dei nuclei che sono rimati lì, ma non erano vecchie famiglie di tradizione come potevano esserci al San Giovanni, o anche in Prati o al Lungotevere.

FV: Anche Pier Paolo Pasolini andò ad abitare all’Eur, un quartiere che non sembra potesse essergli particolarmente congeniale…

ES: Però non era romano e, come ho detto, molti, da singoli, arrivati a Roma, andavano all’Eur. Un po’ era quello il senso che volevamo dare mettendo lì la Sandrelli in Io la conoscevo bene: una donna senza radici romane, che ne mette qualcuna in un quartiere nuovo, che poi allora era nuovissimo.

FV: Federico Fellini definiva l’Eur un set ideale: più che una città vera una città costruita a Cinecittà, una città vuota – allora questo era ancora vero – a completa disposizione del regista.

ES: Somigliava molto a una città di quelle immaginate da Federico. Anche quando immagina Mastorna, che poi non farà mai, è quella la città che gli è più vicina, non è certo un vecchio quartiere di Roma. Il vecchio quartiere c’è solo in Roma, quello della pensione in cui andò quando arrivò la prima volta in città, e gli è rimasto come sua “culla”, ma poi non si è radicato in nessun quartiere romano, si è radicato, giustamente, nella sua ispirazione.

FV: Michelangelo Antonioni vi ha girato molte scene memorabili per L’eclisse (1962) restituendone una visione esistenziale assolutamente negativa.

ES:Sì, Antonioni ci aveva aggiunto una dimensione esistenziale che forse è solo sua: è tutta sua e forse non gli è stata suggerita dal quartiere. È un quartiere che però in quanto nuovo, ma affidato a linee architettoniche in fondo “classiche”, si prestava ad ogni interpretazione, ad ogni aggiunta da parte di chi andava a viverci, come Pasolini, o ad ambientarci un film, come Antonioni o come Fellini stesso quando girò Le tentazioni del dottor Antonio. Era un ambiente aperto che poteva essere arricchito dalle intenzioni di chi vi ambientava una storia, cosa che è più difficile in via Merulana, dove per quanto tu possa intervenire come autore, però c’è una sua millenarietà, una sua tradizione, una sua conservazione che in qualche modo poi prevale, poi resta. L’Eur invece si prestava alla genesi di nuove suggestioni.

FV: Dell’Eur Dino Risi ha detto invece che “è Roma senza essere Roma”, lei condivide questa visione?

ES: No, io invece trovo che sia molto Roma. Può darsi che ora lo sia per stratificazioni mentali e temporali che ci sono state, però la sua ispirazione a Roma antica mi pare evidente, non solo per la presenza del Colosseo quadrato, ma anche nel modo di dividere la città come se prevedesse un senato, un senato romano, la presenza delle statue… A Milano l’Eur non lo vedrei così, non rappresenterebbe Milano. Mi pare che l’Eur rappresenti abbastanza Roma, un’interpretazione del XX secolo di Roma.

FV: Si dice che la Roma cinematografica sia stata inventata con La dolce vita e che lì sia finita, dopo c’è semplicemente la Roma moderna. C’è davvero una grande differenza tra la città che nel 1953 attraversavano in vespa Gregory Peck e Audrey Hepburn nel film di Wyler Vacanze romane e la Roma che percorre Moretti nel suo Caro diario quarant’anni dopo?

ES: Io credo che sia sempre difficile stabilire, anche se certe discipline debbono farlo, delle date, dei confini. A parte che anche Via Veneto Federico l’aveva rifatta tutta in teatro. Non è che cambiano le città, cambiano quelli che le attraversano. Certo, negli anni sessanta c’era la Hollywood sul Tevere, tutti gli attori americani venivano qui, oggi invece ci sono cinesi, filippini, quindi è chiaro che le città non sono contenitori neutri, contenitori assenti, ma in qualche modo assumono in sé le peculiarità di chi le attraversa. Ma Roma credo sia abituata a questo molto più di altre città, perché è sempre stata una città di passaggio. Grazie o a causa anche della chiesa, per Roma sono passati gli occupanti e i liberatori di ogni epoca. Siccome l’architettura della città determina in qualche modo anche la psicologia di chi la abita, anche la psicologia dei romani, la loro strafottenza, la tendenza all’irrisione, la vocazione al cinismo, che un po’ è inventata ma un po’ è anche vera, è dovuta a questo assistere ai passaggi di chiunque. Il romano assiste a questo “struscio”, restandone fuori, sa che comunque tutti passeranno, entreranno da destra, usciranno da sinistra, altri arriveranno, ma non modificheranno la sua propria indole, la sua propria civiltà. Questo fa assumere al romano un atteggiamento che non è di ostilità, semmai di indifferenza. Di qui anche l’accoglienza migliore degli stranieri che c’è a Roma rispetto ad altre metropoli; non è che il romano non sia razzista, ma non è intollerante, intanto perché l’intolleranza gli costerebbe fatica e quindi la vuole evitare. Così lo straniero si sente in qualche modo protetto da questa indifferenza. Ecco che architettura, storia, psicologia degli abitanti diventano alla fine tutta una cosa, un magma che si autoriproduce.

FV: L’ultimo suo sguardo sulla città è quello di Gente di Roma del 2003. Nel film ci restituisce una Roma che non è affatto malinconica, non è una città della memoria ma un luogo concreto, molto contemporaneo, colto nelle sue speranze, nelle disillusioni e nelle contraddizioni, ma anche nella sua umoralità divertita e multiculturale. Ha ancora voglia di girare un film a Roma?

ES: No, non ho voglia di girare film, basta. Quello del regista è un lavoro molto duro, anche fisicamente, da fare con totale dedizione e impiegando tutto il proprio tempo, non si riesce neanche a leggere un quotidiano quando si gira un film. Penso che sia giusto, come in tutte le professioni, arrivare alla pensione. Abbandonare l’attività e riscoprire invece il senso del tempo che il mestiere invece fa perdere. Si può riscoprire veramente il senso, il significato dell’essere padrone del proprio tempo, dei propri rapporti e quindi di cautelarne alcuni ed eliminarne altri, di dedicarsi a quello cui si è più affini; cose che io riesco a fare solo da un paio di anni.

FV: Come spiega la disaffezione della critica nei confronti dei suoi ultimi film?

ES: Non l’ho notata, anche perché non c’è mai stata una grande affezione. Come sempre ho avuto belle critiche, qualcuna bellissima, parecchie indifferenti, alcune ostili. Anche per i film più celebrati ho avuto critiche feroci, da parte di critici come Fofi, ad esempio, che ha detto peste e corna dei miei film C’eravamo tanto amati e Una giornata particolare.

FV: Ma un regista è veramente autonomo dalle critiche?

ES: Si, sennò non farebbe questo lavoro, e in più io credo che ognuno debba fare il proprio mestiere e che il critico abbia questo come compito di dire quello che pensa, anche in modo netto e duro. Io non ho mai avuto rancori verso i critici più ostili a me, anzi mi pare che facciano il loro lavoro come un regista fa il suo, ma non è che si debba regolare su quello che gli scrivono sennò non vivrebbe.

FV: Secondo lei il cinema racconta veramente la città, può essere un documento della città o è una mediazione narrativa troppo forte della realtà?

ES: Il cinema può anche raccontare una città, ma non credo che debba essere il suo scopo. Anche se si fa un film su una città, come io ho fatto, vivere solo l’intenzione di raccontare quella città non basta per un film, bisogna avere in mente una concezione di vita associata o di vita risuonata e quindi vedere la città in quale modo, in quale misura accentua l’isolamento o lo evita. Il cinema non deve raccontare una città, dovrebbe raccontare la vita, la verità dovunque essa si svolga. O sei, ripeto, come Fellini che ha una sua città ideale che racconta attraverso i film, che è una visione poetica che risponde ad altre leggi, ma se non hai quella visione e quella presunzione, devi cercare di avvicinarti alla verità, alla verità dell’uomo che è la cosa più importante. Quindi credo che il cinema sia in crisi proprio per questo, perché racconta poco l’uomo, non perché racconta poco le città.

FV: Vive mai nostalgie del tempo passato?

ES: No, minimamente, solo gioia per il tempo che adesso frutta, c’è. Prima c’era il senso che il tempo passasse senza lasciare nulla se non quello che rimaneva impresso sulla pellicola, che poi altri avrebbero visto e apprezzato o non apprezzato, ma a te non è che restasse granché…

[Fabrizio Violante]

21.1.16