Emanuele Piccardo. Il disegno non salverà l’architettura italiana

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L’Italia è un paese che fa tendenza, non nel significato di essere un esempio da seguire tutt’altro. Fa e si nutre di tendenza come la corrente manierista ideata da Aldo Rossi, appena dopo l’esperienza dell’Architettura Radicale all’inizio degli anni Settanta. Ma chi oggi fa tendenza? A leggere riviste come Viceversa del duo Mosco&Ferrando o gli sproloqui sulle pagine facebook di alcuni protagonisti, si può constatare la dimensione della variegata compagine, per provenienze e storie, che si dedica oggi al disegno piuttosto che al fare e al progettare.

Ora, la logica della crisi economica come ragione suprema dell’abbandono della pratica architettonica non regge più. La colpa è sempre degli altri, la politica, i committenti, le leggi, mai degli architetti. Indubbiamente esistono alcuni problemi oggettivi come una legislazione e una classe dirigente inadeguate ma la categoria degli architetti non fa molto per cambiare lo status quo. La proliferazione, tra generazioni diverse, del disegno come strumento alternativo allo sporcarsi le mani in cantiere è il termometro della situazione italiana completamente sterile. I nuovi gruppi che si affacciano alla ribalta (presunta) dell’architettura italiana se da una parte ripropongono modalità già viste negli anni Sessanta-Settanta, dall’altra segnalano un problema legato all’educazione universitaria, certamente non risolvibile rinchiudendosi nell’esercizio stilistico del disegno fine a se stesso, come puro compiacimento personale.

Non posso, non voglio, non mi fanno progettare allora mi ritiro nel confortevole, reazionario, disegno unico ed univoco senza nessuna connessione con un progetto di città, di vita e di società. Nessuno dei protagonisti italiani, indipendentemente dalle mostre e dai libri prodotti, riesce ad avvicinarsi alla forza, alla poesia e alle ricerche di personaggi straordinari come Price, Fuller, Soleri, Friedman, Parent, Woods, Utopie…che hanno usato il disegno come strumento per progettare.

Già lo scorso anno avevo trattato il tema nell’articolo “Il deserto del pensiero architettonico” evidenziando alcune criticità come la necessità di voler apparire e spettacolarizzare l’architettura attraverso una serie di iniziative atte a stabilire l’ennesimo cerchio magico autoreferenziale. Oggi andrebbe recuperato quello spirito che in Italia guidò nel dopoguerra personaggi come Giancarlo De Carlo a Urbino nel campus universitario e nel Villaggio Matteotti di Terni, riprendendone i pensieri e attualizzandoli. De Carlo come Fuller non sono solo esempi di sperimentatori ma anche educatori. Il vero nodo della questione è proprio l’educazione dei giovani architetti che saranno sempre più spinti a cambiare campo di azione, verso l’arte e le installazioni multimediali piuttosto che cimentarsi con l’architettura reale, fisica.

Il 2016 sarà l’anno della Biennale di Aravena dedicata alla frontiera dell’architettura intesa come capacità dell’architettura di agire in situazioni sociali al limite o se vogliamo una architettura sociale. Ma l’architettura nei suoi scopi non ha l’utilità sociale? Il tema proposto da Aravena racconta la storia dell’approccio di Elemental e di quella parte del Latinoamerica ma difficilmente, nonostante gli sforzi dei TAM (curatori del Padiglione Italia) potrà trovare riscontro nella realtà italiana, soprattutto se il nostro contesto architettonico è impegnato nell’almanacco delle figurine dei matitari italiani, eredi di Scolari, Cantafora, Dardi, D’Ardia, Rossi. Mentre noi discutiamo dei disegni, in Svizzera e America sperimentano l’uso dei robot nell’architettura come evidenzia anche la ricerca “Fabrication and Fabrication” dell’amico Amit Wolf.

Come si confronterà globalmente l’Italia con l’innovazione? Producendo gli album delle figurine?

[Emanuele Piccardo]