Lapo Gresleri. Lost in translation

Lost-in-Translation-(Sofia-Coppola,-2003)

Ci si augura che l’intento di Vincenzo Trione non fosse quello di fare del suo Effetto città. Arte/cinema/modernità (Bompiani, Milano 2014) un esauriente saggio teorico-urbanistico e culturale sull’evoluzione del concetto di “città” da fine Ottocento ai giorni nostri, quanto piuttosto un personale compendio di interpretazioni in merito. Lo si vuole sperare per cortese rispetto comunque dovuto a un lavoro durato quasi dieci anni che, a conti fatti, risulterebbe altrimenti non esaustivo e pretenzioso.

Il libro cerca di offrire un ampio sguardo sul tema attraverso arte, cinema, architettura e letteratura, forme espressive che hanno segnato e sono state segnate a loro volta dalle diverse concezioni dello spazio urbano, susseguitesi dalla seconda Rivoluzione Industriale in Europa prima e in America poi.

La realtà ha spesso influenzato l’Arte e viceversa, in particolar modo nella lettura degli aspetti sociali e culturali, interpretandone – e a volte prevedendone – i repentini cambiamenti, segni di una civiltà in costante divenire, matrice che ha caratterizzato tutto il secolo precedente e di cui la metropoli contemporanea è forse la sua massima espressione. “(…) È come un mondo rimescolato, nel quale dall’accumulo di tessere lontane ed eterogenee scaturiscono inediti rapporti, in una costante sfida al senso comune. Uno spazio smontabile, reversibile e rovesciabile, che si sottrae a ogni tipo di gerarchia. (…) In esso, ogni punto può essere collegato ad altri punti: non vi sono posizioni certe, ma solo linee di connessione” (cit.).

L’autore, attraverso le innumerevoli citazioni riportate, propone una inevitabilmente riduttiva base storico-teorica a un visual study che resta comunque poco convincente, ricco di suggestive metafore, ma non di idee, dando a più riprese la sensazione di forzature piuttosto che azzardi interpretativi. Quello che in effetti manca a Effetto città è proprio l’originalità, sia nella scelta dei riferimenti presi in esame, sia nel modo in cui essi vengono analizzati, concetti molte volte da tempo assodati dalla riflessione teorico-critica e comunque tanto generici da essere facilmente condivisibili. Questo, soprattutto, per quanto riguarda il cinema, arte “(…) che, forse meglio di ogni altra, riesce a catturare le nevrosi e le oscillazioni delle metropoli, articolandole in un ‘linguaggio universalmente comprensibile’ (…)”, talvolta, facendosi “(…) calco delle esperienze percettive” legate al tessuto urbano, altre restituendone “un’immagine ‘strutturalmente coerente con la forma architettonica’” (cit.). Nonostante la brillante definizione, quella dell’immagine in movimento risulta la disciplina più trascurata nel testo.

Certo Metropolis, Blade Runner, come Michelangelo Antonioni o Wim Wenders sono tra i film e gli autori che hanno saputo meglio leggere, secondo la propria sensibilità, il/i contesto/i urbano/i a loro coevi, trasfigurando in immagini visioni e prospettive del vivere lo spazio edificato intorno a sé, e per questo è giusto ricordarli. Ma ciò non allontana il testo di Trione da un dibattito cinematografico e architettonico che da anni usa i medesimi casi arrivando, di conseguenza, alle simili conclusioni. Era necessario dare nuovi spunti, nuovi argomenti a un discorso essenziale, esempio perfetto di dialogo tra linguaggi e discipline; e se in questo senso risultano lodevoli i paragrafi dedicati a Lola corre di Tom Tykwer o ad Empire di Andy Wahrol, purtroppo, tendenzialmente, si è preferito puntare più sull’“usato sicuro”.

Se sorprende la rapidità con cui si trattano generi quali il noir e il musical o autori come Francesco Rosi, Pier Paolo Pasolini, Roberto Rossellini, Eric Romher, Martin Scorsese, Spike Lee – dei quali sono appena citati pochi titoli – delude invece l’assenza di un cenno anche minimo a molti altri nomi. Ad esempio Woody Allen (che solo con Manhattan è riuscito a raccontare una New York vissuta “da dentro”) o il primo Vittorio De Sica (il cui pedinamento zavattinaino non era che un vagabondaggio per le strade con lo sguardo ad altezza d’uomo). E ancora Alain Resnais (con la sua visione della città come archivio a cielo aperto di una memoria condivisa in Toute la memoire du monde o Hiroshima mon amour) e più in generale la Nouvelle Vague, la Nuova Oggettività, il Documentario.

Se invece le scelte di Trione fossero state mosse da un gusto cinefilo meno autoriale e più pop (opzione discutibile, ma condivisibile), piuttosto che ai già approfonditamente discussi Batman di Tim Burton o Matrix, sarebbe stato auspicabile porre l’accento magari sulla trilogia dell’uomo-pipistrello di Christopher Nolan (e il suo dualismo urbano giorno/notte, Bene/Male). O al lungometraggio di Sofia Coppola che presta il titolo a questa recensione, film che forse meglio di altri ha saputo raccontare lo smarrimento individuale nei grandi spazi collettivi contemporanei. Lo spaesamento dei personaggi è in definitiva lo stesso provato a conclusione del volume: come su una strada conosciuta ma improvvisamente cambiata, ci si guarda attorno in cerca di un riferimento per orientarsi, una direzione che però manca.

[Lapo Gresleri]

26.7.15