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“Le Corbusier. Mesures de l’homme”, al Centre Pompidou di Parigi dal 29 aprile al 3 agosto 2015, espone le principali testimonianze di architettura, urbanistica, pittura, scultura, design, pubblicistica dell’architetto franco-svizzero, di cui ricorre quest’anno il cinquantenario della morte. Con circa trecento opere ripercorre – ventotto anni dopo la grande mostra del centenario della nascita “1887-1965, l’aventure Le Corbusier”, tenutasi sempre a Beaubourg – la sua multiforme produzione in una prospettiva genericamente “umanista”. E lo fa nell’intento di essere la prima retrospettiva d’insieme su questa figura che ha profondamente segnato l’architettura della prima metà del Novecento.
Visitando la mostra, del resto, si vede bene quanto Le Corbusier fosse, oltre che un acceso polemista, un “maestro dell’esposizione” se non della esibizione: sapiente comunicatore e promotore di se stesso negli scritti, nelle conferenze, negli allestimenti. Questa mostra però non ha molto dell’attitudine polemica del suo soggetto: non offre una rilettura orientata, né un’ipotesi forte e inedita sull’opera di Le Corbusier. Più che una esposizione critica appare una retrospettiva celebrativa. Una mostra pensata per il pubblico generalista, la quale costruisce un racconto e assembla i materiali in maniera anche efficace nella sequenza proposta, senza tuttavia far emergere momenti o temi particolari. Ad eccezione delle connessioni, su cui ci soffermeremo più avanti, tra l’architettura, da un lato, e la pittura e la scultura dall’altro. Per la sua prevedibilità, la mostra si presta quindi con difficoltà a puntuali rilievi critici. Non esiste allora un taglio dei curatori? Forse risiede proprio nella scelta di porre tutto sullo stesso piano, di riflettere la complessità del lavoro sessantennale di Le Corbusier attraverso un racconto lineare e luminoso, scivolando velocemente sulle rotture e sulle ombre che ne sono parte integrante. Privilegiare il grande pubblico non è di per sé una strategia da contestare, ma nel cinquantenario della scomparsa di Le Corbusier ci si aspettava di vedere qualcosa di più su questa figura: qualche sorpresa e non solo conferme.
Evitando ogni intenzione polemica, l’accento è posto, più che sulla visione dell’architettura e della città, sulla dimensione sensibile e corporea e sulla “misura” – metrica e antropologica – della produzione di Le Corbusier. Influenzata dal pensiero psicofisiologico e dall’estetica scientifica, la sua nozione di ”uomo in serie”, pensante e percipiente, si ricollega a quella di misura nella centralità dell’uomo, del corpo (soprattutto femminile) e delle sue membra (mani, piedi, orecchie), soggetti ricorrenti nella pittura lecorbuseriana. L’insistenza sul corpo diventa quasi ossessiva nella mostra parigina: anche sul corpo di Le Corbusier, da quello vivo ed esuberante, ritratto in numerose fotografie e filmati d’epoca, al relitto senza vita ritrovato sulla spiaggia di Roquebrune. Fino a chiedersi se Le Corbusier non abbia addirittura orchestrato la sua fine nell’agosto 1965. La presenza costante dell’umano guida il percorso espositivo che si snoda lungo dodici sezioni, a formare nel complesso una successione tematica e cronologica. Si comincia con “Ritmi e motivi” che ritraccia gli itinerari dei due viaggi di formazione, quello in Italia del 1907 e il “Voyage d’Orient” del 1911. “Purismo” mostra poi il debutto di Le Corbusier a Parigi, in particolare l’apparire nei suoi quadri di “oggetti-temi”, tracciati regolatori e geometrie semplici che porteranno alla “ricerca delle invarianti” nelle composizioni dell’inizio degli anni ’20, volte ad “architettare” lo spazio pittorico.
“Esprit Nouveau”, la terza sezione, presenta la rivista omonima fondata con Ozenfant e Paul Dermée, il cui programma editoriale, ispirato da uno degli ultimi scritti di Guillaume Apollinaire, ripropone proprio le qualità evocate dal poeta francese – “solido buonsenso”, “sicuro spirito critico”, “visione d’insieme sull’universo e sull’animo umano”(1) – che guideranno costantemente Le Corbusier. Le residenze unifamiliari (“villas”) realizzate negli anni ’20, tra cui si distinguono le case La Roche (1923-25) e Planeix (1924-28) e il progetto per la maison Loi Ribot (1923), si ritrovano nella sezione “Spazi privati”, dove si fa risaltare il loro ruolo di laboratorio per la formazione del vocabolario architettonico lecorbuseriano. Villa Savoye, momento chiave della sezione, evidenzia la traduzione concreta dei “cinque punti” del 1927 e, insieme, attraverso le prospettive interne, il lavoro sul colore e sulla luce compiuto sulle pareti destinate ad accogliere quadri contemporanei, anche dello stesso Le Corbusier.
Il rapporto con la pittura, con l’influenza duratura di artisti come Picasso e Léger, viene rivisitato soprattutto dal punto di vista della “figurazione dei corpi”. Presente fin dagli anni ’30 nel lavoro di Le Corbusier, la figura umana era già collocata dal Purismo all’apice della gerarchia nelle arti: nel periodo degli “oggetti a reazione poetica”, agli oggetti tipicamente puristi Le Corbusier cominciava infatti ad accostare corpi o parti anatomiche. Nel periodo delle “donne”, la figura femminile si fa soggetto principale della sua pittura, ormai dai colori forti e ricchi di contrasti, in opposizione a quelli del periodo purista. In Le Corbusier l’architettura non è mai disgiunta dalla pittura e dalla scultura. Negli anni ’40, il periodo cosiddetto “acustico”, con le due serie principali Ubu e Ozon, rimette in gioco la tradizione psicofisica, su cui l’architetto si è formato, e propone un concetto di acustica come sintesi dei sensi coinvolti nell’esperienza spaziale per generare, insieme, armonia. Grazie alla collaborazione con Joseph Savina, Le Corbusier riporta questi temi anche sul terreno della scultura (in legno dipinto). Dopo quelli per le case di Jean Badovici, l’affresco realizzato nel 1947 nell’atelier di rue de Sèvres rappresenta la conclusione monumentale di questo lavoro. Pur nella evidente continuità nel tempo della sua “ricerca paziente”, dopo la seconda guerra mondiale l’architettura di Le Corbusier assume direzioni inaspettate. Quasi a ripercorrere un itinerario ormai più che cinquantenario, nel 1960 egli afferma che “quando un’opera è al suo massimo di intensità, di proporzione, di qualità di esecuzione, di perfezione, si produce un fenomeno di spazio indicibile (…), uno choc che non dipende dalle dimensioni ma dalla qualità di perfezione. Si è qui nel dominio dell’ineffabile.”(2)
Questa ineffabilità non esclude che,nella evoluzione della sua opera, Le Corbusier resti comunque all’interno della dimensione dell’uomo e nella “osservazione delle sue leggi, dei suoi bisogni”.(3) Questo atteggiamento è visibile nel suo lavoro a tutte le scale: dalla piccola casa fino alla “città umanista”. Così avviene ad esempio a Chandigarh, di cui è esposto a Parigi il magnifico plastico ligneo in cui si distinguono le tre architetture del potere: il Segretariato, l’Assemblea e l’Alta corte di giustizia. Nell’ultima sezione della mostra troviamo poi l’opera più lontana da Chandigarh: il Cabanon. Progettato il 30 dicembre 1951 come regalo di compleanno per la moglie Yvonne facendo uso del modulor, è un altro esempio di come ambizione e modestia convivano sempre in Le Corbusier. Esempio del suo naturale avvicendarsi tra l’estenuata “ricerca del principe” e il lavoro minuto sui disegni su lucido; tra il progetto della città di tre milioni di abitanti e, appunto, questo del piccolo rifugio di 15 mq. Qualsiasi sia la scala, tutto è concepito e costruito da Le Corbusier con lo stesso impegno e passione.
A proposito di passione, se c’è un “homme de conviction” nell’architettura francese e internazionale del Novecento è proprio Le Corbusier. Oltre a far rilevare l’assenza di autorevoli specialisti (come Tim Benton e Jean-Louis Cohen), questa esposizione al Centre Pompidou tuttavia non fa alcun riferimento alle polemiche provocate dai libri pubblicati recentemente,(4) nei quali si cerca di consegnare un ritratto di Le Corbusier per molti aspetti diverso da quello consolidato. Non solo emblema dell’architetto demiurgo ma, come vorrebbe in particolare Xavier de Jarcy, antisemita e collaborazionista. Come in un freudiano “ritorno del rimosso”, Le Corbusier è accusato di aver frequentato a Parigi i circoli fascisti negli anni ’20; di aver collaborato dal 1930 con il leader del partito fascista rivoluzionario Pierre Winter alla rivista Plans; alla rivista Prelude con François de Pierrefeu, altra figura di collaborazionista (con cui Le Corbusier nel 1942 firma il libro La maison des hommes); di aver operato a Vichy da gennaio 1941 a luglio 1942 come consulente per l’urbanistica e di aver infine lavorato, al suo ritorno a Parigi nel 1944, con il teorico dell’eugenismo Alexis Carrel (anch’egli vicino a Pétain).
Per chi non si accosta per la prima volta alle vicende di quegli anni torbidi non si tratta certo di rivelazioni sconvolgenti, né appare strano che le biografie in questione siano state strategicamente pubblicate proprio in occasione del cinquantenario della morte di Le Corbusier. L’intreccio tra politica e architettura è una costante nei regimi autoritari o totalitari (in Francia come in Italia, Germania, URSS). L’adesione al fascismo da parte di numerosi intellettuali francesi negli anni ’30 ha tradotto tuttavia uno stato d’animo diffuso (5) e disegnato l’intero “ritratto di una generazione”.(6) A Vichy Le Corbusier non era solo: Auguste Perret, per dire, era il presidente dell’ordine degli architetti, i quali all’epoca in Francia erano in maggioranza “vichystes”, ad eccezione di alcuni socialisti e comunisti come André Lurçat. Ora, se in Italia non collocheremmo sullo stesso piano Terragni e Piacentini solo perché entrambi fascisti, sarebbe ingenuo pensare che un giudizio giustamente negativo sulla compromissione (e l’ingenuità politica) di Le Corbusier possa mettere in dubbio la sua importanza come protagonista dell’architettura del primo Novecento. In Le Corbusier, peraltro, non si ritrovano neppure i capisaldi dell’ideologia di Vichy, presenti invece in un altro protagonista della scena francese dell’epoca quale Gaston Bardet – polemista e avversario irriducibile dello stesso Le Corbusier – come l’ideologia antimoderna e antiurbana, la critica del macchinismo industriale, la visione organicista della società basata sulla famiglia come cellula primordiale. Non a caso, il maresciallo Pétain non avrà alcuna considerazione del modernista Le Corbusier, che dovrà invece attendere Eugène Claudius-Petit, ministro della ricostruzione e dell’urbanistica nell’immediato dopoguerra, e André Malraux, più tardi ministro della cultura, per vedere riconosciuto il suo contributo decisivo all’architettura francese…
[Luigi Manzione]
25.5.15
(1) G. Apollinaire, “L’esprit nouveau et les poètes”, Mercure de France, dicembre 1918.
(2) Le Corbusier, “Entretien sur le couvent de La Tourette”, L’Art sacré, n. 7-8, 1960.
(3)Jean Cassou, introduzione al catalogo Le Corbusier.Œuvres plastiques, Parigi, Musée national d’art moderne, 1953.
(4) François Chaslin, Un Corbusier, Parigi, Seuil, 2015; Xavier de Jarcy, Le Corbusier, un fascisme français, Parigi, Albin Michel, 2015; Marc Perelman, Le Corbusier, une froide vision du monde, Parigi, Michalon, 2015.
(5)René Rémond, Les Droites en France, Parigi, Aubier,1982, pp. 206-207
(6)Pascal Ory, Jean-François Sirinelli, Les intellectuels en France. De l’affaire Dreyfus à nosjours, Parigi, Perrin, 2004 (1aed. Parigi, Colin, 1987),pp. 119-143.
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