Caterina Iaquinta. Medioriente e modernità: Too Early Too late
“Cairo’s people” Hani Rashed, fotografia Emilio Sfriso Nel 1982 Straub-Huillet concludono Trop tôt, trop tard, un film-dittico impostato sulla dicotomia di immagine e parola. Qui la campagna francese (quella bretone) fa da contrappunto alla campagna egiziana (i più di mille km che collegano Alessandria ad Assouan). La narrazione è affidata alle voci fuori campo che verficano nel primo caso la geografia dei luoghi francesi, così come furono descritti da Engels in una lettera a Kautsky all’esordio della Rivoluzione Francese e nel secondo caso i luoghi delle lotte contadine in Egitto, dall’occupazione di Napoleone alla Rivoluzione del 1952, attraverso alcuni estratti da Lotta di classe in Egitto di Mahmoud Hussein. Spazio e paesaggio sono gli elementi chiave del film, non rappresentati attraverso una ricostruzione o fiction storica, quanto piuttosto ripresi per catturare e presentare un “punto topografico, strategico. Così da essere in grado di vedere qualcosa ma senza svelare il mistero di ciò che si vede…”1. Nel film infatti la topografia ricomposta dai due filmmaker si traduce in lunghe sequenze di paesaggi, francese e egiziano, in cui non è in atto nessun conflitto o lotta (narrati fuori campo da testimonianze quasi dirette del passato), ma azioni e movimenti minimi, casuali, in cui il “mistero di ciò che si vede” si svela nello scorrere del tempo, colto in una dimensione potenziale, nell’attesa che siano le cose stesse ad accadere. In Trop tôt, trop tard il punto topografico si trasforma cioè nel confine materiale di una temporalità in cui il “posizionarsi rispetto ad un campo di osservazione significa capire da dove stiamo osservando prima di poter rivendicare una presa qualsiasi (concettuale, esperienziale, spirituale) su quanto è osservato. A questo punto dello spazio coinciderà una marca precisa del tempo che consentirà di rendere percepibili i mutamenti possibili”2. È con questa considerazione che Marco Scotini, collegandosi concettualmente al lavoro di Straub-Huillet introduce la sua recente mostra Too Early Too Late. Middle East and Modernity, ospitata nella Pinacoteca di Bologna (22 Gennaio-12 Aprile 2015). La dimensione “topografica” della storia, narrata all’interno della pellicola e che rimanda alla possibilità di attenersi solo alla permanenza dei luoghi, non tanto delle geografie, restando al di fuori di un ordine cronologico progressivo, in ritardo o in attesa, troppo presto o troppo tardi, è verificata nella mostra in un’indagine sull’incontro tra Medio Oriente e modernità. Un’analisi affidata a una visione contemporanea che vede nel nuovo bipolarismo Islam e Occidente, nel conflitto tra identità nazionalistiche, religiose ed etniche e tra forme culturali arcaiche e avanzate un discrimine rappresentato proprio dall’idea di modernità insieme ad un’accezione di “Medio Oriente” inteso non in un’accezione geografica ma come oggetto teorico che si estende oggi ad est del Mediterraneo fino al Nord Africa, Caucaso e Asia Centrale. La mostra si articola in un circuito di sezioni organizzate dentro il percorso espositivo per offrire una doppia visione: una panoramica che intreccia visioni contemporanee dall’Italia e dall’Europa verso il Medio Oriente e in cui la storia di questo incontro viene assunto nelle discontinuità, riscritture e un sistema di “punti topografici” incrociati, interni ed esterni all’ordine progressivo della storia che si soffermano su scarti e vuoti temporali. La sezione precede “Taccuino Persiano”, una tappa che rimanda agli interventi di Michel Foucault per il ”Corriere della sera” all’indomani della Rivoluzione in Iran del 1979. Una ristampa del secondo articolo apparso sul quotidiano insieme alla proiezione del film First Case, Second Case di Abbas Kiarostami girato tra il 1979 e il 1981 e ricomparso solo nel 2009, si collegano tra gli altri ai lavori di Jinoos Taghizadeh che rielabora testate originali dell’epoca vicine al mondo intellettuale iraniano e a favore della Rivoluzione iraniana del 1979 con inserti visivi dall’arte moderna europea (Rock Paper Scissor, 2009) e Shadi Ghadirian che ricostruisce una serie di fotografie di ritratti in interni di abitazioni cagiare di fine Ottocento, riproducendo lo stesso set e gli stessi colori, ma aggiungendo alcuni elementi di disturbo (Qajar#18 (radio), 1998). La sezione “View of Beirut”, ben rappresentata dagli scatti fotografici di Gabriele Basilico all’indomani dei disastri della guerra del 1991, riprende il tema dell’interno domestico con elementi ricostruiti da Mona Hatoum (Bukhara (coloured), 2008) e Ariel Sclhesinger (Untitled (Burned Carpet), 2014). “Sopralluoghi in Palestina” si avvia dal recupero dal viaggio di Pasolini in Palestina alla ricerca dei luoghi per girare le scene del film Vangelo Secondo Matteo. Nella sezione sono presenti tra gli altri il video di Ayreen Anastas (Pasolini Pa*Palestine, 2005) che tenta di ripetere il viaggio di Pasolini tra il 1963-64 ma nei territori attuali, a cui si aggiungono altre derive come quelle elaborate da Kahled Jaarar (Deutsche Post Stamps, 2012) per la realizzazione di francobolli palestinesi o soprattutto la proiezione del film-documentario sul massacro di Tall El Zaatar del 1976 di Mustafa Abu Alì (Tall El Zatar, 1976), ultima copia superstite conservata dall’AAMOD di Roma e recentemente restaurata da Emily Jacir. La sezione “Cabaret Crociate”, ospitata al primo piano della Pinacoteca tra gli affreschi del gotico bolognese della chiesa di Sant’Apollonia di Mezzaratta, si ispira al lavoro di Wael Shawky alla sua recente trilogia video (Cabaret Crousades, 2012) girata in Italia e ispirata allo studio di Amin Maalouf’s The Crusades through Arab Eyes del 1984, per il quale sono state impiegate 120 marionette di circa 200 anni e appartenenti ad una famiglia italiana. “View of Beirut”, G.Basilico, M.Hatoum e A. Sclhesinger, fotografia Emilio Sfriso Le diverse visioni di questa panoramica in cui si trovano le contro-storie di un reciproco scambio e confronto tra l’Occidente moderno e il Medio Oriente, si intrecciano alla visione multifocale delle narrazioni che riguardano le prospettive interne, i racconti e le memorie personali, su cui si è disegnato questo incontro con l’Occidente e la modernità. Nella sezione “Drammaturgie mesopotamiche” l’opera fotografica di Vahap Avṣar segna in maniera paradigmatica attraverso una serie di ingrandimenti di cartoline e immagini d’archivio i controversi rapporti tra rappresentanza e rappresentazione tra l’occidente modernizzato e il Medio Oriente (Ipdal Series, 2010) a cui si aggiunge la perdita di orientamento e orizzonte con il video di Kutlug Ataman (Strange Space, 2009). Mentre il video di Canan (Fountain, 2008) porta l’attenzione sul corpo femminile superando la condizione di voyerismo occidentale e sacralizzazione orientale ma individuandone l’aspetto materno. Con “Cairo’s people” si entra nella contemporaneità, Moataz Nasr ricostruisce gli eventi di piazza Tahrir del 2011 componendo una sorta di piccolo teatro abitato da piccole statuine in ceramica le cui fattezze sono riprese dalle documentazioni fotografiche dei giorni della rivoluzione (Eshaab, 2012), mentre Ahmed Sabry prende spunto da una vicenda mediatica per lavorare sulla costruzione della notizia e la relazione ambigua tra immagine e teso che esa è in grado di produrre (The truth on Mohannad’s Death, 2012). “Types du Caucase”, l’ultima sezione della mostra, fa riferimento al centro Asia e al suo rapporto con l’area del Medio Oriente, un area i cui territori dapprima parte dell’impero Ottomano, poi dalla fine del Ottocento parte dell’Impero russo, poi nel Blocco sovietico per, dopo il crollo del muro di Berlino tra il 1989 e il 1991, ritornare a far parte della geografia del Medio Oriente. Una storia frammentata in cui sorgono continuamente i segni di questi rovesciamenti, dal video di Lida Abdul (Bricksellers of Kabul 2006) che sottolinea la condizione di esilio e rientrando nel suo paese dalle macerie ricostruisce la sua casa in Afghanistan, Alimjan Jorobaev artista kirghiso che fotografa la statua di Lenin all’inizio del 2002 mentre si svolgono riti religiosi islamici (Mirages of the communism, 2001) e Vyacheslav Akunov che filma all’inverso gli esercizi di meditazione sufi di ascensione facendo rivolgere il suo protagonista verso l’angolo qui inteso come luogo sacro e raccoglimento con se stessi (Corner 2004). Intervista a Marco Scotini Caterina Iaquinta: L’analisi del rapporto tra modernità e Medio Oriente nella mostra Too Early Too Late ci pone di fronte ad una riflessione sulla dimensione storica, progressiva o rappresentativa e critica di quello che hai affermato essere come “il vero attore della contemporaneità”, il tempo. Quali sono gli assi temporali attraverso cui hai definito il percorso espositivo e declinato questo incontro tra modernità e Medio Oriente e in che modo questi hanno inciso sulla scelta e organizzazione delle opere in mostra? Marco Scotini: Anche se parlare dell’incontro tra Oriente e Modernità dovrebbe far pensare ad un tempo più remoto, la mostra si attesta su un unico asse temporale: quello della contemporaneità. Una contemporaneità, però, attraversata costitutivamente da tempi diversi, da cose già accadute o ancora da accadere. Ho lasciato che fossero gli artisti a richiamarsi ai gap del passato, a tirare fuori documenti, materiali d’archivio ma anche promesse di futuro, linee di fuga, storie e luoghi. Con Vahap Avsar abbiamo a che fare, per esempio, con un archivio di cartoline turche degli anni Settanta, censurate con il colpo di Stato dell’83. Una, in particolare mostra un monumentale Mustafa Kemal Ataturk nelle vesti del condottiero a cavallo: l’opera è di Pietro Canonica e del 1927 e ci riporta all’ingresso del modernismo nell’ex impero Ottomanno e più ampiamente nel cosiddetto Oriente. Emily Jacir ha appena restaurato il film degli anni ’70 di Mustafa Abu Ali conservato per anni nell’AAMOD di Roma mentre Mohanad Yaqubi ha girato un documentario su questo stesso film. L’iraniana Jinoos Taghizadeh ha lavorato con i giornali della rivoluzione del ’79 e Wael Shawky sulle narrazioni delle Crociate con marionette del Settecento italiano. Kader Attia sui tempi della Grande Guerra e Lamia Joreige sul modernismo a Beirut, dagli anni ’30 in poi, visto attraverso gli occhi di sua nonna di fronte alle rovine della guerra civile. Zaatari interviene sul fotografo libanese Hashem El Madani; Anastas e Yatziv sul Pasolini e la Palestina ai tempi del suo Vangelo secondo Matteo. Shadi Gadirian allestisce abiti e set del periodo cagiaro e Ariel Schlesinger ripropone un tappeto turkmeno bombardato a Berlino sotto la II Guerra Mondiale. Ma ci sono anche i video-cellulari di Hamed Mater così come gli eventi di Piazza Tahrir e di Piazza Taksim. Dunque tempi diversi: istanze nate troppo presto (Before Before, come scrive Wiener in mostra) o eventi accaduti troppo tardi. Mai una contemporaneità compiuta, coesa, in tempo reale. Bastano le sintesi fotografiche di Jorobaev per chiarirci: nella piazza centrale di Biskek, c’è ancora la statua di Lenin ma il popolo è già inginocchiato e rivolto alla Mecca, non con un avanzamento nel tempo, piuttosto con una retrocessione al pre-comunismo. CI: Nel caso dei lavori di Roy Samaha (Transparent Evil, 2011), Amyr Yatziv (This is Jerusalem, Mr. Pasolini, 2012) Wael Shawky (Cabaret Crusades, 2012), Hani Rashed (Tahir Square, 2014) hai deciso di utilizzare le sale della Pinacoteca di Bologna che riportano gli affreschi del gotico bolognese della chiesa di Sant’Apollonia di Mezzaratta. Il confronto con la “storia” qui diventa centrale anche in relazione allo spazio museale. Quale è il significato e la funzione di questa associazione? MS: Sì, la storia qui unisce le nuove crociate (o presunte tali) alle vecchie. Non potevo trovare un set migliore. Non solo per la pittura tardogotica bolognese ma soprattutto perché queste tavole e questi affreschi sono coevi a quanto viene stabilito dal Concilio di Vienne nel 1312, nel tempo che sancisce la fine delle crociate. Allora Bologna ‘la dotta’ è con Oxford, Salamanca, Parigi e Avignone a voler aprire una scuola di lingua araba nelle università occidentali. Questo è un punto molto importante di Orientalismo, il famoso libro di Edward Said. Per me è la chiusura felice della mostra, lì dove i Sopralluoghi in Palestina di Pasolini vengono riletti da Amir Yatziv all’interno degli affreschi della scuola di Vitale da Bologna: Pasolini qui ritrova il suo maestro Roberto Longhi e l’Occidente incontra l’Oriente, la modernità si scontra invece con la sua critica radicale per non essere stata la promessa emancipativa che avrebbe voluto essere. CI: La mostra Unedited History. Iran 1960-2014 a cura di Catherine David, tra gli altri (Musèe d’Art moderne, Parigi e MAXXI, Roma) compone un dialogo tra le tappe conflittuali della modernizzazione in Iran, economica prima e culturale poi, e le molteplici forme della cultura visiva iraniana come narrazioni secondarie o contro-storiche alla base di cui c’è il concetto del “non-montato” cinematografico. Rispetto a questa posizione nei lavori presenti nella sezione “Taccuino Persiano” di Too Early Too Late, quali elementi emergono? E come hai affrontato la costruzione del punto di vista in quelli che definisci oggi essere i veri confini attuali, (quelli del tempo), “che riescono a sabotare le linee temporali di demarcazione, cercando di riaprire incessantemente le condizioni di possibilità del tempo storico”? MS: Unedited History è il nuovo capitolo di Catherine David dedicato al Medio Oriente. Fa parte di una grande ricerca cominciata da lei l’indomani della straordinaria documenta X e che ha visto diverse tappe di Tamass. Contemporary Arab Representations. Prima Beirut, poi il Cairo, poi Iraq e ora Iran. In quest’ultimo capitolo le immagini documentarie e di propaganda della rivoluzione hanno un grande ruolo, così come il Festival di Persepolis. In Too Early Too Late, questo capitolo è solo affidato alla lettura ‘a caldo’ di Foucault e di Kiarostami. Il mio scopo era diverso: mostrare in pillole una vasta area mediorientale per la prima volta ad un pubblico italiano. Nonostante tutto dietro ad entrambe le mostre c’è un’idea differente della storia, del senso della storia nel post-socialismo. Quello di Unedited History è un racconto storiografico in un senso marxista classico, lineare, molare, ecc. Io mi sono servito della metafora del vento, a partire dal film di Straub-Huillet. Dunque una storia popolata di spettri e rovine, di silenzi e di vuoti, più che di macro-eventi al passato: Benjamin e Debord sono come i suoi angeli custodi. 12.4.15 1 C. Condorelli, Parlando di rivoluzioni: troppo presto troppo tardi (Trop tôt, trop tard ) un’intervista con Jean-Marie Straub di Céline Condorelli, in Too Early Too late. Middle East and Modernity (cat. mostra), Mousse Publishing, Milano 2015, p.66. 2 M. Scotini, Il punto topografico in Too Early Too late. Middle East and Modernity (cat. mostra), Mousse Publishing, Milano 2015, p.21. 3 v. H. Redissi, Islam e modernità, in Too Early Too late. Middle East and Modernity (cat. mostra), Mousse Publishing, Milano 2015, p.43-56. Il testo è tratto estratto da H. RedissiIslam e modernità. L’incontro dell’Islam con l’Occidente, ombre corte, Roma 2014.
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