Emanuele Piccardo, Filippo Romano. In viaggio ad Arcosanti

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Emanuele Piccardo
Arcosanti, 2 giugno 2006 h 6:30 pm

Siamo arrivati. Dopo un viaggio lungo e un fuso orario di tre ore rispetto a NY e nove dall’Italia, finalmente siamo sullo Shuttle U direzione Prescott a nord di Phoenix.
Gli edifici sono marroni, la terra è dello stesso colore, scatole rettangolari, parcheggi, cactus, restaurants, motels; tutto in un colpo la banalità della città americana, la attraversiamo e ci sembra di essere nella città continua padana, stesse tipologie, stessi ammicamenti alla storia negli Outlets che simulano finti villaggi indiani.
L’aereo ha svelato che la verticalità della metropoli americana esiste solo in condizioni di scarso spazio altrimenti l’orizzontale prevale con assi viari, segni decisi nel territorio, infiniti come un cardo e un decumano contemporaneo che stabiliscono le relazioni funzionali tra le parti urbane.
Questo è il wilde-west, quello dei nativi apache, dei fuoristrada giganti, dei pick up… questo è il paesaggio americano, le cui dimensioni creano uno spaesamento geografico in noi europei, abituati a città dense e concetrate. Qui in mezzo al deserto la dispersione ne enfatizza la vastità.

Scorre il paesaggio brullo e arido dei cactus e delle rocce rossastre, in lontananza l’occhio non riesce a vedere il limite del paesaggio. In un istante mi ritornano alla memoria le fotografie di Robert Adams quando fotografa nello stato della California, anch’esso desertico, ma soprattutto l’intenso “desert seen” di Lee Friedlander tra rovi intricati e cespugli quasi a raccontare la complessità dell’agire umano.

Il bus ci lascia al distributore Chevron in prossimità del bivio per Arcosanti. Vedo, in ogni direzione in cui il mio occhio si muove, frammenti di fotografie a me note.
Il deserto è un luogo ostile dove il sole non dà tregua, la temperatura asciutta ma sopra i trenta gradi ti squaglia lentamente, sono fermo all’ombra del market del distributore di benzina. Arrivano a piccoli gruppi, singoli e coppie, la pelle colore oliva: sono i nativi americans, signori di queste terre un tempo cacciatori di bisonti ora manovali e muratori…

Arriva Dinah da Arcosanti a prenderci e imbuchiamo una strada sterrata a fianco del distributore; la macchina sussulta sul fondo sconnesso.
Arcosanti non si vede ancora, quando dietro a una curva appare un frammento dell’arco in cemento. Scendo dall’auto ma non riesco a vedere nulla, come se la città non ci fosse. Dinah ci accompagna nelle guestrooms.
E’ un edificio rettangolare ad un piano in cui l’alternanza tra i pieni e i vuoti delle pareti vetrate, affacciate sulla mesa difronte, scandisce il ritmo degli alloggi monovano con bagno annesso. L’estrema razionalità e funzionalità dello spazio ha un sussulto nella decorazione del soffitto dove Soleri si inventa, tra due plateau di cemento, una decorazione pittorica che rappresenta, attraverso l’albero verde, il passaggio dal giorno (ossia il sole a simbolo di cerchio verso l’interno dell’alloggio) alla notte (sempre il cerchio ma un quarto all’interno e il resto fuori l’alloggio nello sbalzo della copertura).
La roccia è rosso-arancio con isole verdi cespugliose che di tanto in tanto la avvolgono; la luce è forte ma non c’è sfocatura all’infinito risalgo lungo il sentiero di pietre e formelle decorate. Sento di appartenere ad un luogo particolare fuori tempo ma per questo affascinante. Soleri riesce a stupirmi: Arcosanti dal vero è decisamente un intervento riuscito. Continuo il cammino. Ora il pavimento è un nastro continuo in calcestruzzo: sono sotto l’arco giallo e rosso fatto di cemento color terra che richiama i tradizionali villaggi indiani come Canyon de Chelly, reso celebre dalle fotografie di Ansel Adams.
L’arco come un grande occhio, guarda la mesa innanzi a me; la luce disegna le superfici e definisce lo spazio, come postulava Le Corbusier. Ora mi accorgo che Wright non ha influenzato così tanto l’architetto torinese.

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Filippo Romano
Arcosanti, 4 giugno 2006 h 10:30 pm

La macchina di Dinah, una signora di mezz’età del Vermont, corre lungo uno sterrato. Una spianata brulla, un cartello che annuncia la destinazione, qualche mucca e in fondo la parte superiore dell’arco che domina sul complesso di Arcosanti. La nostra stanza è nei dormitori, un edificio ad un piano le cui camere, una accanto all’altra, ricordano certe situazioni dei motels americani, una piccola vetrata sul Canyon antistante, un tavolo inclinato come quello che avevano i nostri genitori a scuola e la cosa più preziosa, una decorazione fatta da Soleri sul soffitto di cemento, un gigantesco Cactus stilizzato su fondo marrone e bianco, disegnato in lunghezza al centro del soffitto direttamente sul cemento fresco e alle cui estremità ci sono il sole e la luna.

E’ un po’ lo spirito di quello che si vede qui ad Arcosanti, cemento misto a terra, frugale eleganza, lo spirito di Soleri. Arcosanti è difficile da definire città ma è comunque un luogo che esiste, è vissuto da una comunità di circa 70 persone, ha un senso di aggregazione del tutto particolare in quanto tutti i luoghi sono raggiungibili a piedi. Il sito sorge sul crinale di un canyon, l’ingresso è da sopra, un anfiteatro come centro, un Arco come simbolo e il Craft III come luogo di aggregazione. Il Craft III è un cubo vuoto su tre piani, il negozio con le campane, la bakery e alla base la mensa-bar, uno spazio aperto e accogliente con degli enormi finestroni rotondi che inquadrano porzioni di deserto della Mesa, l’altipiano di fronte Arcosanti. Un agorà del convivio dove passiamo le ore più calde, mangiamo e scriviamo le mail, studiamo la popolazione locale.

La nostra giornata come quella degli arcosantiani inizia presto: dalle 4:30 fino alle 6:30 del mattino fotografiamo, poiché dopo la luce e il caldo rendono il lavoro molto più difficile. Un’attesa nel caldo della giornata, oggi ha toccato i 40 gradi, durante la quale stiamo cercando di apprendere i ritmi lenti di chi vive il deserto nei periodi più torridi. La sera dalle 6:00 alle 7:30 una corsa contro il tempo con la luce che cala velocemente lasciando inghiottire Arcosanti dal buio e dai rumori più incredibili degli animali notturni: latrati e ululati dei coyote, uccelli rapaci, suoni e rumori che ben dimostrano come il deserto sia vivo e popolatissimo. Uno dei momenti più interessanti della vita di Arcosanti è il tramonto: Soleri ha ben pensato di rendere spazi di aggregazione i tetti e le coperture degli edifici che spesso sono delle gradinate, così la gente si mette sull’arco o sugli altri tetti finche non è quasi buio, qualcuno sembra pregare qualcun altro semplicemente guarda il panorama riuscendo finalmente a dedurre le forme ei luoghi che circondano Arcosanti, le stesse che di giorno la luce accecante rende ostiche allo sguardo.

Proprio in quest’occasione facciamo le prime chiacchere interessanti con un personaggio che da ieri avevamo notato; inizialmente lo avevamo soprannominato Walter Aprile per la smaccata somiglianza con il simpatico informatico amico di Mirti, questa sera l’abbiamo incontrato sopra l’arco e abbiamo rotto il ghiaccio, si chiama Ira, non sono sicuro che si scriva così. Ha vissuto quattro anni ad Arcosanti; si occupa di scrittura e ha organizzato il festival di poesia che si è tenuto per il sesto anno consecutivo qui. Ora vive a Chicago ma appena può, torna a passare qualche settimana nella “città” di Soleri. Ci racconta che tuttora segue la stesura in inglese degli scritti dell’architetto torinese, in questi giorni vive in quello che è l’appartamento di Soleri, l’ala nuova costruita in sette anni.

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Emanuele Piccardo
Arcosanti, 5 giugno 2006 h 8:45 am

Sono passati quattro giorni, il tempo si ferma nel deserto e non hai più riferimenti, abitudini, orari. Tutto viene ricondotto al grado zero del vivere in una dimensione arcaica in cui senti fortissimo il legame con la terra. Ad Arcosanti città solare fondata sul ciclo del sole, si inizia presto a lavorare, all’alba, per rinchiudersi negli alloggi a riposare appena cala la luce. Alle 11:45 am si svolge il rito dell’incontro, sotto ai due grandi archi, con gli abitanti stanziali e occasionali che occupano la città. E’ il momento delle richieste pratiche e della presentazione degli ospiti; noi chiediamo un passaggio a Prescott, distante una trentina di miglia, per noleggiare l’auto ed iniziare l’esplorazione del paesaggio americano attorno ad Arcosanti.

Sandy una signora canadese dai modi gentili si offre di accompagnarci dopo il lunch che si svolge nel Crafts III, lo straordinario spazio a tutt’altezza in cemento a vista in cui Soleri cita magistralmente alcune architetture progettate da Louis Kahn.
L’auto è bollente mentre percorriamo lo sterrato verso la Interstate 17 in direzione Prescott: 65, 70, 55 miles sono i limiti di velocità della highway che collega Phoenix al nord in direzione del Grand Canyon. Sandy abita a Calgary e canta in un coro di musica rinascimentale. Racconta che è venuta a trovare la figlia Lisa, volontaria ad Arcosanti, dove si occupa di scienze naturali.

Guardo dal finestrino acri di terreno incolti su cui campeggiano cartelli di vendita, poi appaiono quasi all’improvviso delle radure dove, sparse qua e là, si trovano le case prefabbricate in legno, sollevate da terra, affiancate dalle roulotte. Il deserto crea una dispersione tra un insediamento e l’altro e la casualità con cui le case sono posizionate sul terreno fa pensare che non esista un piano urbanistico.
Siamo a Prescott Valley, suburbio di Prescott, costruita nel 1966. E’ un susseguirsi di scatole rettangolari colorate che ben si intonano con la bicromia marrone-verde del deserto.
Chiese cattoliche simili a quelle della periferia delle nostre città, più case che luoghi di culto in cui campeggiano croci e statue benedicenti; eppoi le bandiere americane che appaiono in ogni angolo, dal distributore di benzina al motel e perfino all’incrocio tra due strade, dove due enormi bandieroni sventolano ricordandoci che siamo negli USA.

Mentre Sandy prosegue a parlare e raccontare del marito lavoratore nei pozzi petroliferi di mezzo mondo io osservo la gate community, sorta di enclave residenziale circondata da mura in cui l’accesso ai non residenti è difficoltoso, composta da case in serie tutte uguali dal colore ocra e marrone scuro. Il paesaggio ora si fa più denso, c’è una predisposizione ad occupare le zone collinari con le case dal tetto a falda e il rivestimento in mattoni, non dissimili da quelle della periferia italiana, lasciando grandi vuoti dai quartieri commerciali dove gli shopping mall riproducono la vecchia main street del West.

Finalmente arriviamo a Prescott, una fila di motels ci accolgono e fanno immaginare i tanti luoghi comuni a cui si possono associare, soprattutto con il cinema e l’immaginario che noi europei abbiamo dell’America. Di fatto il motel è lo spazio dove si dorme una sola notte durante il transito da una città all’altra, oppure dove consumare una tresca avventurosa nel buio della notte.
Raggiungiamo il centro commerciale: sembra di essere all’Outlet di Serravalle Scrivia, stessa tipologia di edifici, capiente parcheggio, aria condizionata all’interno, diventa lo spazio pubblico delle relazioni in USA in quanto all’esterno il concetto di piazza/square non esiste. Affittiamo una Dodge blu metalizzata, inizia ora, on the road, il nostro viaggio che ci porterà domani (mercoledì) a Las Vegas.

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Filippo Romano
Arcosanti, 10 giugno 2006 h 7:30 pm

La pioggia, l’aspettavamo per via dei lampi che hanno rischiarato la Mesa tutta la notte, così partiamo per Phoenix sotto un’acquazzone liberatorio per il caldo degli ultimi giorni; io alla guida, Emanuele e Matteo Di Michele, destinazione Cosanti e Dome House. Phoenix è a circa un ora di distanza, 60 miglia a sud. Ci immettiamo nel suo traffico mattutino: la città sembra un susseguirsi di centri commerciali, stores, case prefabbricate che potremmo definire della media borghesia e track houses della piccola borghesia, se queste definizioni hanno ancora un qualche significato. Sembrano tutte uguali, mi ci perderei subito se non ci fossero le marche, i brand, dei centri commerciali a fare da riferimento; potrebbe essere Silicon Valley come qualunque altro lembo di provincia sconosciuta, una situazione che paradossalmente mi ricorda Varsavia e la sua periferia: ancora negli anni del comunismo mi persi in un quartiere che si chiama Praga ma che di Praga non ha nulla, casermoni tutti uguali. Non c’erano ovviamente le marche o i cartelloni pubblicitari: casermoni comunisti indistinguibili l’uno dall’altro come gli isolati di Phoenix in cui giriamo questa mattina, anche se qui ogni casetta ha un garage, una palma o un Cactus e forse, nel retro, una piscinetta di plastica.

Scottsdale è un ricco sobborgo di villone, cactus chics e nel cui bel mezzo si trova un ‘enclave di creatività anarchica chiamata Cosanti. Soleri era venuto ad abitarci quando quì ancora non c’era anima viva, ha comprato un appezzamento e ha iniziato a costruirci le prime absidi di terra e cemento, ossessioni della sua visione archittettonica che, viste dall’alto, sembrano avere la forza organica di un rigonfiamento del terreno che un chirurgo ha diviso e asportato per metà… Nelle absidi vengono fuse le campane che sono un grosso introito della Cosanti Foundation. Ci sono le sue sculture, gli uffici della fondazione la sua piscina semicoperta e la bellissima Earth House, dove inizialmente lui abitava e dove adesso risiede Roger uno dei suoi più stretti collaboratori.

La Eart House è l’edificio che finora mi ha coinvolto di più per la sua forma circolare in cui il caminetto e quindi il fuoco è in tutti i sensi il centro della casa. Non c’è un muro dritto e liscio e tutto è poroso e “caldo”. Ma anche perchè è una casa che è scavata nella terra. Vedrei bene un edificio così in tutti quei luoghi caldi dove l’unica sede per difendersi dalla calura sono le viscere della terra, le caverne etc. Un giro veloce, Roger non si aspettava la nostra visita, tutto è in disordine e in più c’è un bellissimo pappagallo che lascia resti un po’ ovunque. Ci mettiamo d’accordo per fare le riprese lunedì prossimo.

Un hamburger allo shopping mall vicino e poi lungo una drive, forse Jackson drive, che taglia Phoenix verso nord. I cactus Saguaro ai lati della strada, mentre l’urbanizzazione della città si dissolve in qualche capannone sparso nel deserto. Questi cactus sono proprio quelli che fanno parte del nostro immaginario collettivo, sui quali vedremmo appollaiato un condor mentre un cow boy attraversa il deserto su un cavallo stanco o una diligenza corre sotto il sole cocente prima che qualcuno l’assalti. I Saguaro sono falli spinosi cresciuti nelle pietraie rosse e ocra del deserto a volte magnificamente fioriti, alti, a volte multipli come candelabri; da Phoenix fino al Messico sono una presenza costante nel paesaggio.

Cactus anche a destinazione, una strada sterrata secondaria e, come un apparizione, ci troviamo di fronte la Dome House, piccolo osservatorio astronomico senza cannocchiale, meravigliosamente piccolo, una navicella spaziale per un astronauta solitario, sceso sul paesaggio lunare del deserto intorno a Phoenix. Trasformata in alloggio ha l’aria di ripartire da un momento all’altro. Di fatto è una casa per metà scavata nella terra, un muro di pietra segna l’entrata e gli altri due a metà nella terra della collinetta. Come tetto una cupola di vetro che ruota a seconda dell’orientamento del sole. Poco distante, la casa che in Zabriskie Point Antonioni fa esplodere. Matteo ci racconta che Antonioni e Soleri si sono conosciuti e forse brevemente frequentati durante le riprese del film.

Il ritorno giusto in tempo per vedere Soleri con gli studenti del workshop ad Arcosanti: uno strano soliloquio sull’amore e l’amore per l’Arcologia a cui non segue nessun dibattito segno di uno scollamento tra chi vive ad Arcosanti e chi l’ha progettata.

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Emanuele Piccardo
Arcosanti, 11 giugno 2006 h 5.25 pm

Ieri una giornata davvero nera. Partiamo presto per Phoenix in direzione del mitico Taliesin West, il rifugio dove Wright insegnava il suo verbo ai giovani allievi, tra i quali anche Paolo Soleri.
Appena dopo 20 miglia un oggetto metallico in mezzo alla strada ci trancia una gomma; sono costretto a fermarmi al bordo. Passa un’ora e mezza prima che un arizoniano dal baffo alla Asterix e col braccio tatuato scenda dal suo pick-up bianco per aiutarmi. Nel frattempo Filippo si dirige a piedi ad una gate commnity, distante alcune miglia, per chiamare il soccorso del noleggio Avis. Il paesaggio intorno a me è brullo, non ci sono neppure i cactus, oltre una certa altitudine non crescono; un corvo disegna un cerchio sulla mia testa mentre il sole si fa sempre più cocente.

Finalmente riusciamo a ripartire. Si è fatta l’una, torniamo verso la gate community, edifici monocolore, la farmacia, il fast food dei messicani, prendiamo un hamburger e via verso la torrida piana di Phoenix. Cambiamo l’auto, all’aeroporto si chiama Malibu, ormai sono passate tre ore dall’incidente e ci dirigiamo verso il Frank Lloyd Wright Boulevard all’incrocio con la Cactus road.
Una struttura bassa di colore rosso, con le travi in legno e le tende bianche per ripararsi dal sole, è il bookshop: quaderni, libri, dvd, giochi da tavolo: ecco il merchandise della Frank Lloyd Wright Foundation che gestisce alcune strutture da lui progettate.

Taliesin si può visitare solo con il tour guidato fuori deserto, cactus e joshua tree, dentro aria condizionata, mobili e oggetti disegnati dal maestro americano. Fin da quando ero studente in architettura a Genova, avevo ammirazione per Wright; il mio primo viaggio negli USA, nel 1992 con mio padre, era stato monotematico sulle sue case di Oak Park, sobborgo residenziale di Chicago.
Ora sono qui, nel luogo che più di ogni altro lo identifica, dove ha elaborato la Brodoacre City, idea di città basata sull’uso dell’automobile, in antitesi rispetto ad Arcosanti dove le relazioni umane si svolgono percorrendola a piedi. Due mondi differenti, due idee di città diverse; muri in cemento e pietra rossa, unica analogia con il lavoro di Soleri, Taliesin d’altronde non è una città solare, anzi diventa rifugio, protezione dalla luce e dal deserto., La sua struttura è mista, di metallo e legno con vetri inclinati, a disegnare sezioni oblique degli spazi. All’esterno un certo gusto minimalista con due specchi acquei, uno triangolare e l’altro rettangolare, fanno da intermezzo alla ghiaia e all’erba. Sicuramente, se non fosse perchè qui c’è stata la scuola di Wright, Taliesin potrebbe essere percepita come una delle stesse ville wrightiane del secondo novecento.

Ogni dettaglio è progettato; gli infissi, l’intersezione tra le travi in legno e in metallo, le sedie, le fioriere, le poltrone, i mobili, le lampade incassate nel pavimento, tutto realizzato assemblando il cemento, le pietre e il legno. Taliesin diventa così per gli allievi un luogo dove guardare il deserto senza viverlo, dove rimanere concentrati sul progetto senza farsi mancare nulla, dal cinema al teatro-auditorium. Joan, la nostra guida, illustra le foto che ritraggono Wright con la moglie o da solo nello studio mentre disegna. Siamo una dozzina di persone: chi fotografa, chi prende appunti, chi ascolta…

Ritorniamo ad Arcosanti mentre gli abitanti ballano al ritmo del sound afro-americano. Siamo dentro al Juneteeh Jazz Festival che ogni anno si svolge nell’anfiteatro all’aperto. La giornata sta per terminare, le volte sono illuminate, tutti ridono, scherzano e si divertono. Anche il mio umor nero è passato: sono pronto a buttarmi anch’io nella festa.


Oggi, 11 giugno, la giornata inizia presto. Accompagno Matteo a Prescott a fare la spesa e intanto ne approfitto per fotografare lungo la strada. Passiamo per Mayer, la prima comunità vicina ad Arcosanti, scendo e inquadro con l’hasselblad il negozio delle antichità degli anni settanta, un bel edificio in mattoni rossi con le scritte bianche impresse sulla superficie. Arriviamo a Prescott, fondata nel 1864, l’unica città che possiede una piazza dove tutti i giorni c’è un mercatino di vestiti, oggetti, quadri, arte locale… ci sediamo alla creperie per la colazione.
Arriviamo da Target, una catena di distribuzione alimentare che occupa un intero capannone, dove puoi trovare dai ravioli italiani ai tv-dinner, cibi surgelati da consumare davanti ad una partita di footbal, pane, dolci secchi e fantasiose torte di panna decorate con glasse colorate: giallo, fucsia, arancio e verde. Negli scaffali i prezzi sono per le doppie razioni, incentivano il consumo alimentare ma anche energetico che produce taglie xxl fino a due o tre volte xxl. Questa è l’America!


Ritornando verso casa, incontriamo Cordes Lake, il sobborgo in prossimità dell’uscita dall’Interstate 17 per Arcosanti. Di laghi non c’è né; Matteo mi spiega che molti luoghi in Arizona hanno nel nome la parola acqua. Case ad un piano bianche, spuntate dal nulla un mese fa: il cittadino americano acquista il terreno, sceglie la casa mobile, recinta la sua proprietà e, voilà, la città si costruisce assemblando una dopo l’altra queste unità residenziali spartane, dissimili dalla tipica casa americana con veranda e sedia a dondolo. Omologano il territorio senza identità, dove la lucentezza dei cerchioni e il modello dell’auto o della roulotte sono gli unici elementi di distinzione. Niente Bucky Fuller, che cinquant’anni fa proponeva le case fatte di materiali di riciclo e ancora le splendide case mobili in alluminio. No, nulla di tutto questo. Una regressione nel processo di costruzione della città americana, dove l’individuo può costruire senza permesso come e quanto vuole.

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