Parasite 2.0. Città: rammendare le coscienze
Qualche anno fa ci siamo recati a Librino. Ora vi sottoponiamo alcune riflessioni sul quartiere. Le storie che parlano di Librino, compresa la nostra esperienza, raccontano di un quartiere inaccessibile, con limiti invalicabili, “aperto” solo al via-vai dovuto allo spaccio di droga. I due video qui riportati, raccontano in maniera semplice una situazione complessa che va ben oltre l’Architettura. Al minuto 8’33” del servizio di Report su Catania viene presentato uno spazio pubblico, un teatro all’aperto, costato quattro milioni di euro e distrutto più volte da atti vandalici. Oltre alle inaugurazioni il teatro non è mai stato utilizzato perché subito distrutto. Questo evidenzia come non sia solo una assenza di spazi progettati, di Architettura nel senso canonico del termine, ma bensì un problema culturale e sociale da risolvere con nuovi strumenti. Il secondo video, più recente, racconta la vita di alcuni ragazzi che vivono in questo quartiere evidenziando la totale assenza istituzionale e il forte ruolo delle associazioni che in questi luoghi svolgono un lavoro encomiabile, diventando catalizzatori e punti d’incontro. Siamo in sintonia con la presa di posizione critica espressa dai precedenti articoli di archphoto, condividendo che i “rammendi” sono intesi come piani mediatici attraverso l’uso di strumenti inadeguati. Però vogliamo anche spendere una parola a favore del progetto del Senatore, che ha avuto il merito di riportare al centro la questione della frammentazione delle città. Il dibattito si era dimenticato di questo problema ed i media, recentemente, hanno enfatizzato esclusivamente i fatti di cronaca. Essi ci presentano, per l’ennesima volta, periferie in guerra, contrasti razziali e crescente violenza. Per risolvere il problema delle periferie bisogna agire sul loro “disagio”, intervenire sul vuoto progettuale, l’assenza di controllo, comprendere e riflettere sulla loro condizione cronica di oggetti distaccati fisicamente e socialmente dalla città. Infatti gli insieme residenziali periferici si presentano come veri e propri corpi estranei, terre di nessuno. Questi fattori vengono costantemente strumentalizzati dai vari organi competenti, letti come negativi, quando invece, a parer nostro, potrebbero, anzi dovrebbero essere interpretati come un potenziale da liberare e utilizzare. Il progetto di Piano parla di bellezza, caratteristica arbitraria e figlia del suo tempo, quando bisognerebbe cambiare il modo di guardare questi luoghi, prima di cambiarne l’Architettura. Ci sono tre passaggi che ritroviamo assurdi nell’approccio alla questione: 1) Pensare di risolvere il problema delle periferie con gli strumenti dell’Architettura, quando non si tratta solo di un problema architettonico, ma principalmente politico. 2) Affidarsi a quella gestione politica, basata sugli stessi strumenti che hanno creato il problema, per risolverlo, senza prima cambiare totalmente se stessa. 3) Nelle logiche che stanno dietro alla città contemporanea, di cui questi “rammendi” sembrano esserne allo stesso tempo figli e promotori, espulsione e segregazione sono imprescindibili. Risolvere il problema, o per lo meno intervenire su di esso, vuol dire cambiare le modalità d’approccio alla città ripensando gli attori e i loro ruoli. L’architettura e i suoi limiti nel risolvere i problemi urbani sono ben noti al dibattito contemporaneo: abbandonare il potenziale salvifico e visionario del progetto per dedicarsi stupidamente al nuovo vestito da mettere agli edifici. L’Architettura, non cambiando atteggiamento e approccio, non può risolvere da sola il problema che ha contribuito a far nascere. Alla base della società moderna e della sua economia vi è una frattura tra le diverse entità che abitano la città, al suo interno la diseguaglianza è considerata necessaria per garantirne lo sviluppo. Proprio per questo i quartieri periferici con il loro disagio, come nel caso di Librino, sono necessari al mondo della Politica, essendo bacini di voti, acquistati a suon di buoni spesa. http://www.cataniatoday.it/cronaca/librino-elezioni-report-digos.html “Qualunque altra cosa una città possa essere, è allo stesso tempo un luogo abitato da una concentrazione di persone povere e, in molti casi, la sede del potere politico che riguarda le loro vite. Storicamente, una delle azioni che gli abitanti delle città hanno portato avanti in merito a questa dualità è manifestare, creare disordini e insorgere, o altrimenti esercitare una pressione diretta sulle autorità che tentano di occuparsi dei loro affari. Fino a che punto questi quartieri operai possono essere separati dall’area centrale della città, rimanendo un fattore diretto nelle insurrezioni è una domanda interessante.” ¹ Le politiche e le modalità di progettazione della città contemporanea hanno causato una crescita e una proliferazione di enclave chiuse ed estremamente caratterizzate socialmente. La violenza segregatrice è impressa nei primi due piani urbanistici moderni della storia, ancora mitizzati nelle nostre Accademie. L’urbanistica e la pianificazione del movimento moderno si trasformano in armi, attuando un processo di allontanamento di alcune classi sociali dalla città, di cui possiamo rintracciare la nascita in vere e proprie operazioni di pulizia urbana come i Grand Travaux di Haussmann a Parigi e il Plan Cerdà a Barcellona. Questi due esempi hanno favorito la creazione di città frammentate per diverse classi sociali e quindi di isole radicali urbane dove immaginare nuovi codici ed etiche. Paradossalmente, questi due casi diedero vita alla Comune di Parigi e all’Anarchismo catalano durante la guerra civile spagnola, dove la città viene strappata dalle mani delle classi dominanti e gestita dal basso. Se vogliamo quindi rammendare questi arcipelaghi periferici, dobbiamo immaginare una nuova visione della città, del progetto urbano e della figura dell’architetto, dimenticando molti strumenti oggi dati per assodati e vincenti, ereditati dalla pianificazione moderna. Il fallimento di Pruitt Igoe durato meno di vent’anni, è solo uno dei tanti casi di sviluppo urbano diffuso a livello planetario che ha causato un grande dibattito sintetizzato nell’affermazione di Charles Jenks sulla morte dell’architettura moderna avvenuta nel giorno dell’abbattimento di questo complesso di St. Louis. Nelle isole dei reietti, lasciate a se stesse, abbiamo visto proliferare forme di antistato, o di istituzioni spontanee dal basso, che oggi convergono verso egemonie delinquenziali. In questi luoghi il vuoto viene trasformato in potere parallelo. A Librino esistono anche i castelli, palazzi istituzionali di questo potere parallelo. E’ il caso del famoso palazzo di cemento, un mito della cronaca locale, edificio già occupato abusivamente prima che venisse terminato e roccaforte della delinquenza del quartiere e delle sue attività illecite. Pochi anni fa vantava cunicoli sotterranei, mura e fortificazioni antipolizia, arsenali e centri di produzione di denaro falso. Il film “Banlieu 13” (2014) di Pierre Morel è una chiara rappresentazione di questa condizione portata all’estremo: la periferia parigina murata totalmente e quindi fisicamente separata dalla città, si trasforma in un’isola, in un territorio illegale con proprie regole ed economie, in cui lo stato smette di esistere e di interagire. La lettura del film data da Leopold Lambert su The Funambulist parla di una visione distopica sviluppata dal regista, che però trova solide basi nella realtà, nella volontà di separare e segregare allontanando, mostrando però un carattere potenzialmente positivo, quello appunto della possibilità di trasformare il vuoto di questi luoghi in vere e proprie nuove visioni del mondo. Lo straniamento, la perdita di controllo istituzionale e dei chiari confini diventano caratteristiche fondamentali e imprescindibili di questi paesaggi ai limiti. Essi non hanno bisogno di un rifacimento del look architettonico, ma di creare una coscienza, di “diritto alla città” nel senso dato da Lefebvre al termine, intercettando un legame fondamentale e inseparabile tra la città e il cittadino, affermando che cambiare la città equivale a cambiare se stessi. Nei quartieri del “disagio” troviamo esplosioni di vitalità e libertà dalla pianificazione totalizzante. Dobbiamo vederli come delle riserve protette di “diritto alla città”. “Rimangono ancora alcuni frammenti di città e alcune tracce di campagna racchiusi tra le maglie metroplitane. Ma la vitalità risiede oramai nei cosiddetti quartieri “problema”. È un rapadosso che i luoghi pensati per essere i più inabitabili, risultino essere gli unici, in qualche modo, ancora abitati. Una vecchia baracca occupata è più vissuta di uno dei cosiddetti appartamenti di lusso dove è possibile solamente posizione l’arredo correttamente mentre si aspetta il prossimo trasloco. All’interno di molte delle odierne megalopoli, le baraccopoli sono le ultime aree vive e vivibili, e, anche, certamente, le più mortali.”² Il workshop “Radical Island Urban Movement“, che abbiamo condotto a Timisoara insieme agli studenti della UPT-Facultatea de Arhitectura, mirava alla realizzazione di un dispositivo mobile per creare un movimento urbano, una coscienza comune, conferendo nuova vita ai quartieri periferici della città. Il processo veniva attuato ribaltando il punto di vista, trasformando caratteri negativi in potenzialità positive. Un arcipelago di working class neighborhood risalenti al periodo comunista circonda Timisoara, occupando il 16% della sua superficie. Questi quartieri risultano essere il risultato visibile di una rivoluzione fallita. Attraverso le politiche di edilizia pubblica si trasformavano in strumenti politici, diventando il paesaggio in cui si manifestava il grandissimo lavoro di controllo della popolazione attuato da Ceausescu. Nella descrizione del progetto per Timisoara GREY NEIGBOURHOOD REHABILITATION (2011) dello studio FOR possiamo trovare una interessante lettura delle possibilità che questi quartieri oggi possono sprigionare. “In Romania il programma socialista di urbanizzazione ha prodotto vaste aree di “quartieri grigi” della più bassa qualità riscontrabile in Europa. Questo programma si è interrotto all’improvviso negli anni ’90, dopo aver coperto significanti parti della città, quando tutti gli appartamenti erano stati venduti ai loro occupanti. Ciò ha portato a una percentuale di proprietà del 97% lasciando la responsabilità della bassa qualità urbana degli edifici sulle spalle della popolazione abituata a ricevere tutto dallo stato, e a una improvvisa sparizione dello “stock” di case popolari(…) Crediamo fortemente comunque che ci sia un forte bisogno progettuale, e che ci sia un grande potenziale nell’usarli affichè le persone possano riconquistare la fiducia in se stessi e il sentimento di appartenenza a una comunità indipendente.”³ La condizione di vuoto dell’era post-comunista, rappresenta un territorio vergine, incontaminato, per la formulazione di una nuova visione di sviluppo urbano e sociale, che rifiuta la ormai fallimentare visione della città neoliberista. Mentre il centro storico di Timisoara, in completo rinnovamento e gentrificazione, aspira a uno sviluppo speculativo di stampo occidentale, i nuclei esterni dei grey neighborhood rimangono ancora terreni vacui, isole deserte. Questo arcipelago di quartieri è lasciato completamente a se stesso. Una popolazione abituata a ricevere tutto dallo Stato si è ritrovata ad occuparsi personalmente dello spazio pubblico, attuando modalità di autogestione e auto cura. La grande presenza di abitanti provenienti da villaggi ha creato una commistione particolare tra la vita rurale e l’habitat della nuova era pensata dal comunismo, con esempi spontanei di ruralizzazione della città. Il workshop, attraverso un dispositivo mobile low cost e una serie di semplici azioni, scollega lo studio d’architettura dallo schermo di un computer e lo porta in strada, per progettare un movimento, che partendo dai working class neighborhood riporta al centro le questioni del diritto alla città nel vuoto della metropoli contemporanea. Per lavorare sulle nostre periferie e sulla loro condizione di vuoto è necessario lavorare sulle coscienze prima che sullo spazio fisico. Necessitiamo di un movimento urbano che attui questo processo pedagogico e di presa di coscienza, di valorizzazione della condizione periferica e non di un nuovo parco, o piazza nascosta dietro il mantello della becera partecipazione, maschera molto utilizzata dagli architetti grazie alla quale sperano di investirsi di una inesistente carica etica. Se la mancanza di controllo, invece che essere sfruttata dalla criminalità, fosse incanalata per elaborare nuove forme di gestione della città, questi luoghi si trasformerebbero nel paesaggio di un esperimento senza precedenti. Sarebbero i luoghi per nuove formulazioni. Bisogna concentrarsi, prima ancora che sull’architettura di questi territori, sui processi riguardanti le persone che li abitano, mettendole in grado di poter sviluppare una coscienza collettiva critica e propositiva. Processi che siano fondati su una politica sociale di sviluppo urbano comunitario, in cui la persona, e di conseguenza il suo habitat e i suoi bisogni, siano al centro di tale trasformazione. Risolvere questo problema vuol dire cambiare la gestione istituzionale della città, vuol dire innanzitutto cambiare l’architetto, il suo bagaglio disciplinare e rammendare la coscienza di tutti questi attori fin qui citati prima ancora di rammendare il nostro territorio. “Una prospettiva che parte dall’attivare nella persona una coscienza critica, attenta a svelare le trame del proprio contesto socio-economico, per divenire coscienza trasformatrice, capace di impegnarsi personalmente e collettivamente attraverso forme di partecipazione democratica, tanto nella difesa dei propri diritti e di quelli della propria comunità, come nella promozione di un processo di giustizia e cambiamento sociale sempre più ampi e profondi, capace di incidere a livello locale ma anche nelle logiche e dinamiche globali.”⁴ Oltre al caso dei progetti di Antonio Presti, in questi anni abbiamo assistito ad una grande crescita di associazioni, attività ed iniziative dal basso all’interno del quartiere Librino. Dal progetto del Rammendo vengono quasi completamente ignorati, a parte il coinvolgimento delle realtà che ruotano intorno al Campo San Teodoro. Oltre ad Antonio Presti ed ai Briganti Librino, il Centro Talità Kum, il Comitato Librino Attivo, gli orti urbani sociali di Le Galline Felici, l’Onlus Primavera, il Centro Iqbal Masih e tanti altri. Le iniziative di questi gruppi mirano a consolidare e creare una coscienza nel quartiere per una trasformazione dall’interno. L’esistenza di queste realtà è spesso ignorata dalla cittadinanza o dal quartiere stesso. Invece che concentrarsi su un riadattamento architettonico, le istituzioni dovrebbero mettere a sistema queste iniziative, aiutarle a trasformarsi in un network, per poter essere lette come un unicum. Così facendo il quartiere sarebbe visto con occhi diversi, non solo dall’interno, ma anche dall’esterno, ribaltando completamente il punto di vista e attivando l’intera cittadinanza in un processo di trasformazione di coscienza autonomo. Parasite2.0 è un collettivo composto da Luca Marullo, Eugenio Cosentino, Stefano Colombo. http://parasitelab.tumblr.com/ (1) Eric J. Hobsbawn, “Cities and Insurrection”, Global Urban Development, Volume1,Issue1,May 2005 http://www.globalurban.org/Issue1PIMag05/Hobsbawm%20PDF.pdf (2)The Invisible Commitee, “The Coming Insurrection”, Parigi, La Fabrique, 2007 (3)FOR Office, “Grey neighbourhood Rehabilitation”, 2011 (4) Cristiano Morsolin, “Escuela viajera: dall’educazione popolare al buen vivir” http://educazionedemocratica.org/?p=2701 |