Luca Celada. Clint: l’ultimo Callaghan inceppato

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Clint entra nella stanza con quell’andatura inconfondibile da Uomo Senza Nome, appena irrigidita dagli anni, gli occhi blu ghiaccio addolciti da un sorriso all’angolo della bocca (più tardi l’occhiolino, impagabile, mentre prende in mano una copia del Manifesto per farsi fotografare). Sono passati 60 anni da quando, attore di TV pomeridiana, fu capace di reinventarsi come personaggio iconico grazie alla collaborazione romana con Sergio Leone che ricorda tuttora calorosamente. Rinomato bastian contrario con una spiccata allergia alle mode e i focus group usati dagli studios per sondare il gradimento del pubblico, Eastwood è uno che la sua strada se l’è sempre fatta da se. Nel cinema e nella politica. L’uomo che è stato Callaghan e sindaco di Carmel è stato spesso accusato di essere “di destra” ma semmai ha espresso un populismo sincero che tuttavia non é quello becero e oscurantista del Tea Party, piuttosto quello “radicale” dei seguaci ultraliberisti di Ron Paul e più di tutto affine a quello atavicamente americano dei film dell’amico e mentore Frank Capra. Clint è un “conservatore” capace di fare film contro la pena di morte (Fino a Prova Contraria) contro il razzismo (Gran Torino) e la guerra (Lettere da Iwo Jima).

In American Sniper alla guerra ci torna e alle grandi storie americane con un film feroce e complicato che farà discutere e ancora di più, farà sicuramente anche incazzare parecchia gente. È la storia di Chris Kyle cecchino dei Navy Seals, campione di kills, a lui in quattro turni di servizio in Iraq vengono attribuiti 160 nemici uccisi accertati (255 “probabili”) che, data la definizione assai elastica di “enemy combatants” nella guerra “asimmetrica”, comprendono civili, donne e bambini. Texano tutto d’un pezzo, redneck e cowboy da rodeo, dopo gli attentati all’ambasciata USA in Kenya e Tanzania Kyle parcheggia il pick-up d’ordinanza davanti all’ufficio di reclutamento e si arruola nei Navy Seals. A differenza di altri recenti rappresentazioni delle special forces della marina come quella autenticamente fascista di Act of Valor e il più puramente pornografico Lone Survivor, American Sniper è un film sull’ossessione ed i suoi costi morali. Incomparabile soprattutto per la rappresentazione della surreale normalità di una guerra “pendolare” che alterna gli orrori dell’occupazione alla monotona banalità dei turni a casa; una paradossale dissociazione per i soldati e una comoda rimozione per un paese che poi magari ne “scopre” il costo reale nei rapporti parlamentari sulla tortura.

In questo mondo il Callaghan/Achille di Clint torna dal fronte traumatizzato nel profondo – non conoscerà la catarsi del pentimento ma la patologica frattura interiore dei reduci. Grazie anche alla splendida interpretazione di Bradley Cooper, il film fotografa la sindrome traumatica che devasta decine di migliaia di reduci e a cui, nella guerra perpetua, sono destinate generazioni di veterans – compreso quello che nella realtà ha finito per porre fine alla carriera di Kyle come cecchino campione, sparandogli addosso in un poligono di tiro del Texas dove lo stava addestrando. Ne poteva esserci una fine più logicamente circolare per questo eroe/mostro campione di un America patriottica fino alla patologia. Siamo nel mondo manicheo dell’idolatria della bandiera e la fatale attrazione per le armi da fuoco che, dal Medio Oriente al commissariato di Ferguson, è così inestricabile dalla mitologia eccezionalista nazionale. Un film importante, terrificante e a tratti infuriante. Un altro ritratto americano nella galleria di Clint. Se non un mea culpa, comunque un necrologio del secolo americano.

Perché l’attrae la guerra come soggetto?

Le storie di guerra erano molto popolari quando ero ragazzo, sono cresciuto con l’immagine di Robert Taylor in Bataan, e poi tutti gli altri film dell’epoca. Erano storie memorabilia, il conflitto è la base del dramma e la guerra è il conflitto per antonomasia.

E il suo rapporto col patriottismo?

Sapete, io sono cresciuto negli anni ‘30 e ‘40. Quando è scoppiata la seconda guerra mondiale avevo 11 anni e nella mia vita ho assistito a molti mutamenti di opinione riguardo al patriottismo. Durante la seconda guerra non si discuteva nemmeno; tutti erano patriottici, a favore della Guerra “giusta” per assistere le nazioni europee. Si andava al cinema a vedere i cinegiornali sul Pacifico e l’invasione di Iwo Jima – tutte cose che mi sono ricordato quando ho fatto i film. Quindi provengo da una generazione in cui il patriottismo era articolo di fede. Però già quattro anni dopo eravamo di nuovo in azione in Corea. Ricordo di aver pensato come fosse ironico che ci avevano appena finito di dire che non ci sarebbero state più guerre e di colpo eccomi reclutato. Era il 1951 e ci chiedevamo cosa diavolo ci stessimo a fare laggiù. Col Vietnam poi se lo chiese anche un mucchio di altra gente: perché continuavamo a farlo e quando sarebbe finita una volta per tutte?

Chiaramente non ancora.

Già. Quando il paese si è imbarcato nella guerra in Iraq io ero contrario per le stesse ragioni per le quali ero stato contrario all’intervento in Corea e tutte quelle che sono seguite. Perché noi che eravamo cresciuti con la seconda Guerra conoscevamo ciò che era stata la sofferenza per il mondo intero. A un certo punto ti chiedi quale sia poi il vero fine.

E quindi, l’Iraq?

Ricordo che stavamo girando sul set di Mystic River quando hanno deciso di rimandare le truppe per la seconda volta. E mentre quando era stato Bush padre molti erano stati a favore, allora un sacco di gente era contraria. Certo Saddam non era popolare qui, ma se andiamo per antipatia dov’è che ci fermiamo, il mondo è pieno di antipatici.

Oggi cosa pensa?

La prima Guerra mondiale doveva essere quella che avrebbe messo fine a tutti i conflitti e sappiamo tutti come è andata. Ad un certo punto ti chiedi se l’umanità abbia davvero la capacità per la pace, non sembra essere nel nostro DNA. Non sembra che la storia stia dalla parte della pace, non certo almeno a giudicare dalla propensione che abbiamo ultimamente di andare ad esportare la democrazia in paesi che non ne vogliono sapere. È tragico che sia così ma credo anche che quando fai un film sulla guerra impari qualcosa su te stesso cominci davvero a riflettere sulla guerra e in definitiva sul ruolo che il tuo paese ha nelle guerre.

Kyle, il cecchino del film, impara?

Perlopiù sono altri personaggi quelli che pongono interrogativi sulla moralità della guerra mentre lui è costantemente nella posizione di giustificare il proprio operato e a furia di difenderlo arriva al punto in cui non ne è più così certo. La scena in cui alla fine dice allo psichiatra che è pronto ad affrontare il creatore senza rimpianti mostra in realtà l’esatto contrario.

E lei cosa ha imparato dalle sue esplorazioni della guerra?

Fare un film su Iwo Jima e poi rivisitarla dal punto di vista giapponese per me è stato molto interessante. All’epoca anche le truppe americane perfino i generali dei marines elogiarono la difesa dei giapponesi. Mi ha stimolato ad esplorarlo e forse è uno dei miei film più riusciti.

Potrebbe immaginare un operazione analoga su questa guerra – il punto di vista del nemico?

Non credo. Forse qualche altro regista in futuro. Bisognerebbe intanto che finisse. Ma in principio perché no. Tutto dipende dalla storia, se c’è qualcosa degli avversari che vale la pena esplorare che è interessante, allora è una storia che vale la pena raccontare.

 Ama le armi da fuoco?

Io? Credo che l’ultima vota che ho imbracciato un fucile sia stato in quella scena di Gran Torino quando dico “Get off my lawn!”. Per fortuna era caricato a salve altrimenti magari cavavo un occhio a qualcuno.

Se incontrasse oggi se stesso da giovane cosa si direbbe?

Non so. Quel ragazzo non era particolarmente sveglio. Un mezzo addormentato, forse gli direi di darsi un pò una mossa non perdere tanto tempo e darsi da fare.

[Luca Celada]

2.1.15

Questo articolo è stato pubblicato su Il Manifesto il 17.12.14.