Selene Vacchelli. Ripensare il quartiere genovese delle “lavatrici”

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Selene Vacchelli, progetto di recupero di Pegli3 a Genova

Archphoto presenta il primo di una serie di progetti dedicati alla periferia. Iniziamo con il progetto di Selene Vacchelli sul complesso di edilizia pubblica di Pegli3, nel ponente di Genova, noto come “lavatrici”. Il progetto è il risultato di una tesi di laurea della Facoltà di Architettura di Genova, relatore Brunetto De Battè, correlatore Emanuele Piccardo.

Il periodo di costruzione dei grandi complessi residenziali viene inaugurato in maniera decisiva nel dopoguerra tramite la gestione Ina-Casa ma certamente ulteriori e più sostanziali sviluppi sono individuabili nell’applicazione della L. 167/62. In tali periodi si susseguono diversi modelli di intervento che tendono progressivamente ad una dilatazione compositiva sempre maggiore, vengono sperimentati modelli fondati soprattutto sull’idea della “grande dimensione”, in cui si possono evidenziare varie tipologie, dal grande blocco residenziale dotato di servizi interni al piano urbanistico in cui sono definite le varie zone funzionali. In tutti questi grandi complessi in genere prevale il “fuori scala” accentuato dalla monotona ripetizione del modulo edilizio e dei contenitori residenziali, dalla mancanza di coesione del tessuto edilizio nel quale gli spazi aperti risultano irrisolti. Questo periodo rappresenta un momento di particolare vivacità nella ricerca di un disegno della città nuova, in particolare i grandi complessi residenziali costruiti tra il gli anni Sessanta e i Settanta, in cui vengono compiute interessanti sperimentazioni nel campo della residenza pubblica, con numerose realizzazioni dalla estrema diversificazione dei valori formali.

Questi complessi custodiscono l’idea del grande segno urbano, ma allo stesso tempo rappresentavano l’“utopia urbana” della “grande dimensione”; in molti casi purtroppo, per motivi ben diversi, ma spesso riconducibili all’incompiutezza dell’intervento – in particolare nelle parti di servizi collettivi – non è stato raggiunto l’obiettivo sperato.

Se i primi grandi complessi periferici rispondevano al problema della residenza, oggi ci si pone il problema di dotarli di servizi, e da ciò ha inizio la riqualificazione delle periferie, attraverso operazioni progettuali che tendono alla densificazione, lavorano sullo spazio urbano, sul disegno, sulla qualità. Questo accade laddove gli interventi dei Comitati degli abitanti e/o di figure professionali riescono a convincere e coinvolgere le Amministrazioni ad applicare metodologie diverse dalla demolizione con successiva ricostruzione di analoghi, ma “nuovi”, casermoni di cemento con cubature uguali se non maggiori.

Oggi questi complessi risultano essere elementi di grande interesse, nonostante le problematiche prettamente architettoniche e costruttive, in quanto molto prossimi alla città, in posizioni strategiche e dotati di una vasta quantità di spazio pubblico aperto. Proprio la riqualificazione del vuoto rappresenta un atteggiamento consueto nel recupero dell’identità delle periferie e si rivela come un approccio progettuale ricorrente rappresentato dalla riformulazione del concetto di limite e dalla promiscuità con quello di paesaggio. La riqualificazione delle periferie diviene quindi un elemento multidisciplinare in cui gli spazi aperti determinano la riqualificazione del costruito, ripensati come luoghi strategici per lo sviluppo della città nel suo complesso, come “nuove centralità” capaci di distribuire, nel tessuto periferico, una serie di polarità aggregative, che si tramutano in “grandi luoghi pubblici” della città contemporanea. Basti vedere esempi di realtà europee, come Francia, Spagna e Olanda, in cui il problema delle periferie è stato affrontato con anticipo, per individuare un ventaglio di aspetti interessanti in cui il recupero urbano pone al centro delle trasformazioni gli spazi di uso collettivo, determinando in ciascuna delle operazioni possibili la volontà di raggiungere un’alta qualità di progetto consci del fatto che sia un aspetto propulsore della riqualificazione urbana.

Nei grandi quartieri molti tentativi di riqualificazione mirano ad alterarne la regolarità, modificando tracciati viari, tagliando i corpi di fabbrica, introducendo nuove funzioni e nuovi spazi. Analizzando invece due casi simbolo italiani (il progetto dei Cantieri Isola al quartiere Garibaldi-Isola e Immaginare Corviale di ON-Osservatorio Nomade), oltre che gli interventi svolti all’interno dei quartieri casi studio presi in esame, i gruppi e gli interventi sperimentali da questi proposti, partono proprio da un punto di vista assai diverso. L’attenzione viene concentrata in primis sulla questione che ciò che è mancato alle periferie è stato innanzitutto il loro divenire comunità, l’essere riconosciute, dai cittadini di altre realtà residenziali, dalle istituzioni centrali, dai centri di potere, come detentrici di un’identità autonoma; lo scopo principale che queste metodologie di intervento si prefissano è quello di indurre maggiore consapevolezza negli abitanti del proprio territorio riguardo alle strutture in cui vivono, alla gestione delle stesse, stabilendo e migliorando le dinamiche collettive ed identitarie tra gli abitanti. In ultima battuta si mira al raggiungimento di una nuova immagine del quartiere stesso da poter contrapporre agli stereotipi che in ciascuno di noi si radicano qualora non si sia mai entrati direttamente in contatto con la realtà effettiva di questi luoghi lasciando invece spazio al dire comune, a ciò che i veicoli di informazione fanno trasparire.

Il risultato di questa analisi culmina con una riflessione sulla realtà genovese, sull’indagine delle aree 167 nel territorio ligure e più specificatamente sullo studio e l’analisi del Complesso di Pegli 3 denominato e conosciuto dall’immaginario collettivo come le Lavatrici. La scelta di quest’area è stata determinata dal fatto che anche nella realtà genovese l’attenzione ricade il più delle volte sui complessi più noti, probabilmente anche più problematici come Begato, mentre per questi quartieri, che rivendicano uguale dignità e necessità di intervento, l’assenza del dibattito politico e di possibili strategie di intervento a circa trent’anni dalla realizzazione inizia a farsi sentire. La mia proposta ricerca una maniera non demiurgica di operare nel territorio, consapevole del fatto che non bastino semplici e sporadici interventi architettonici per risolvere le problematiche presenti, e migliorare la qualità della vita. La mia vuole essere la sperimentazione di una metodologia altra di intervento che determini una possibile alternativa nei confronti di quelle che usualmente e soprattutto nel contesto italiano, vengono largamente impiegate.

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Stato di fatto del quartiere Pegli3, Genova

Analizzato l’intero complesso dal punto di vista volumetrico e spaziale, la seconda fase dello studio è consistita nel comprendere le modalità di identificazione e appropriazione degli spazi del quartiere da parte di chi lo abita. Ho compiuto questo tipo di analisi per meglio comprendere, conoscere e interpretare il modo in cui gli edifici, con la loro rigidissima struttura architettonica, e gli spazi pubblici siano stati “digeriti” dagli abitanti attraverso la realizzazione di piccole trasformazioni, che rappresentano una libera interpretazione di un modello sociale e abitativo imposto dall’alto. Questa fase è stata accompagnata ovviamente anche da frequenti incontri con gli abitanti: dai loro racconti ho meglio compreso le difficoltà strutturali nei quali vessa il complesso, la scarsa comunicazione con le Amministrazioni da cui si evince che la carenza principale del soggetto pubblico non riguarda solo le risorse economiche ma piuttosto l’incapacità di formulare con chiarezza politiche pubbliche, e il senso di comunità che esiste nel quartiere e che cittadini residenziali, istituzioni centrali, centri di potere, non riconoscono come detentrice di un’identità autonoma e distinta. Qui infatti, a differenza di altri casi studio precedentemente analizzati, non è stato necessario un intervento esterno di equipe formate da sociologi, architetti ed altre figure professionali; piccoli gruppi si sono auto-organizzati ed hanno dato vita autonomamente a tutte le Associazioni operanti nel Centro Civico, ottenendo anche importanti risultati come dimostra ad esempio l’iniziativa (poi sostenuta dal Consorzio Pianacci, Consorzio Agorà con Comune di Genova-Assessorato Progetti Culturali e Politiche per i Giovani, Municipio VII Ponente-Assessorato Servizi alla Persona, Comitato Cà Nuova, Rete Let Ponente) dei writers.

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Piante e sezioni dello stato di fatto del Quartiere Pegli3, Genova

Così si collocano anche tutte le altre iniziative che vengono esportate all’esterno del quartiere o che mirano a far convogliare la parte di cittadinanza non residente, come ad esempio l’organizzazione di mostre; al fine di far conoscere una realtà, quella reale, diversa da quella comunemente riportata dai mass-media.

Infatti gli abitanti che ho incontrato puntualizzavano quanto la realtà raccontata dai giornali, fatta di criminalità, comportamenti devianti e deviati, non é generalizzabile a tutti gli abitanti. Così come al degrado fisico degli spazi pubblici non corrisponde un uguale abbandono e degrado degli alloggi privati. Durante la fase di analisi mi sono resa conto di come ci sia una netta differenziazione tra gli edifici di proprietà privata e quelli di proprietà pubblica, non solo a livello architettonico ma soprattutto a livello relazionale e partecipativa alla vita di quartiere. Gli abitanti dei blocchi in gestione all’A.R.T.E.(Azienda Regionale Territoriale per l’Edilizia) hanno sviluppato una coesione sociale certamente più forte e solidale come dimostra la loro partecipazione alle attività del Centro Civico. Un esempio emblematico è un episodio riportatimi dagli stessi abitanti: la necessità di ripristinare il decoro di parte della piazza centrale li ha spinti a proporre ad un ragazzo in difficoltà economiche, facente parte della loro medesima comunità, la tinteggiatura delle rampe che, dal piano della strada carrabile portano al percorso di crinale, e di occuparsi della risistemazione del verde.

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Integrazione degli spazi vuoti con nuove funzioni (dispense, depositi)

Fin dall’inizio di questa tesi ho sostenuto fortemente l’infertilità di agire tramite una demolizione dei complessi per poi ricostruirli ex-novo riproponendo altrettante cubature in cemento. Sostengo bensì una metodologia di intervento che miri, attraverso piccoli elementi puntuali, ad un riuso, ad una trasformazione ed una rifunzionalizzazione dei numerosi spazi vacanti, irrisolti o mai ultimati e pertanto l’identificazione di quei luoghi all’interno del complesso capaci di poter diventare i catalizzatori di un diverso modo di vivere lo spazio aperto. Sostengo fortemente l’aberrazione del pensare il quartiere come una parte separata della città, come un organo rigettato dal sistema urbano, ma piuttosto trovare forme di complementarietà e scambio con la città consolidata. Sostengo altresì l’introduzione dei sistemi integrativi, da un lato quale risposta a cause di degrado intrinseche al progetto e all’esecuzione dello stesso, dall’altro per introdurre qualità necessarie non possedute originariamente dai manufatti, attraverso soluzioni discrete che si possano integrare ma allo stesso distinguersi, coesistere ma non sovrapporsi.

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Riappropriazione con microstrutture per diverse attività (bar, laboratori artigiani, giardinaggio)

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Risignificazione dei vuoti tra gli appartamenti con pareti mobili

La mia proposta racconta di un agire tramite piccoli interventi minuti, attraverso un sistema di micro-strutture di servizi che producano scelte reversibili attraverso i quali però poter riuscire ad articolare un nuovo sistema di spazi e relazioni sia tra gli abitanti, che tra questi e persone estranee al luogo. Perseguo la flessibilità d’uso degli spazi collettivi e la loro adattabilità a nuovi usi che emergano dalle relazioni che si instaurano tra gli abitanti. E’ vitale offrire un supporto fisico discreto nel quale questi rapporti si possano tradurre.

L’integrazione dei diversi spazi pubblici della città dipende in gran parte dal fatto che delle persone completamente estranee al posto lo percorrano e lo rendano vivo. Se lo spazio pubblico non viene utilizzato da estranei non riuscirà mai a essere integrato con il contesto. Come sostiene Giuseppe Fera in Comunità, urbanistica, partecipazione. Materiali per una pianificazione strategica comunitaria, lo spazio concreto del luogo comunitario è lo spazio pubblico: « ciò che le comunità odierne continuano a condividere è sostanzialmente lo spazio pubblico, i luoghi in cui i membri della comunità possono incontrarsi e relazionarsi ed in ultima analisi riconoscersi come comunità. Lo spazio pubblico non solo è un patrimonio indispensabile per le comunità di luogo, senza il quale non potrebbe esistere né incontro né socializzazione, esso è anche un luogo ricco di significati simbolici che trascendono gli aspetti meramente funzionali. La comunità si identifica e si riconosce nei suoi spazi collettivi e questi ultimi sono spesso il simbolo e l’immagine della comunità stessa. »

[Selene Vacchelli]

28.12.14