Luca Guido. Rammendo è più chic di toppa
Il tempestivo articolo di Emanuele Piccardo “Piano mediatico” ha messo in luce i limiti delle recenti proposte progettuali elaborate, sotto l’egida di Renzo Piano, dal gruppo di giovani progettisti denominato G124. Il tema progettuale di fondo è la periferia con i suoi variegati problemi e risorse. Il successo dell’operazione avviata da Piano appare subito evidente in termini pubblicitari e nel riscontro con la politica. Non è un caso che il governo Renzi preveda di stanziare nella prossima legge di stabilità circa 200 milioni per il “rammendo” delle periferie. Renzo Piano è un professionista capace, inoltre dimostra di muoversi con agilità per ottenere un rapido coinvolgimento dell’opinione pubblica. L’idea di rammendo urbano intercetta abilmente un certo immaginario e vocabolario salottiero. Rammendo suona certamente più chic e sartoriale del suo sinonimo popolare “toppa”. Eppure il momento è importante perché la parola periferia possa risuonare nel mondo della politica. In particolare dopo che la politica ha espulso per anni dal dibattito pubblico la riflessione sulla città contemporanea. Ci si chiede dunque se e quali rammendi possano contribuire a migliorare la qualità complessiva delle nostre città. Come evidenziato da Piccardo, le proposte del gruppo G124 per le periferie di Catania, Roma e Torino, nonostante la serietà dei propositi, non sono né tangibilmente sperimentali, né realistiche. Non si configurano come innovative poiché replicano esperimenti progettuali già intrapresi da gruppi di giovani architetti e artisti, meno noti ai media nazionali, dimenticando per giunta alcuni grandi momenti partecipativi attuati in passato sulle stesse aree prese in esame. Inoltre le proposte non si configurano come realistiche poiché si concentrano su bisogni a volte di natura estemporanea, senza cercare soluzioni sufficientemente provocatorie per nessuno dei problemi tecnologici e urbanistici delle aree analizzate. Tra i vari progetti, quello pensato per l’area occupata dall’incompleto Viadotto dei Presidenti a Nord-Est di Roma appare come il più ingenuo o forse il più fiducioso nel futuro. Viene trascurato l’isolamento territoriale in cui versa la zona e anziché valutare soluzioni rispetto alla carenza di connessioni tra quella e altre aree della capitale, si suggerisce una rivisitazione degli spazi sottostanti e sovrastanti il viadotto abbandonato. Ipotesi interessante se non fosse che non ci troviamo di fronte ad un caso simile alla High Line di New York, il parco urbano ricavato sul sedime della dismessa metropolitana sopraelevata di Manhattan. Della grande metropoli americana manca la densità urbana tale da rendere quel luogo sicuro e raggiungibile dalla gente, oltre che quella sovrapposizione e varietà di servizi pubblici e terziario assenti nella periferia romana. In aggiunta si ipotizza una funzione incapace di suggerire scenari stimolanti: un’area per passeggiate a vocazione ricreativa supportata da una pista ciclabile quando –come ha giustamente rilevato Piccardo- “dall’altra parte della strada c’è il meraviglioso parco delle Sabine tutto da ripensare”. Immaginare il viadotto quale luogo di un mercato rionale o come un percorso didattico destinato alla produzione di energia rinnovabile o più semplicemente re-immaginarlo come sede della linea di trasporto per cui era stato progettato non devono essere sembrate ipotesi valide, o forse non sono mai state prese in considerazione, optando per un déjà vu architettonico da rivista patinata. Le ipotesi di base per il sotto-viadotto sono state invece già portate a compimento durante diverse sessioni di workshop e lavori. Due container fungono da “officina” e “laboratorio” del viadotto, una pavimentazione è stata allestita riutilizzando pedane di legno, mentre fioriere e giochi per bambini sono stati ricavati sfruttando pneumatici usati. Ma perché portare nella periferia residenziale ulteriori simboli di marginalità tipici delle aree industriali? Estetica del garbage o pratica dell’objet trouvé? Niente di tutto ciò poiché manca il momento della risemantizzazione intellettuale e quello dell’introiettamento di un’estetica complessa e residuale nel progetto. Forse si tratta di filosofia del riuso? Confidando nelle buone intenzioni dei progettisti questa ipotesi appare la più probabile, ma è stata realizzata senza fantasia poiché i vecchi pneumatici, in un contesto bisognoso di una riqualificazione più radicale, rischiano di apparire come rifiuti. Lo stesso si può dire per le pedane di legno poiché, senza la necessaria sorveglianza e manutenzione, si prestano ad una rapida vandalizzazione, attivando processi simili a quelli considerati nella cosiddetta “teoria delle finestre rotte” analizzata da Philip Zimbardo. Giardini, orti sociali e didattici, pergolati, container, spazi aperti da ripensare sono le soluzioni proposte anche per le aree di Catania e Torino prese in esame. Tante piccole buone azioni -quasi un inno alla timidezza- utili a mettere in pace la coscienza più che al ripensamento di una situazione che ci ha portato dove ci troviamo oggi. Le periferie hanno bisogno innanzitutto di scelte coraggiose. Non è sufficiente confidare esclusivamente nelle doti salvifiche di interventi estemporanei ed effimeri patrocinati dagli architetti. Alle operazioni di “rammendo” suggerite da Piano e i suoi collaboratori devono seguire progetti programmatici e strutturali sia dal punto di vista dei trasporti che dei servizi, dotando le aree periferiche più problematiche di collegamenti efficienti oltre che di strutture sportive, culturali e commerciali. Rammendo dovrebbe significare soprattutto la realizzazione di tutti quei servizi che le amministrazioni, congiuntamente con gli speculatori, hanno ritenuto inutili. Il caso degli edifici già esistenti è invece una problematica più complessa ma ricca di prospettive poiché rappresenta il terreno di una battaglia da combattere. Molti degli edifici lasciatici in eredità da una precedente generazione di progettisti e politici meritano certamente di essere rottamati, riqualificati o ricostruiti. Non bisogna avere paura di affermarlo. La sfida futura non è solo sul consumo di suolo, ma sul miglioramento delle performance energetiche, tecnologiche ed estetiche di preesistenze costruite spesso troppo frettolosamente. Non basta più “aggiornare” gli spazi vuoti attorno alle grandi palazzine residenziali ai margini della città. Non mancano solo gli spazi comuni, bensì i momenti di aggregazione. Come costruire la stratificazione sociale ed urbana tipica dell’effetto città è invece la sfida della politica. Stipare migliaia di persone, con reddito simile, in quartieri dormitorio, è stata forse una rapida soluzione al problema residenziale, ma solo a prezzo di evidenti contraddizioni sul lungo periodo. Il progetto del moderno è ancora oggi incompleto. Non si tratta solo di migliorare le condizioni abitative di questo o quell’abitante ma di ripensare radicalmente il modo in cui abitiamo su questa terra. 18.12.14 |