Andrew C. Revkin. Diventare adulti in un mondo sovraffollato

Circa 30 anni fa, quando vivevo a Londra per motivi di studio, avevo l’abitudine di fermarmi ad un mercatino del libro che si svolgeva nel distretto finanziario durante la pausa pranzo. I commercianti sistemavano le loro bancarelle di cartone, tiravano fuori dalle fodere le tele e quelli più impazienti tra di noi si mettevano alla ricerca di un affare o curiosavano qua e là.
Tra i libri rilegati in pelle, sciupati dal tempo, trovai un piccolo volume di Matthew Fontaine Maury intitolato “La geografia fisica del mare”, era stato lasciato su una bancarella e, sicuramente, faceva parte di una qualche eredità letteraria. Si trattava di una guida per capitani di lungo corso pubblicata nel 1859 dalla Sampson Low, Son& Co. in cui venivano enunciate le basi dell’oceanografia e della meteorologia, facendo di Maury uno dei primi meteorologi americani.

Quel libro rimase nella mia libreria senza che nessuno lo leggesse fino al 1988, quando iniziai a scrivere una dettagliata teoria secondo la quale gli esseri umani stavano surriscaldando il pianeta, aggiungendo, alla naturale capacità della terra di trattenere il calore, l’effetto serra. L’anidride carbonica era senz’altro il risultato dell’influenza umana sul clima, l’effetto collaterale ineluttabile della combustione di carburanti e foreste. Dopo aver dato una rapida occhiata alle pagine ingiallite del libro e alle bellissime carte oceaniche pieghevoli, alla ricerca di qualcosa di interessante, mi soffermai su un passaggio che descriveva in maniera efficace e splendida i meccanismi del “guscio sferico che circonda il nostro pianeta”, come scriveva Maury. Quel libro, vecchio quasi centocinquant’anni, riesce ancora oggi ad esprimere in maniera autorevole, la necessità di trattare con rispetto l’aria che ci circonda.

Maury scrisse che l’atmosfera “si scalda e si raffredda in base ai movimenti della terra e degli esseri viventi che la popolano. Estrae i vapori dal mare e dalla terra, li controlla e li dissolve in se stessa o li sospende in serbatoi di nuvole per poi farli ricadere, sotto forma di pioggia o di rugiada, sulla terra se necessario… Ci fornisce il gas necessario a riscaldare le nostre ossa, accoglie dentro di sé ciò che è stato inquinato dall’uso e che è stato emesso sotto forma di sostanze nocive…È l’aria che circola in ogni dove che fa dell’intero mondo una grande “famiglia”. L’acido carbonico (anidride carbonica) che oggi, attraverso la nostra respirazione, riempie l’aria, un domani si farà strada nel mondo, la palma da dattero che cresce lungo il fiume Nilo lo berrà attraverso le sue foglie e le palme e le banane del Giappone lo trasformeranno in fiori. L’ossigeno che respiriamo è stato purificato per noi dalle magnolie di Susquehanna e dai grandi alberi che fiancheggiano l’Orinoco e l’Amazzonia… La pioggia che vediamo cadere è stata creata per noi dagli iceberg che hanno guardato la stella polare per millenni, assorbita dai fiori di loto grazie al Nilo e infine restituita sotto forma di vapore, di neve che riposa sulle cime delle Alpi”.

Questo linguaggio, degno di Thoureau o Leopold, fu molto ammirato, ma c’era molto altro ancora:

“Per questa ragione, secondo il saggio marinaio e lo studioso che analizza le relazioni fisiche della terra, del mare e dell’aria, l’atmosfera è qualcosa di più di un semplice oceano sconfinato, alla cui base si muove furtivamente”, sostiene Maury. “È un contenitore inesauribile in grado di adattarsi agli scopi più benevoli e generosi. È dal corretto impiego di questa macchina che dipende il benessere di ogni singola pianta, di ogni animale che si trova sulla terra; tuttavia non si può lasciare al caso la sua “gestione”, i suoi movimenti e il funzionamento delle sue attività”.

Citai Maury nel mio primo libro sul riscaldamento globale, nel lontano 1992. Da allora si è radicato il pensiero che la scienza sostenga l’idea che gli esseri umani giochino un ruolo nel riscaldamento globale. Si è arrivati ad un punto in cui volontariamente o no, gli uomini si trovano, loro malgrado, a “gestire” l’atmosfera. Nonostante il recente fermento ecologista al momento diversi scienziati, con cui sono in contatto, sostengono che non siamo preparati in maniera sufficiente per questo tipo di ruolo. Circa ogni anno immettiamo nell’atmosfera 27 miliardi di tonnellate di anidride carbonica (percentuale che cresce del 2% ogni anno), e la maggior parte delle sostanze nocive rimangono nell’aria per più di un secolo, accumulandosi come un debito.

Molti scienziati del clima sostengono che sia proprio l’uomo la causa del riscaldamento terrestre e che, sebbene sia in costante aumento e non esista una spiegazione che faccia luce su questo fenomeno e sui conseguenti cambiamenti climatici, potrebbe essere possibile gestirlo, con il rischio, in caso contrario, di andare incontro a numerose calamità. La maggior parte degli scienziati, concordano sul fatto che le emissioni senza controllo sono un rischio inaccettabile, poiché causano pericolosi cambiamenti climatici e mutamenti nelle coste difficilmente reversibili, senza contare il gravissimo danno economico.

Negli ultimi anni, durante la disputa su come fermare il surriscaldamento causato dall’uomo, si sono sentite frasi del tipo “io non c’entro! La colpa è tua”. Ci piace preoccuparci, ma poi solitamente incolpiamo qualcun altro, ad esempio le grandi multinazionali (Exxonmobil è stato un ottimo bersaglio) oppure i politici, (il presidente Bush è divenuto l’uomo immagine per molti attivisti verdi, grazie al suo scarso interessamento alla causa ecologica).
Comunque è inutile generalizzare; le multinazionali e i politici esistono perché la gente vuole fortemente i loro prodotti o semplicemente è d’accordo con i loro programmi elettorali. Nonostante le svariate teorie che gridano al complotto, nessuno ci obbliga ad acquistare macchine più grandi, televisori o case, né tanto meno a volare sempre più lontano e frequentemente, sia per lavoro sia per piacere.

Al contrario, secondo me dobbiamo affrontare la realtà, per quanto amara, invece di nasconderci dietro la paura o alla rabbia di avere un influenza globale su “quel punto celeste”, come una volta Carl Sagan descrisse la terra. Sono giunto alla conclusione, dopo avere dibattuto per circa 25 anni sulla questione del surriscaldamento terrestre e le cause principali che alimentano questo fenomeno (la crescita demografica e il fabbisogno energetico che ne deriva), che la fase turbolenta che stiamo vivendo non è tanto deplorabile quanto inevitabile.

È un po’ come succede con la pubertà. Quando fece la sua comparsa sulla terra, l’Homo sapiens, uno degli esperimenti più grandi della natura, ha avvertito la necessità di mostrare i muscoli e di attraversare una fase egoistica nella sua esuberante adolescenza. Fa parte del processo naturale di ogni giovane uomo rompere cose, bruciarle, uccidere, e a volte è naturale essere cattivo e perfino malvagio, solo se alla fine si impara che alcuni determinati comportamenti possono anche ritorcesi contro. Gli errori sono utili; sono vitali. Il progresso si basa sugli esperimenti e i loro fallimenti, ed entrambi sono conosciuti sia in natura che nel suo sottoinsieme come questioni umane.

Non mi ha sorpreso neanche il fatto che ci sia voluto così tanto tempo perché la realtà del potere del pianeta diminuisse. La scienza per secoli ci ha voluto allontanare dall’idea che fossimo noi quelli al centro dell’universo e adesso invece ci dice che siamo coloro che influenzano maggiormente la biologia e il clima del nostro pianeta.

La vera domanda è se noi, come specie, possiamo “crescere” in tempo per evitare “grosse perdite”, ma riuscirci su scala globale sarà molto più difficile rispetto al periodo di transizione degli adolescenti per diventare adulti. Un giovane può attingere al buonsenso dei genitori o uno studente a quello degli insegnanti o ancora farsi guidare dall’esperienza per sapere come poter risparmiare il denaro per i bisogni futuri, guidare con cautela anche se si è in collera, negoziare invece di combattere.

Tutto sommato, la storia non costituisce più una valida guida per cercare di plasmare i problemi globali, nazionali, locali e personali in modo tale da soddisfare, con pochi rimpianti, 9 miliardi di persone. L’economia attuale è basata sul concetto che la crescita non avrà mai fine, ma tale concetto si scontra con realtà della vita in un pianeta dove le zone di pesca negli oceani sono diminuite del 90% in mezzo secolo, dove ogni anno il territorio delle foreste tropicali disboscate equivale all’intero stato di New York e in cui l’atmosfera, al massimo entro la fine di questo secolo, conterrà il doppio dei gas serra e dell’anidride carbonica, come accadde prima che la Rivoluzione industriale raggiungesse il suo apice.

Sia la politica sia la diplomazia continuano ad agire ad un livello locale ed egoistico, proprio mentre si parla di “globalizzazione” dell’inquinamento, il commercio e lo spostamento delle popolazioni rendono i confini sempre più obsoleti. Per l’atmosfera non ha alcuna importanza se una tonnellata di anidride carbonica deriva da una ciminiera a Pechino o da un taxi a Boston. Il momento di massima espansione delle centrali a carbone cinesi, visto come la più grande minaccia all’atmosfera e al clima del pianeta, sta portando ad un’economia alimentata dalla produzione su vasta scala di prodotti volti ai consumatori occidentali.

In questo modo ci vediamo costretti non solo a dover “creare” il futuro, ma anche una nuova struttura mentale necessaria per “creare” il futuro stesso, una struttura mentale quasi completamente priva di confini, sia geografici sia temporali. Nonostante gli sforzi recenti per far si che l’uragano Katrina diventasse l’icona dei pericoli del riscaldamento globale, i rischi maggiori derivanti dai cambiamenti climatici e oceanici, causati dall’intensificazione dell’effetto serra, minacciano ancora i nostri nipoti e i nipoti dei nostri nipoti. Come disse l’economista britannico Sir. Nicholas Stern “Il veleno è nella coda”.

Le popolazioni che hanno avuto una minor influenza sull’aumento dei gas serra, si scontrano con il rischio di subire la furia di fenomeni climatici estremi, che probabilmente vengono accentuati a causa del riscaldamento globale. Gli abitanti delle aree semi desertiche vicino all’equatore, delle piccole isole e delle regioni artiche, dove il ritiro del ghiaccio marino continua ad aumentare, stanno iniziando a lamentarsi per questa iniquità e, contemporaneamente, la ricchezza e la tecnologia stanno isolando le potenze industriali mondiali dai pericoli derivanti dal clima.

La nuova struttura mentale richiederà che coloro che vivono nel cosiddetto “mondo ricco” facciano più attenzione alle aspirazioni e alle condizioni della popolazione del “mondo povero”, costretta ad un’esistenza breve e tormentata; il problema del clima, della vita selvaggia, per non parlare dello sviluppo umano. Non è possibile ottenere progressi ambientali senza prima eliminare la profonda povertà che colpisce ancora miliardi di persone lontanissime da noi e dal nostro “confortevole Nord”.

Mentre noi discutiamo su come poter affrontare la nostra dipendenza dai combustibili fossili, circa due miliardi di contadini e agricoltori nel mondo vorrebbero possedere un forno a microonde, invece raccolgono ancora legna da ardere o letame secco per cucinare in casa i pasti giornalieri su una stufa priva di canna fumaria. Tutto ciò fa si che più di 1,6 milioni di persone, perlopiù donne con loro bambini costretti a casa, muoiano giovanissimi a causa di malattie respiratorie facilmente curabili.

C’è un’immagine che mi torna spesso in mente quando rifletto sul fatto, che per alcuni demografi è ineluttabile, che raggiungeremo i 9 miliardi di individui. Nel periodo in cui mi occupavo delle foreste equatoriali, mi ritrovai a passeggiare in una strada di Manaus, capitale e centro vitale dello stato di Amazon in Brasile, dove tutti i negozi avevano un’apertura sulla via, girai un angolo e mi ritrovai all’interno di una camera mortuaria e scattai questa fotografia.

Andrew Revkin
© Andrew Revkin

In molte parti del mondo questa fotografia non suscita molto interesse. Fintantoché ci saranno le bare di ogni dimensione, dovremmo ricordarci che il cambiamento del clima è un sintomo, non la malattia, e che, per la maggior parte della popolazione mondiale, altri elementi continuano ad avere più importanza. Non è solo l’atmosfera “che fa dell’intero mondo una grande famiglia”, ma anche il miracolo, il valore universale della vita umana.

Credo fermamente che si possa vivere questa transizione, questa adolescenza e avere ancora un pianeta che “funzioni” nella maniera più giusta possibile e una “società sana”. Dopo una lunga giornata di lavoro, mi addormento sempre sentendomi pessimista, ma per qualche strana ragione, la maggior parte delle mattine mi sveglio con un sorriso.

Abbiamo molto lavoro da fare, ma dovremmo trarne piacere e non averne paura.

Andrew C. Revkin

Andrew C. Revkin si occupa di Ambiente per il New York Times dal 1995. Tra i suoi libri che hanno ricevuto diversi premi, ricordiamo The North Pole Was Here, una prima descrizione dei cambiamenti climatici che stanno avvenendo nel mondo ed in particolare nella regione Artica adatto a tutta la famiglia e “La stagione del fuoco: assassinio di Chico Mendes e la lotta per salvare l’Amazzonia” (The Burning Season). Revkin è stato premiato con i maggiori riconoscimenti del giornalismo scientifico, non solo per i suoi articoli ma anche per le fotografie e la realizzazione nel 2005 del documentario “Arctic Rush” per Discovery-Times.
Molte delle sue opere possono essere reperite on line www.nytimes.com/revkin.

traduzione di Elda Baldi con Alessia Tenerani

© Andrew Revkin-New York Times