Luigi Manzione. Architettura di seconda mano
La mostra Matière grise. Matériaux/réemploi/architecture, in corso al Pavillon de l’Arsenal a Parigi (fino al 4 gennaio 2015), curata da Nicola Delon e Julien Choppin, è un invito a consumare più materia grigia per consumare meno materie prime. Costruire nuovi edifici a partire da quelli esistenti, in rovina o da riutilizzare, in certi casi depredare, non è certo una novità. È inedita invece l’ambizione di coinvolgere l’intelligenza collettiva nel ripensare le modalità costruttive e i materiali dell’architettura. Settantacinque progetti, quasi tutti realizzati, illustrano le possibilità di dare nuova vita all’architettura, di materializzare architetture di seconda mano. Al di là delle teorizzazioni, spesso epidermiche, sembrano qui congiungersi in concreto alcuni temi disciplinari emergenti: la necessità di un approccio etico che non annulli l’intenzione formale (non per forza “less aesthetics more ethics”, per intenderci); un’autentica consapevolezza ambientale, aldilà di una certa mistica della sostenibilità, ridotta a giustificazione di scelte che nell’insieme hanno ben poco di sostenibile; il rapporto con il contesto; il “grado zero”. Prima di aggirarsi tra i progetti esposti, è interessante dare uno sguardo al grafico della (presunta) scomparsa delle materie prime. Le date sono pericolosamente vicine. Solo per citare i materiali impiegati nell’edilizia: 2025 zinco; 2030 piombo; 2039 rame; 2087 ferro. Il XXI secolo potrebbe essere quindi la frontiera temporale definitiva tra uso e riuso delle materie in architettura. Recuperare e riutilizzare non è soltanto una moda, ma diventerà sempre più una necessità globale. Non solo per astratte future generazioni ma anche per la nostra e per quella dei nostri figli. Insomma un imperativo etico e insieme utilitaristico. Queste premesse ci faranno soccombere alla rinuncia e al compromesso? Non necessariamente: la prima sorpresa, percorrendo la mostra, è che l’uso di materiali di riciclo non produce solo risultati tecnologicamente corretti ma poveri dal punto di vista architettonico. I progetti scelti dimostrano infatti che è possibile concepire e realizzare architetture tout court, alcune anche di notevole bellezza, utilizzando strutture e materiali provenienti da edifici risalenti ad epoche e localizzazioni geografiche remote o da tipologie del tutto diverse. Nella Ecole nomade (1957) a Villejuif e nella sua casa a Nancy (1954), Jean Prouvé già recuperava frammenti di abitazioni provvisorie. Negli stessi anni, Le Corbusier reimpiegava le pietre di un’antica cappella distrutta durante la seconda guerra per erigere i muri bianchi di Notre Dame du Haut (1950-55) a Ronchamp. Tra gli esempi paradigmatici di riuso nell’ultimo quindicennio troviamo Lieu Unique di Patrick Bouchain (Nantes, 1999). Presente sulla scena artistica francese (collaborazioni con Daniel Buren, Ange Leccia, Joseph Kosuth, Claes Oldenburg e altri) e pioniere dalla metà degli anni ’80 del Novecento della riconversione di edifici dismessi in spazi culturali, Bouchain veicola un’idea di “architecture H.Q.H. (Haute Qualité Humaine)”. Nell’intento di restituire umiltà e intelligenza all’architettura contemporanea, Bouchain opera a stretto contatto con abitanti e utilizzatori e nel rispetto di budget spesso limitatissimi. Il Lieu Unique, riconversione della vecchia fabbrica di biscotti simbolo di Nantes, è concepito come una “baracca di cantiere aperta al pubblico”, dove il cantiere diventa appunto un “atto culturale” che coinvolge utente, progettista, costruttore e imprese in un processo aperto in cui si trasforma anche la relazione con il lavoro e con l’economia. Il recupero di materiali rifiutati o dismessi da altri cantieri (finestre, pannelli di vetro, rivestimenti, etc.), richiedenti peraltro una limitata manutenzione nel tempo, permette un risparmio notevole di denaro, che può essere destinato alle attività culturali da programmare. Lucy Carpet House, Rural studio, Mason’s Bend, Alabama 2002 Oggi il riuso consente di ripensare dalle fondamenta (reali e metaforiche) i modi della costruzione, le sue tecniche e i suoi materiali, da quelli più tradizionali e diffusi a quelli più improbabili ed esotici. È possibile infatti alzare un muro con pile di quadrotte di moquette pressate una sull’altra, come nella Lucy Carpet House (Mason’s Bend, Alabama, 2002) di Rural Studio. Riviste di recupero possono servire per partizioni interne nella sede dell’agenzia di stampa Oktavilla (Stoccolma, 2009) di Elding Oscarson. Ci sono poi esempi di come si possa fare architettura di seconda mano senza doversi imporre un’aprioristica economia di mezzi espressivi: Europa, la sede del Consiglio dell’unione europea a Bruxelles (conclusione lavori 2015) progettata da Philippe Samyn&Partners, si caratterizza proprio per una brillante facciata composta da vecchie finestre in legno di quercia recuperate in ciascuno degli stati membri. Skow Residence, DesignBuildBLUFF, Riserva Navajo, Utah 2013 I vantaggi del reimpiego delle materie prime e dei manufatti sono molteplici: da un lato la possibilità di utilizzare materiali che, nuovi, costerebbero infinitamente di più; dall’altro la libertà di smarcarsi dalla rigida disciplina del disegno esecutivo, lasciando spazio ad una fertile improvvisazione. Improvvisazione che si sviluppa dialogicamente sul cantiere e produce spesso un arricchimento non solo formale ma anche funzionale dell’architettura. È il caso dello Skow Residence di DesignBuildBLUFF (Riserva Navajo, Utah, USA, 2013), dove gli studenti hanno scelto di invertire l’orientamento delle falde del tetto rispetto alla soluzione prevista nel kit di questa casa prefabbricata, adattandola al clima desertico in cui è collocata e per il quale era del tutto inadeguata. Il recupero non comporta solo una “economia circolare” degli edifici, ma può contribuire anche a definirne l’economia espressiva. In questo senso, abbiamo esempi di ricicli poetici come il Galileo’s Pavilion di Studio 804 (Overland Park, KS, USA, 2012) dove le facciate dello spazio didattico sono realizzate con lavagne di ardesia provenienti da diverse scuole del Midwest. Ancora più incisivo il progetto di Villa Welpeloo di Superuse Studios (Enschede, Paesi Bassi, 2009), sorta di manifesto del riuso a 360 gradi, dove la struttura portante è realizzata con profili in acciaio rilevati da una macchina per la produzione tessile, mentre le facciate principali sono costituite da legno utilizzato per produrre truciolato o come combustibile. dnA House, BLAF Architecten, Asse, Belgio 2013 Ritroviamo inoltre rovine intelligenti, come la dnA House di BLAF Architecten (Asse, Belgio, 2013), nella periferia residenziale di Bruxelles, costruita con mattoni di recupero. Ma anche rovine poetiche come il museo di storia (Ningbo, Cina, 2013) di Wang Shu-Amateur Architecture Studio: tra i migliori progetti esposti, questo “atto di riparazione architettonica” è stato costruito con pietre e mattoni provenienti dalla demolizione di una trentina di villaggi circondati da risaie. Nello stesso ordine d’idee, Apartment No. 1 di AbCT-Architecture by Collective Terrain (Mahallat, Iran, 2011) è un altro edificio contemporaneo che, sul presupposto della sostenibilità, si ricollega alla tradizione locale recuperando materiali in situ. Mahallat è una città dell’Iran centrale, la cui economia è basata principalmente sul settore lapideo. Per l’inefficienza dei processi di taglio, più della metà della produzione viene scartata. Il progetto di AbCT recupera i residui di produzione per realizzare muri esterni e pareti interne, mostrando come sia realmente possibile contribuire a preservare risorse naturali in modo creativo, riducendo anche in questo caso i costi in misura significativa. Apartment No. 1, AbCT-Architecture, Mahallat, Iran 2011 Il campo del recupero in vista della ri-produzione dell’architettura si estende anche ai manufatti infrastrutturali (strutture stradali e ferroviarie, ponti, etc.): si veda la Big Dig House di SsD Architecture (Lexington, MA, 2006),13 il cui sistema strutturale in acciaio e cemento si compone dei frammenti – o meglio dei rifiuti – delle parti in elevazione della dismessa “Interstate 93” highway di Boston, scartati dal Big Dig che ha riconvertito la I-93 in tunnel. Grazie alle notevoli caratteristiche di resistenza, gli scarti dell’autostrada urbana vengono reimpiegati alla stregua di un sistema prefabbricato, accogliendo l’addizione di scale esterne e di grandi giardini pensili. Nella stessa logica di riuso, parti provenienti da infrastrutture dismesse possono rivivere a scala maggiore, nel progetto di spazi pubblici o di edifici comunitari quali biblioteche, scuole, housing, anche qui con una notevole economia di risorse, energia e denaro. Il riciclo non si limita quindi all’architettura che genera architettura, in un processo circolare tendenzialmente infinito, ma si estende al paesaggio. Produttività, riuso e paesaggio si conciliano infatti in Storage Barn, un deposito-officina progettato da Gray Organschi Architecture (Washington, 2009).Collocato in una zona tutelata che impone restrizioni di altezza, il manufatto è dotato di un sistema di scaffalature esterne per lo stoccaggio dei materiali (legno e pietra) imballati e pallettizzati, evitandone così la dispersione disordinata sul terreno. Come evidenziato dai settantacinque progetti esposti e dai tredici testi che compongono il catalogo della mostra, “reimpiegare” è diverso da “riciclare”: è l’utilizzazione nuova di un materiale esistente, senza che ciò comporti una radicale trasformazione della sua forma, ma un’eventuale differenziazione della sua funzione originaria. Una strategia apparentemente modesta che tuttavia può produrre, per accumulazioni e sviluppi successivi, esiti imprevedibili nelle loro potenzialità. La scommessa di questa mostra al Pavillon de l’Arsenal non è allora di poco conto: porre l’“atto di costruire” come questione chiave in grado di far evolvere l’architettura e ricollocare l’architetto al centro del ciclo della materia, ripensando l’invenzione nel coinvolgimento dell’insieme dei processi e delle figure della costruzione. È arrivato insomma il momento che il passeggero del “vascello-terra”, per riprendere l’espressione di Buckminster Fuller,1 si renda conto che l’imbarcazione e i viaggiatori sono entrambi in pericolo e cominci seriamente a invertire la rotta per continuare ad abitare il pianeta. 13.11.14 (1) R. Buckminster Fuller, Manuel d’instruction pour le vaisseau spatial “Terre”, Zurigo, Lars Müller Publishers, 2010. |