Emanuele Piccardo. Paesaggio: questione di punti di vista
EP, Back to Scrivia, Tortona 2014 Il paesaggio sempre con maggiore insistenza entra nel lessico quotidiano, spesso con usi impropri, indefiniti. Non vi é tema di ricerca più vasto e ambiguo se non si limita il campo dell’indagine. Affiorano paesaggi umani, sociali, costieri, naturali, politici, urbani, quello che in questa sede ci preme evidenziare è il paesaggio quotidiano. Ciò che ci troviamo di fronte ogni giorno nel portare i figli a scuola e nel percorrere a piedi e in auto le nostre città. Sono paesaggi diversi, contaminati dall’uomo e dalle sue abitudini, che osserviamo a velocità diverse e dunque con un tempo di osservazione. Se ci riferiamo al paesaggio come termine storico, esso ha una sua origine precisa che avviene in ambito letterario, nel Settecento, con il concetto del bello e del sublime elaborato da Edmund Burke. Il paesaggio non può prescindere dalla sua rappresentazione visiva altrimenti non esisterebbe come categoria in cui si cerca sempre di infilare tutto. La visione del paesaggio che i viaggiatori ottocenteschi avevano nell’attraversare l’Italia, tra orridi e rovine, non esiste più. C’è stata una evoluzione che ha determinato una totale contaminazione tra monumenti, natura e città. Non mi riferisco solo al paesaggio italico ma anche al paesaggio della frontiera americana, come nelle Shoshone Falls, le famose cascate dell’Idaho rese celebri dai fotografi William Henry Jackson e Timothy O’ Sullivan. Qui il paesaggio è stato modificato dalla costruzione di villini di vacanza e dalla diga, interropendo il flusso acqueo e quindi modificando radicalmente l’immagine iconografica delle cascate. Ma il paesaggio naturale, la wilderness, tanto cara a generazioni di fotografi-pionieri come Carleton Watkins, oltre ai già citati Jackson e O’ Sullivan, ed i loro nipoti Ansel Adams, Edward Weston, Minor White, è ancora visibile in Nordamerica a differenza dell’Europa dove l’urbanizzazione ci ha precluso la possibilità di vivere una esperienza selvaggia. Timothy O’ Sullivan, Shoshone falls, Idaho 1874 EP, Shoshone falls, Idaho 2014 La fotografia, fin dalla sua invenzione nel 1839, ha avuto il compito di rappresentare il paesaggio con due distinzioni sui soggetti. In Europa c’è stata una prevalenza per le architetture dei monumenti come chiese, templi e rovine dell’impero romano alle diverse latitudini. Mentre in America i fotografi-pionieri hanno privilegiato i grandi spazi della frontiera ed i primi parchi nazionali, Yellowstone (1872) in Wyoming e Yosemite (1890) in California. Dunque il ruolo svolto dai fotografi, narratori di paesaggi, contribuisce a rileggere i luoghi attraverso il medium della camera di medio e grande formato, nonostante l’avvento del digitale. L’attitudine a fotografare i paesaggi urbani ha attraversato l’Ottocento e il Novecento. Rari sono i casi che raffigurano paesaggi naturali nell’Ottocento, se non sono mediati da monumenti come accadde con i fratelli Alinari, la prima agenzia fotografica, che ritraevano le tombe sulla via Appia, resti di acquedotti nella campagna romana, i Fori imperiali o i monumenti delle città italiane. Il paesaggio urbano e periferico sarà invece centrale per la fotografia italiana degli Anni Settanta-Ottanta che ha raccolto le testimonianze visive di Luigi Ghirri, Guido Guidi, Gabriele Basilico, Olivo Barbieri, Vincenzo Castella e Vittore Fossati. Questi autori hanno raccontato il paesaggio quotidiano, liminare, interstiziale, marginale tra città e campagna, tra interni ed esterni. Al pari del paesaggista, il fotografo osserva e annota sulla lastra fotografica, o nella memoria digitale, le modificazioni del paesaggio. Rimane oggi una delle poche figure che, contrapponendosi ad un paesaggismo da scrivania, percorre a piedi i paesaggi misurandoli con la sua camera. La fotografia registra l’impossibilità di salvare dal punto di vista ambientale il paesaggio, perché troppe variabili ne determinano il suo destino, ma essa costruisce una nuova visione del paesaggio stesso con un altro punto di vista. Il cambio dei punti di vista appare essere la più interessante possibilità che noi abbiamo oggi per comprendere le complessità del paesaggio. EP, Back to Scrivia, Tortona 2014 EP, Back to Scrivia, Tortona 2014 Recentemente con Elena Pagnini e Luisa Zuccotti abbiamo compiuto una esplorazione lungo le rive del torrente Scrivia, affluente destro del Po, nel territorio di Tortona in provincia di Alessandria. A fine luglio abbiamo percorso a piedi ampi tratti dello spazio fluviale per comprendere le potenzialità di una riappropriazione comunitaria del luogo. Abbiamo usato due media, la fotografia e la mappa. Con la fotografia si sono isolati frammenti di paesaggio per sanare quel profondo senso di smarrimento, di fronte all’impossibilità di risolvere le problematiche ambientali dello Scrivia. Un uso della fotografia che ridisegna una nuova e diversa cartografia fluviale, intrecciata con un lavoro di mappatura delle accessibilità al torrente, tra ferrovia, strada provinciale e autostrada Genova-Milano. Questa indagine ha consentito di ripensare lo spazio del fiume come uno spazio culturale dove poter riportare i cittadini con una diversa consapevolezza dello Scrivia. Ci siamo posti in una condizione di esploratori contemporanei, interessati a capire le dinamiche di un territorio attraversandolo. Solo così, agendo sul campo, si può pianificare, progettare, condividere un paesaggio. Dalle nostre osservazioni, nate da precedenti esperienze come la campagna fotografica Scrivia Osservazioni fotografiche lungo il corso del torrente del 1996 (realizzata insieme a Andrea Repetto, Vittore Fossati, Mario Tinelli, Pietro Luigi Piccardo e Raffaele Vaccari) e il viaggio svolto, dalla sorgente alla foce, da un gruppo eclettico di naturalisti e geologi nel 1979 , si è sviluppato il progetto scriviacontrocorrente#. L’obiettivo è ripensare il torrente nel suo rapporto con la città, attraverso un uso temporaneo che segue la sua ciclicità, individuando una serie di attività culturali (festival del paesaggio) e ludiche (sport e tempo libero), da realizzarsi nelle diverse stagioni. Il cambio di punto di vista su un vuoto naturale, privo di funzioni, nonostante la normativa lo definisca parco, consente di attivare un processo di riappropriazione, educazione e rilancio economico per una zona del nord-ovest in profonda crisi identitaria. Un modello e un approccio che può adattarsi a qualsiasi altro luogo perché modulare, estendibile e sostenibile, dove il ridisegno del paesaggio è determinante attraverso la progettazione di micro-architetture finalizzate alla nuova fruizione del fiume. Vedremo se nel tempo il progetto riuscirà a prendere corpo e raggiungere, così, una sua sostenibilità. Una speranza ci viene fornita dal lavoro del collettivo di paesaggisti francesi Coloco, che abbiamo ascoltato in una lezione entusiasmante alla biennale Creare paesaggi, organizzata a Torino dalla Fondazione Ordine Architetti, su iniziativa di Claudia Cassatella e Francesca Bagliani e di un corposo comitato scientifico istituzionale. Quest’anno il tema è il paesaggio urbano. Un paesaggio che è ostaggio di convinzioni, culture e dogmi che determinano uno scollamento tra l’astrazione legislativa e la realtà. Uno scollamento che avviene tra legislatore e funzionari pubblici da una parte, progettisti (architetti paesaggisti, ingegneri ambientali…) e cittadini dall’altra, evidenziato da un linguaggio obsoleto, usato da quei funzionari pubblici che interpretano il paesaggio come sommatoria di articoli legislativi. EP, Back to Scrivia, Tortona 2014 Nella nostra quotidianità vogliamo sapere invece come l’apporto di progettisti-paesaggisti possa contribuire a migliorare quei vuoti urbani adibiti a parcheggi, aiuole spelacchiate, tristi giardini pubblici. Il collettivo Coloco propone una progettualità che nasce dalla partecipazione dei cittadini. Un “invito all’opera” lo definisce Pablo Georgieff-membro del collettivo che ha in Gilles Clement il profeta del giardino planetario- dove i cittadini contribuiscono a realizzare l’intervento. Una modalità operativa che coinvolge direttamente i cittadini-abitanti in una performance vicino a quelle realizzate dagli artisti negli Anni Sessanta. Cittadini che condividono l’idea di migliorare e recuperare gli spazi urbani, pubblici e condominiali. Due progetti sono paradigmatici in tal senso, il primo Jardin DeMain realizzato a Lemasson periferia di Montpellier, il secondo Asfalto mon amour in corso di realizzazione a Lecce. Jardin DeMain viene realizzato con il coinvolgimento della comunità locale, in particolare i bambini del quartiere residenziale, dove viene attivata una collaborazione tra la municipalità e un’associazione nata per la gestione del giardino. In questo modo, pur consapevoli delle difficoltà gestionali, i paesaggisti francesi sensibilizzano la comunità sul prendersi cura di uno spazio che gli appartiene.
Nel caso di Asfalto mon amour Coloco riceve l’invito delle Manifatture Knos di Lecce, un centro internazionale di ricerca, formazione e produzione culturale basato sull’autonomia artistica e organizzativa, gestito dall’associazione Sud Est dal 2006. Un processo di recupero architettonico e di riuso funzionale che ha coinvolto altre associazioni: Induma, Officine Kata Pelta, Ricuso, Luoghi Comuni, Fermenti Lattici, Immaginario K, Cool Club, UnduetreStella, Radio Popolare Salento, Lua (Laboratorio Urbano Aperto), Paz. La sfida del progetto di Coloco è trasformare un parcheggio anonimo in giardino. Un progetto-azione in cui tutti sono invitati a fare: cineasti, danzatori, paesaggisti, agricoltori, agronomi, cittadini, studenti. Proprio questa modalità può scardinare la stantia concezione del paesaggio in Italia, a partire da una normativa che si arrotola su se stessa dove si parla di aspetti scenici e coni visivi senza approfondire l’importanza di uno sguardo multiplo sul paesaggio praticato da fotografi, registi, artisti e scrittori. 28.10.14
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