Emanuele Piccardo. Monditalia: l’architettura che non c’è
C’era molta aspettativa per la prima Biennale di Architettura diretta dal teorico, cinefilo, progettista olandese Rem Koolhaas, nominato con due anni di anticipo alla guida della manifestazione veneziana. Tuttavia la messa in scena multimediale che accompagna il visitatore all’Arsenale è deludente. Quello che doveva essere un omaggio all’Italia in realtà è un display ricco di suggestioni effimere in cui due elementi sono assenti, l’architettura e il conflitto. Nella suo essere onnivoro di storie Koolhaas ci racconta un Italia frammentaria. Da una parte un nastro narrativo continuo rappresentato dai film che hanno raccontato il Belpaese in tutte le sue sfaccettature, dal cinema concettuale di Michelangelo Antonioni a quello sociale di Pietrangeli, un modo per educare il cittadino generico abitante di quella città generica così cara all’architetto calvinista. Dall’altra una serie di casi dei quali si ricostruisce con difficoltà un tema comune. Si crea così un processo di accumulazione superficiale al pari della schizofrenia delle maratone video di Hans Ulrich Obrist, ripetitive fino all’inutilità, giustificate unicamente dalla celebrazione del conduttore. Questa lettura postmoderna dell’Italia in cui si mischiano storie di vita più consone a ricerche sociologiche determina l’assenza più importante: il conflitto. Nessun conflitto viene esplicitato dall’immigrazione alla questione della modernizzazione dello Stato attraverso le trasformazioni urbane ed architettoniche, o ancora il grande tema delle periferie oggi al centro del dibattito innescato da Renzo Piano, ad eccezione del lavoro 99 Dom-ino, curato dallo Space Caviar diretto da Joseph Grima, che rilegge in modo analitico, attraverso il video, situazioni al limite tra il legale e l’illegale. Come se a salvarci dal mare di corruttori e corrotti bastasse una storia di una Italia minore e marginale. In questo senso non stupisce lo spazio dato a Stefano Boeri intervistato da Beka e Lemoine sulla Maddalena, vergogna italiana per la corruzione durante la realizzazione delle architetture per il G8 del 2009 poi annullato e celebrato a L’Aquila dal governo Berlusconi. L’Aquila è protagonista della ricerca post-quake di Claudia Faraone che indaga il sistema delle progetto C.A.S.E. e il suo fallimento anche se lo sguardo del fotografo Andrea Sarti appare poco incisivo. La successione dei casi offerti ai “biennalisti” dispensa suggestione eclettiche (come il linguaggio architettonico di Koolhaas) con una dominante tra l’architettura radicale e il postmoderno. L’architettura radicale, oggi fenomeno attraente per i critici internazionali, rappresenta una fuga teorica davanti alla crisi dell’architettura e all’assenza di manifesti teorici. Qui rappresentata dalle due discoteche/piper a Torino (il piper E’ la fine del mondo progettato da Pietro Derossi con Giorgio Ceretti nel 1966) nella installazione curata da Felicity D. Scott, e a Firenze con lo Space Electronic progettato dal gruppo 9999 oggetto della ricerca di Catharine Rossi. Temi non certo innovativi per chi scrive avendoli riportati alla luce fin dal 2009 con la serie di interviste “Dopo la rivoluzione. Azione e protagonisti dell’architettura radicale italiana 1963-1973” e nelle successive ricerche come Radical City (numero di archphoto2.0 e mostra) e nel recente libro, con Amit Wolf, Beyond Environment. La celebrazione del postmoderno è evidente nello spazio curato da Lea-Catherine Szacka e dalla presenza dell’installazione della Moglie di Lot del gruppo radicale dei Superstudio, consciamente postmoderni fin dal Monumento continuo. La sezione più interessante è curata dalla storica Beatriz Colomina che affronta il tema dell’educazione con Radical pedagogies, in cui vengono presentate diverse scuole di architettura ma anche eventi. Una parete amaranto concepita come una timeline dove la selezione avviene, anche in questo caso, per accumulazione cronologica con uno sguardo eclettico e poco rigoroso come se la preoccupazione fosse quella di non escludere nessuno. Invece alcune presenze sono fuori contesto come Campo Urbano, il progetto di Luciano Caramel a Como nel 1969 dove invita artisti e architetti a confrontarsi sullo stesso luogo con azioni dal forte carattere performativo. E ancora il convegno Utopia e/o Rivoluzione organizzato da Derossi, Aimaro Isola, Riccardo Rosso, Elena Tamagno a Torino nel 1969, con l’obiettivo di confrontare i due ambiti sottintesi dal titolo, con figure come Paolo Soleri, Architecture Principe, Utopie group, Archizoom, Yona Friedman. E ancora l’Ilaud di Giancarlo De Carlo attivo dal 1976 al 2003, il Politecnico di Milano di Belgioioso&Rogers e Canella, lo Iuav di Tafuri e Zevi. Nella schedatura delle esperienze “educative” stupisce l’assenza di esperti per alcuni architetti come Vittorio Giorgini (Marco Del Francia autore dell’unica monografia sulla ricerca dell’architetto toscano) o Lina Bo Bardi (Zeuler R. Lima autore della prima biografia sull’architetto italo-brasiliano). Sulla Bo Bardi va evidenziata l’assenza di una importante esperienza svolta con Carlo Pagani e Bruno Zevi, la rivista A-Cultura della Vita pubblicata dall’editore Gianni Mazzocchi. Un escluso importante è Paolo Soleri e la sua scuola di laboratori urbani che, in modo radicale e alternativo alla metropoli, hanno consentito la costruzione di Cosanti e Arcosanti. Monditalia dimostra quanto gli architetti abbiano bisogno di un palinsesto a corollario delle loro vuote teorie espresse da un eccessivo uso dei video (reale strumento di propaganda architettonica che ha sostituito il testo e le architetture costruite) che consente di rappresentare, in questo caso, la cultura italiana come un grande spettacolo onirico, senza un preciso indirizzo tematico, mantenendo un livello concettuale altalenante, tra il medio e il basso. Se nel passato i predecessori dell’olandese volante dovevano correre per costruire la Biennale in un semestre o poco più, aver avuto due anni di tempo sembra non essere servito a maturare una ricerca più approfondita nel rendere omaggio all’Italia. Venezia 6.6.14 |