Roma, Tor Vergata
La periferia non esiste più
Periferia è un termine vago che, come quasi tutte le parole che usiamo, deriva dal greco antico. Periphéreia vuol dire circonferenza, ma è un vocabolo che a sua volta proviene dal composto linguistico peri-phérein, ossia portare intorno, che pur sembrando un sinonimo del significato principale è, invece, qualcosa di più articolato. Anche in italiano la questione è assai complessa, con più significati: «1circonferenza, perimetro. 2 Parte o zona più esterna rispetto a un centro […]|L’insieme dei quartieri più esterni e più lontani dal centro di una città»(1)
Da qui varie considerazioni: periferia sembrerebbe un termine di per se dipendente, poiché questa categoria urbana non esiste se non c’è un centro. Ma se, come si ritiene da più parti, stiamo vivendo una irreversibile crisi del «centro» – di tutti i centri possibili – pare ovvio che periferia come parte o zona più esterna rispetto a un centro sia qualcosa di obsoleto, almeno dal punto di vista urbano.
Tuttavia esiste anche il significato primario di circonferenza o perimetro. La circonferenza è quel luogo geometrico costituito dai punti equidistanti da un punto fisso, detto centro. Il perimetro è la linea chiusa costituita dall’unione dei lati di un poligono o la linea di contorno di una superficie -per noi anche spazio- nonché la sua misura. La circonferenza ha bisogno di un centro geometrico per essere costruita, ma, una volta esistente, può ignorarne il destino. Il perimetro, addirittura, se ne infischia allegramente di ciò che di cui è contorno.
Direi che dobbiamo tornare a questo significato primario di periferia, cioè a quello di perimetro assolutamente indifferente ad un centro ormai inesistente.
La Roma contemporanea ovvero la metropoli del Grande Raccordo Anulare
Il GRA, Grande Raccordo Anulare, è un perfetto perimetro indifferente, una circonferenza immemore del suo originario centro, un labile confine concettuale tra ciò che resta della città e il nuovo spazio della metropoli. Se il GRA si ricorda di qualcosa, di certo non si ricorda del centrostorico (2) di Roma.
Questo spazio lineare, che come i trenini della Grande Bellezza (3) non va da nessuna parte, distribuisce a luoghi con nomi, cioè a toponimi, spesso feroci (Tor Bella Monaca, Magliana, La Rustica, Casal Lumbroso, Tor Lupara), ma anche alle mitiche strade consolari, che ripartiscono il traffico di SUV verso dentro o verso fuori. Anni fa, quando ancora campava il vecchio centrostorico, le file sul GRA erano verso l’interno. Ora non solo vanno in entrambe le direzioni, ma spesso sono più grosse verso l’esterno. Verso i nuovi centri di plastica degli Ikea, dei centri commerciali, dei super outlet, o verso i centristorici dei comuni della corona o delle enclave differenziate a seconda del reddito, corpi non troppo celesti, satelliti non più del Campidoglio ma del GRA stesso.
Su questa collana in forma di autostrada metropolitana a tre corsie di marcia sono inanellati i «nuovi» quartieri metropolitani, che spesso sono veri e propri fronti compatti di palazzine più o meno legali «in cortina», perle di quel dolce «stil merda»(4) che ha caratterizzato l’Housing italiano degli ultimi cinquant’anni. E’ qui che vivono i nuovi romani, in questa colata fuoriuscita dal cratere del GRA che, non essendo più città, non si può neanche considerare periferia. Un luogo dove l’architettura della città è strategicamente assente, dove la popolazione considera gli architetti come personaggi strani, creatori di oggetti e quartieri che ritengono alieni o orridi, come le torri di Tor Bella Monaca.
Roma, Tor Bella Monaca
E non a torto: un precursore di Robert Maitland (5), in particolare, si è felicemente accanito intorno a questa striscia ballardiana di cemento e asfalto. Come il protagonista dell’Isola di cemento, si è immaginato vari mondi ideali, dipendenti e tuttavia isolati dal flusso automobilistico allucinato dell’highway romana. Ha pensato di far vivere gli abitanti di queste isole urbane, isolate nell’oceano dello sprawl laziale, prima come coloni di mitiche comunità agrarie -le bellissime ma reazionarie casette vernacolari di San Basilio – e poi come astronauti di un altrettanto splendida nave spaziale kilometrica, il surreale capolavoro del Corviale.
Lui, novello demiurgo metropolitano, pensava gli abitanti delle sue archi-poesie come eroi di un radioso futuro. Veri e propri Stakanov del neorealismo e del metabolismo che, però, dovevano vivere secondo le sue regole e, in particolare, dovevano essere tutto tranne che cittadini. I quali, da bravi romani, si vendicarono poeticamente, narrando ai loro pargoli la leggenda urbana dell’architetto che si gettò dall’ultimo piano del gigante della portuense in seguito al fallimento della sua ipertrofica opera.
Ora che il nonno Centrostorico è morto e la zia Città è andata in pensione, questi luoghi, capisaldi di una mitologia romanesca alla Romanzo criminale, nuotano allegramente nel cinico minestrone metropolitano, al fianco di villini abusivi con nano incluso e di lussuose architetture neobarocche in cortina, pensate da ormai dimenticati pseudo maestri dell’architettura italiana. Un insieme di mattoni buttati a caso su lacerti d’impazziti tracciati rurali abusivi o su monconi di ritardatari tridenti neobarocchi più o meno progettati, che portano il già citato «stil merda» verso la scala superiore della progettazione urbana.
Tuttavia c’è ancora speranza: il comune di Roma si è inventato il concetto dei «Toponimi», che salveranno la situazione e daranno finalmente un orizzonte glorioso a questi nuovi territori metropolitani!
Roma,quartiere Borghesiana
Toponimi di nome ma non di fatto…
Per cercare di recuperare un minimo di chiarezza, torniamo alle definizioni: toponimo -dal greco tòpos, «luogo», e ònoma, «nome»- è il nome proprio di un luogo geografico. Il suo studio, la toponomastica, rientra nella categoria più vasta della onomastica, cioè lo studio del significato e dell’origine di un nome proprio.
La «nuova manovra di recupero urbanistico che interessa i nuclei di edificazione spontanea sorti negli ultimi trent’anni» del comune di Roma, denominata «Toponimi», punta quasi tutto sull’autorecupero urbano e sui consorzi autorganizzati di cittadini. Questo ottimo meccanismo ha però un ironico limite nell’esclusione, scientificamente preventivata, dell’architettura. Operazione strana, vista la pretesa – contenuta nella stessa scelta del nome «Toponimi»- di voler offrire a questi luoghi una nuova identità.
Tor Pignattara, per esempio, è un vero toponimo che è frutto di una stratificazione storica e culturale, un nome popolare originato da un’Architettura con la A maiuscola, cioè nientedimeno che il Mausoleo di Elena, fatto erigere dal figlio, l’imperatore Costantino, tra il 326 e il 330 d.C. La struttura del tamburo superiore, infatti, è costituita da calcestruzzo nel quale sono incorporate delle anfore (le pignatte) che avevano lo scopo di alleggerire la struttura. La fantasia popolare ha così dapprima nominato il monumento «torre delle pignatte», poi, con il tempo, il termine si è trasformato in «Tor Pignattara».
Castel Romano, Outlet
Quindi nella toponomastica prima c’è un evento notevole e poi un nome, cioè un’identità. L’evento può essere un’architettura (Tor Pignattara, Tor Bella Monaca, Torre Spaccata, Ponte Mammolo, etc), ma anche qualcosa di naturale (Trullo, Colli Aniene), un’attività magari poco pregevole (Tor Lupara, luogo di briganti e prostitute), un evento miracoloso (Le Galline Bianche di Livia, moglie di Augusto), o tragico (Femmina Morta). L’idea di tagliare fuori l’architettura dai Toponimi, quindi, sembra assurda proprio per il significato stesso del termine. Ma in realtà segue a decenni di lucida follia dell’urbanistica «razional normativa» italiana, a quella tendenza alla burocratizzazione del territorio che ha ucciso qualsiasi forma della città.
Ma comunque la nuova Roma, ormai dilatata sopra altri colli e lungo rive di fossi poco sacri sino alle spiagge del Tirreno (6), non è ne meno bella né meno cinica della vecchia, per cui è assai probabile che se ne fregherà, per dirla alla romana, di quest’ennesimo tentativo d’addomesticamento burocratico e s’impadronirà e digerirà anche le enormi occasioni sprecate della post-post modernità.
Come per esempio l’incompiuta Città dello sport di Santiago Calatrava a Tor Vergata, avviata nel 2005 dal neoregista Veltroni per ospitare i Campionati mondiali di nuoto 2009, tenuti poi nelle bellissime e preesistenti strutture littorie del Foro Italico (1930, C. Costantini). Questa doveva essere un Landmark metropolitano, un segnale di rinascita delle periferie attraverso un grosso e affermativo segno contemporaneo tale da portare la metropoli dell’ultra GRA nel paradiso metaurbano delle Archistar.
La struttura metallica, ora che gli atleti che dovevano gareggiarci si sono ritirati dalle competizioni per limiti d’età, si staglia vuota e solitaria nella zona metropolitana orientale, tra le sonnacchiose highways del Raccordo e della Roma-Napoli. Questo rudere postmoderno del futuro, che si vede dall’Appia Antica alla Tiburtina, sembra disegnato da un fumettaro «calato de Extasi», sempre per dirla alla romana. Esattamente come negli Anni Cinquanta sembravano i palazzi lasciati a metà dell’Eur, come usciti da un quadro metafisico, ma più che di De Chirico del suo fratello allucinato Savinio.
Non è noto il nome popolare che tale frutto pregiato della politica neo-clintoniana/blairiana/obamiana della ex sinistra romana si è meritato. Ma per quanto ci possano venire in mente toponimi dissacranti sconci o grevi, non c’è pericolo: la popolazione della metropoli romana ci stupirà con qualcosa d’inaspettato e meraviglioso, come del resto fa da secoli.
[Alessandro Lanzetta]
18.4.14
(1) N. Zingarelli, Vocabolario della lingua italiana 2001, Zanichelli, Bologna 2000, p. 1307.
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