Ami Licaj, Luigi Mandraccio. Non ci resta che abitare!
Screenshot da instagram dei diversi uso dello spazio durante la quarantena In questo particolare momento storico, non ci resta che abitare. Non avevamo mai passato così tante ore, giorni, mesi, di fila nelle nostre case senza quasi poterne uscire. Le conseguenze ci investono sia a livello fisico che mentale. Questa fase dell’attualità, al tempo stesso collettiva e personalissima, intima, si svolge in modo trasversale rispetto alle specifiche condizioni in cui si trova ciascuno di noi. Siamo immersi, giocoforza, nell’esperienza di abitare la domesticità e saremmo ipocriti se, come architetti, non ammettessimo che tutto ciò costituisce un laboratorio straordinario su uno dei temi più rilevanti della nostra disciplina, invitandoci a una lettura inconsueta del quotidiano e dei suoi significati. Lo spazio L’evoluzione sociale, ma contemporaneamente anche economica e politica, è sempre stata il motore delle trasformazioni sul tema dell’abitare. Allo stesso tempo, la sfera della domesticità è un’arma formidabile per il condizionamento della società e per la costruzione di scenari progettuali e narrativi di grande impatto (1). Gli spazi interni privati non solo sono legati indissolubilmente agli spazi interni pubblici, ma condividono anche il medesimo processo evolutivo, contribuendo alla definizione delle reciproche identità (2). Oggi questo rapporto si rinnova: la condizione generata dall’emergenza sanitaria ha stabilito la domesticità come nuova tipologia di spazio “pubblico” attraverso il ricorso alle più moderne tecnologie di comunicazione. Questo ha già lasciato intuire che sarà necessario ripensare l’idea di spazio collettivo contemporaneo/futuro così come è uscito dalla post-modernità (3). La tradizione del tema dell’abitare descrive un processo evolutivo complesso che si è nutrito, anzitutto, di fattori contestuali via via determinanti, impossibili da riassumere in una sintesi di carattere generalista. Le trasformazioni lungo questo percorso – in fase di progressiva accelerazione dalla casa vittoriana in poi, per l’effetto di fattori sia sociali che tecnologici – si sono sviluppate su presupposti anche molto diversi. Da un lato, la carica simbolica e provocatoria, per quanto in parte enigmatica, di progetti come “Co-op Interieur” (1926) di Hannes Meyer (4). Dall’altra sperimentazioni operative, come gli esercizi razionalistici, igienici e tipologici in ambito tedesco durante il primo Dopoguerra, ma anche le sperimentazioni italiane del secondo Dopoguerra, nate con l’obiettivo di contribuire alla risposta all’urgente fabbisogno abitativo, alla ricostruzione e al boom economico. La concezione, nell’ambito dell’ottava Triennale di Milano (1947) del “quartiere sperimentale pilota” QT8, e i suoi successivi sviluppi, segnò la pianificazione urbanistica e l’architettura residenziale italiana, in chiave tecnologica e tipologica, degli anni Cinquanta e oltre. Eccentrico rispetto a questo scenario è Gio Ponti, tra gli altri. Attraverso da un lato l’attività di progettista e dall’altro la “sua” Domus, realizzò e rappresentò la bellezza e lo stile italiano: “la casa all’italiana non è il rifugio, imbottito e guarnito, degli abitatori contro la durezza del clima […]; la casa all’italiana è come il luogo scelto da noi per godere in vita nostra, con lieta possessione, le bellezze che le nostre terre e i nostri cieli ci regalano in lunghe stagioni” (5). Nella seconda metà del Novecento, e fino ai nostri giorni, si osserva una tendenza verso la miniaturizzazione delle abitazioni e la temporaneità dell’atto dell’abitare. Dai metabolisti giapponesi, esemplificati dalla Capsule Tower (1972) a Tokio di Kisho Kurokawa, alle forme di “abitare minimo”, l’architettura internazionale è attraversata da una contrazione degli spazi interni privati, concepiti sempre di più con standard ridotti al minimo indispensabile che, ormai è evidente, assecondano logiche di mercato piuttosto che ragionamenti di necessità essenziale e convenienza: la nostra forzata permanenza in casa ci mette a confronto con i limiti del “minimo” e fa apprezzare, a chi può, il gusto di un superfluo divenuto vitale. Alla base di tutto questo processo, e di buona parte dei suoi esiti, c’è la concezione dello spazio come questione dimensionale, addirittura ridotta a semplice bidimensionalità: il “metro quadrato” come unità di misura rappresenta l’incarnazione di questa prospettiva per la standardizzazione – omogenizzata e omogenizzante – dello spazio. La progressiva imposizione di questo approccio schematico – consolidata dall’azione di furie ideologiche, anzitutto quella del Movimento Moderno – si arma del sistema metrico decimale facendo dell’unità-base della superficie la matrice fondamentale dello spazio. Il mondo costruito e abitato si organizza su questo modello, per ora. QT8, Zona pranzo dell’Alloggio n. 8 della casa INA-Casa a 11 piani, arredamento su progetto degli architetti Giulio Minoletti, Gio Ponti e Paolo Rosseli e dagli ingegneri Antonio Fornaroli ed Enrico De Smaele, Archivio Triennale di Milano. Il tempo “Non è solo un evento epocale, che segna un prima e un poi nella storia. È anche uno shock collettivo che investe i nostri corpi”(6). Il corpo, la mente, lo spazio-casa e internet sono gli unici quattro elementi, fisici e non, che descrivono la nostra quotidiana esistenza in questo tempo di pandemia. Tutti e quattro hanno la loro funzione e contribuiscono a creare un equilibrio precario, per cui se uno di questi viene a mancare crollerebbero gli altri, crolleremmo noi. La mente è la parte più debole e così corpo, casa e internet lavorano compulsivamente per tenerla occupata, distratta, serena. Recentemente gli psicologi hanno messo a paragone la curva dell’elaborazione del lutto con quella dell’elaborazione della quarantena e della pandemia: una fase iniziale di negazione, poi rabbia, successivamente contrattazione, depressione e infine accettazione. Nel contempo Google ha diffuso in questi giorni un report a scala globale dove viene rappresentata la mobilità verso parchi, negozi, luoghi pubblici in generale, il tutto suddiviso in base alle Nazioni. Se si sovrappongono le due curve si può osservare come, tramite analisi puramente qualitativa, esse in qualche modo corrispondano. Al picco iniziale della fase della negazione e della rabbia corrisponde il picco di massima affluenza nei parchi e nei luoghi pubblici della città, mentre al contrario alla fase della risalita emotiva verso l’accettazione combacia una discesa della mobilità verso questi luoghi. Si può osservare il passaggio e la traslazione di tutta la nostra quotidianità, da outdoor a indoor. Ci si è ritrovati dunque a dover ridistribuire nei metri quadrati della casa tutte le attività e le fasi della propria giornata. Così che i balconi diventano le piazze, il pavimento diventa palestra e spiaggia, il divano diventa cinema e museo (7). Facciamo dunque i conti con i nostri metri quadri e con quello spazio domestico che abbiamo eletto come “casa”, una scelta ponderata in un momento del passato secondo una proporzione più outdoor che indoor, pensando di trascorrere la maggior parte del tempo più fuori che dentro di essa. Siamo abituati a vivere sempre meno nelle nostre case per via dell’accelerazione che questa modernità liquida, come la definiva Bauman, ci impone. Addobbiamo con cura i nostri uffici e le nostre scrivanie come se fossero le nostre case, se non meglio, perché là è dove passiamo più tempo, mentre trascuriamo sempre di più quello spazio che ormai ci accoglie per poche ore al giorno, alla settimana, al mese, all’anno. La “modernità liquida” offre un ambiente sociale in cui viviamo una vita curiosamente affrettata vissuta come una serie di momenti episodici fugaci e (dis) connessi. (8) Disconnessi dalla nostra quotidianità e connessi alla nuova versione totalmente digitale/virtuale di essa, abitiamo ora più che mai lo spazio digitale che è infinitamente più ampio di quello fisico della somma dei metri quadrati. Ed è così che in queste settimane di quarantena l’aumento di traffico streaming e gaming, ad esempio, è salito del 400% (9). Sono giorni ormai che il sito Decathlon è congestionato e rifiuta qualsiasi genere di ordini avendo superato sin dai primi minuti della mezzanotte il numero massimo di ordini giornalieri. Cerchiamo di tenere occupata e distratta la mente e per fare questo usiamo molto di più il corpo, ed è così che allestiamo gli angoli più improbabili di casa come una palestra, organizzando sedute singole o digitalmente collettive, con tappetini yoga incastrati tra letto, armadio e scrivania; oppure ci prestiamo a svolgere il nostro abituale allenamento agonistico correndo in cerchio tra le mura di casa; fino a fare esercizi o stretching tra figli o animali domestici. Facciamo dunque i conti con le ore che passiamo in questi metri quadrati. A qualcuno va bene, ad altri meno. Le ore sono democraticamente uguali per tutti, i metri quadrati no. Lo sanno bene gli abitanti immortalati da Benny Lam nelle loro “Coffin Cubicles” ad Hong Kong, 200 mila corpi intorpiditi in 15 square foot che corrispondo a circa 1,5 metri quadri. Come può un corpo, e dunque una mente, resistere 24 ore al giorno, 168 a settimana, 672 al mese, 8 mila ore l’anno, in 1,5 metri quadrati. Mq / Ore Alla domanda di Heidegger “ma le abitazioni racchiudono in sé la garanzia che vi avvenga un abitare?” (10) ne affianchiamo un’altra: ma il metro quadro costituisce ancora l’unità di misura opportuna per l’abitare? Rispondere “sì” – pur costretti a chiarire di volta in volta sotto quali condizioni, oltre a una serie di altre considerazioni sul contesto – non sembra completamente adeguato ad affrontare la condizione contemporanea (pur temporanea) dell’abitare. Da domani, quindi, il fattore tempo potrebbe essere la misura con cui giudichiamo le nostre condizioni abitative. E ci ritroveremo a pensare davanti ad un annuncio immobiliare “quante ore di fila potrei passare in questa casa?”. Questa pandemia non solo ha sconvolto la nostra vita, ma ha anche rivoluzionato il rapporto spazio/tempo dell’abitare. 19.4.20 Nota al testo La scelta del tema e lo sviluppo della ricerca sulla prospettiva critica presentata sono frutto del lavoro di entrambi gli autori. Nello specifico “Lo spazio” è stato scritto da Luigi Mandraccio, mentre Ami Licaj è l’autrice de “Il tempo”. Riferimenti (1) Beatriz Colomina, Domesticity at war, Actar, Barcellona, 2006 (2) Penny Sparke, Interni moderni. Spazi pubblici e privati dal 1850 a oggi, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2011 (3) Alessandro Lanzetta, Biopolitica e paura. Fine dello spazio post-moderno?, Archphoto.it (18 marzo 2020). https://www.archphoto.it/archivio/archives/5583 (4) Pier Vittorio Aureli e Martino Tattara, Soft cell. Hannes Meyer’s Co-op Interieur and the architecture of the room intrigue, in The Architectural Review 1453 (luglio/agosto 2018) (5) Gio Ponti, Amate l’architettura, Vitali e Ghianda, Genova, 1957, p. 106 (6) Donatella di cesare, Il rischio adesso è la pandemia della mente, Il Manifesto (29 marzo 2020). https://ilmanifesto.it/il-rischio-adesso-e-la-pandemia-della-mente/?fbclid=IwAR3xoqY_qabmmzKNzYWcViWnWdSWaa__onetq4wBldP8dEaRvhu4gl8glFk (7) Francesco Bressan, Questo divano non è un museo, in Giulia Ricci, Alessandro Scarano ed., Come abitiamo in quarantena: un diario, Domusweb.it (7 aprile 2020). https://www.domusweb.it/it/notizie/2020/03/16/come-abitiamo-in-quarantena-un-diario-dei-giorni-del-coronavirus.html?fbclid=IwAR1j9HZkjPtz2n-KUsra74VBsMOiw8jnwz_IEBsQi70e9Jijg6FCg6GYIDQ (8) Mark Davis, Liquid Sociology: Metaphor in Zygmunt Bauman’s Analysis of Modernity, Routledge, 2016, p. 3 (9) Will Media, post del 24 Marzo 2020 (10) Martin Heidegger, Costruire abitare pensare, Editoriale Lotus, Milano, 2018, p. 12 Ami Liçaj è Designer e PhD in Design, dal 2013 coniuga il lavoro da libero professionista con la ricerca e il lavoro accademico presso il dipartimento di Architettura e Design dell’Università di Genova. Luigi Mandraccio è Architetto e Dottorando presso il Dipartimento Architettura e Design dell’Università degli Studi di Genova, affiancando l’attività professionale alla ricerca tra teoria e pratica del progetto d’architettura.
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