Fenomenologia di piccoli spazi aperti sul mare: riflessioni in margine ad un sopralluogo
Tra terra e acqua.
I luoghi di una città non hanno tutti la stessa intensità e stabilità. Esistono piccoli spazi che, osservati sulla carta, sembrano senza estensione e senza forma. Minuscole fratture che si insinuano tra grandi occupazioni industriali commerciali e terziarie, alla cui pervasività e alla cui espansione hanno accidentalmente resistito. Spazi senza destinazione e spesso senza nome (1). Privi di alcuna importanza a confronto con le aree cui la città metropolitana rivolge il suo sguardo onnicomprensivo, la sua attenzione problematica, le sue aspettative di rigenerazione. Questi reliquati dello sviluppo, piccoli errori di sistema che si insinuano come venature sottili nel monolite dell’accrescimento produttivo, possono raggiungere, nel tempo, una loro relativa, traballante stabilità. Fessurazioni nella concrezione urbana, attorno e dentro le quali lentamente l’abitare periferico fa ramificare il proprio progetto, a volte in forme trasandate e distratte, a volte in modi intenzionali fino alla costituzione di un vero e proprio “tema”, assunto e sentito dalla società locale. Spazi della contraddizione, che resistono all’espansione incontrastata e infinita della città moderna e contemporanea, su cui le geografie locali, indecifrabili per i codici istituzionali della rappresentazione e della tecnica urbanistica, tracciano un loro, per quanto labile, sistema di orientamento e di riconoscimento, ponendo in evidenza la capacità – specifica dell’abitare – di trasformare, anche senza modificazioni fisiche, qualunque spazio in un luogo (2). In alcuni casi, ad esempio quando questi spazi rappresentano luoghi di potenziale accesso a importanti risorse naturali e strategiche, si fanno più evidenti i conflitti tra la dimensione metropolitana e quella di quartiere, tra la spinta allo sviluppo produttivo e la necessità di conquistare e mantenere uno spazio per la dimensione abitativa. È il caso dei piccoli affacci a mare descritti in questa esplorazione: sempre sull’orlo della sparizione definitiva, costantemente minacciati da uno sviluppo industriale che, una volta occupata la quasi totalità della linea di costa, continua a premere sugli spazi residuali, assoggettando ad una continua rinegoziazione la sopravvivenza di questi microcosmici waterfront. Il significato e il ruolo di questi spazi, che a fatica continuano a perforare e ad addossarsi alla città murata dei cantieri, del porto, delle aree militari, è senza dubbio dilatato dalla loro localizzazione: essere sulla linea di costa significa situarsi nel punto più importante nella costruzione di un’identità geografica, in uno spazio di comunicazione e di conflitto, di contraddizione tra spinta allo sfruttamento economico, anche cruento e caotico, e istanza di autorappresentazione “scenografica” della città e dell’identità locale. È storicamente nei luoghi in cui le due forze della terra e dell’acqua si incontrano e interagiscono dinamicamente che gli uomini hanno abitato e si sono propagati. È nelle coste marine, oltre che nelle valli fluviali, che lo sviluppo industriale ha identificato il suo ambito ideale: la stessa geografia terrestre può essere pensata come teatro di scontro tra terra e acqua, e la loro linea di contatto, la linea di costa, come luogo cospicuo in cui si addensano le relazioni e i conflitti delle attività antropiche (3). Nel corso della storia le sponde del mare sono state spesso teatro di “alternanze di valorizzazioni e abbandoni spettacolari”, modellando uno spazio sfuggente che l’uomo ha faticato a controllare e sul quale il suo dominio è rimasto “sempre parziale ed ineguale” (4). Ciò è vero soprattutto nel tempo breve dell’industrializzazione e deindustrializzazione della città. In questo passaggio si sono stratificate e alternate sulla linea di costa nuove funzioni e dismissioni, progetti di riqualificazione e rapidi abbandoni, i cui tempi sembrano accelerati e amplificati dall’azione corrosiva del mare.
Piccoli waterfront.
I litorali urbani restituiscono dunque una archeologia logorata della modernizzazione nei cui strati poco profondi sono spesso inglobati e dimenticati spazi non pianificati, piccole amnesie sempre sul punto di essere riassorbite in un nuovo disegno complessivo e definitivo. In breve tempo la linea di costa è diventata l’oggetto privilegiato del progetto contemporaneo, volto a stemperare i conflitti e a risolvere le contraddizioni accumulate nel corso della storia, proiettando sul mare le strategie e le retoriche della rigenerazione urbana. In questi ultimi anni, in particolare, la suggestione generata dai progetti di waterfront si è rapidamente imposta come l’onda di un grande “tema immaginario” (5).
Dai fronti marini di grandi e medie città portuali, ai raffinati restyling delle località balneari, questi progetti hanno ridefinito il paesaggio dello spazio pubblico affacciato sul mare, secondo una ricorrente grammatica del progetto urbano più o meno ricca di funzioni centrali e simboliche in relazione allo scenario competitivo di riferimento. In alcuni casi ciò ha comportato una forte banalizzazione del progetto dello spazio pubblico, ridotto a luogo dello svago, costituito dai medesimi materiali e sequenze dei luoghi ludico-commerciali in variante marina: parcheggio, galleria commerciale, bar, ristorante, piscina, piazzetta pedonale in finta pietra delimitata da vetrine con vista panoramica sugli yacht.
L’intensità e l’instabilità delle trasformazioni contemporanee che caratterizzano i litorali urbani non consentono tuttavia un controllo complessivo nella dislocazione di questi spazi del loisir, accostati ed incastrati nelle aree portuali produttive e commerciali, in un gioco di alternanze e di compensazioni tra funzioni centrali e periferiche. Qualcosa sfugge. Diversamente dalle rappresentazioni cartografiche il litorale urbano dimostra una sua irriducibile profondità e un suo spessore (6).
Piccoli spazi dimenticati dal progetto si sviluppano ad intervalli irregolari, infiltrandosi nelle pieghe delle carte che riportano la distribuzione razionale delle funzioni ammesse. Come nelle eterotopie raccontate da Foucault, essi sovvertono il senso del sistema dei luoghi con cui sono posti in relazione (7). Estranei agli immaginari del progetto, si pongono come contro-luoghi: spazi periferici non ancora del tutto “desacralizzati”, che definiscono una geografia dello spazio pubblico, insorgente e resistente.
L’ipotesi che si avanza è che questi piccoli waterfront possano costituire il resoconto di un mo(n)do con il quale l’abitare periferico riconquista (e in alcuni casi perde) il proprio fragile statuto di resistenza, infiltrandosi nelle scuciture e nelle pieghe della colonizzazione industriale e postindustriale della città moderna e contemporanea. Spazi che annunciano non una possibilità di approdo, ma un impellente bisogno di deriva, di superamento della lunga fascia di proscrizione e divieto all’abitare imposta sulla fascia di costa dagli insediamenti industriali e militari. La debolezza di questi spazi costituisce la misura del loro potere corrosivo nei confronti del progetto e delle sue retoriche: in alcuni casi, spazi in lenta agonia ridotti a simulacri delle antiche marine, in cui si rivendica il diritto all’accesso al “proprio” mare, in altri, spazi che si pongono oltre il progetto e che sembrano ritrovare nelle forme dell’abbandono, piuttosto che in quelle della cura e della manutenzione, quel “senso dell’agire ancora più elevato di quello che attraversa tutte le azioni del mondo” (8).
Nient’altro che osservare.
La debolezza con cui questi spazi si presentano all’osservazione richiede un rinnovato esercizio descrittivo, capace di isolare questi frammenti di orizzonte come “immagini singole” rispetto allo sviluppo del litorale, in cui ritrovare, come suggeriva Bachelard, in uno stato di “lettura sospesa”, attraverso risonanze e ripercussioni, il “valore umano degli spazi di possesso, degli spazi difesi contro forze avverse, degli spazi amati” (9). Un esercizio in cui la descrizione si confonde con l’evocazione, più adatta a ritrovare quei “valori di riparo” profondamente radicati nell’inconscio. Un esercizio da cui emerge una “volontà di restare superficiali”, nella consapevolezza che “l’immagine più fragile o inconsistente può rivelare vibrazioni profonde”(10).
Come sussurrava uno degli angeli de “Il cielo sopra Berlino” di Wenders: “non fare nient’altro che osservare… …rimanere a distanza, stare alla parola”. Un programma di ricerca minimo in cui annotare, dunque, fotografando, per comporre un inventario aperto di evenienze fenomenologiche, una collezione di frammenti riflessivi, teorici e descrittivi, un codice ovvio(11) fatto di cose trovate in margine ad un sopralluogo condotto nei cinque piccoli waterfront che cadenzano il litorale urbano della Spezia (12).
(1)S. Boeri, A. Lanzani, E. Marini, Nuovi spazi senza nome, in “Casabella”, n. 597-598, 1993, pp. 74-76.
(2)F. La Cecla, Mente locale. Per un’antropologia dell’abitare, Elèuthera, Milano, 2011.
(3)T. Makiguchi, A Geography of Human Life, Caddo Gap Press, San Francisco, 2002.
(4)M. Aymard, Spazi, in F. Braudel, Il Mediterraneo. Lo spazio, la storia, gli uomini, le tradizioni, Tascabili Bombiani, Milano, 1987.
(5) M. Romano, L’estetica della città europea, Einaudi, Torino, 1993.
(6)F. Farinelli, Geografia, Un’introduzione ai modelli del mondo, Einaudi, Torino, 2003.
(7) M. Foucault, Spazi altri. I luoghi delle eterotopie, Mimesis, Milano, 2001.
(8)M. Heidegger, L’abbandono, Il Melangolo, Genova, 1989.
(9)G. Bachelard, La poetica dello spazio, Dedalo, Bari, 1975, p. 26.
(10)G. Bachelard, La poetica dello spazio, Dedalo, Bari, 1975, p. 215.
(11) B. Munari, Codice ovvio, Einaudi, Torino, 2008.
(12)Il sopralluogo è stato condotto dai due autori nell’aprile del 2011.
I. Spiagge: le spiagge urbane rappresentano residui di naturalità in un paesaggio costiero artificiale. A Muggiano, percorrendo la stretta strada tra i vecchi muri di edifici industriali, si apre una minuscola spiaggia ghiaiosa e arrugginita. Pochi metri tra il muro dei cantieri e il cancello di una associazione nautica. Un luogo appartato e liberato da codici di accesso e di comportamento, in cui capita di vedere operai dei cantieri limitrofi a prendere il sole, durante una pausa. Uno spazio radicalmente “pubblico” in quanto trascurato, aperto e indifeso ad ogni possibilità di azione, anche la più infetta e violenta. La spiaggia del Muggiano rappresenta uno spazio bianco nella dura monotona sequenza delle inaccessibili enclaves industriali del litorale. Interrompe uno spazio interdetto, anche da parte delle associazioni nautiche, che oppongono, pur se in misura meno violenta e meno pervasiva rispetto alle attività industriali, una certa impermeabilità all’uso pubblico, attraverso meccanismi di regolazione dell’accesso. Contiguo alla spiaggia, lo spazio dell’associazione nautica è protetto da un cancello. Pavimentato, arredato con vasi di fiori e panchine immette in un ampio spiazzo, ombreggiato da pini, in cui alle funzioni di rimessaggio e manutenzione della barche si accostano aree per il gioco dei bambini. Una piazza semi-pubblica che, in alternativa alla spiaggia, costituisce uno sbocco a mare regolato e riservato.
II. Fessure: piccole fessure bucano e interrompono la continuità logitudinale delle attività industriali e portuali, ricostruendo gracili legami trasversali tra gli storici insediamenti esistenti e l’affaccio al mare. Lo spazio pubblico è sottile infiltrazione tra le aree della produzione. A Ruffino lo spazio è compresso, ricavato tra cantieri e vincoli militari. Il pontile è di pochi metri di larghezza, unico varco a mare per il quartiere. Un nuovo progetto ne tematizza un possibile ruolo pubblico, che potrebbe restituire un mare mancato ad una parte, mancata, di città. A Fossamastra, nell’“Arenile comunale”, si entra da un cancello, attraversando i binari di servizio al porto e una fila di pini (in parte tagliati) che storicamente ornavano il viale litoraneo, rendendolo tema urbano, e introducevano al fronte marino sabbioso. Il cancello costituisce la linea di confine che seleziona l’accesso. Una soglia che si può varcare grazie ad un apricancello automatico, che cessa di funzionare in ora serale, rendendo inaccessibile il varco nella notte. L’arenile è una banchina in cemento, cui si accede passando per un lungo corridoio di barche avvolte da teli. Culmina in un piccolo attracco delimitato da pneumatici. Si affaccia direttamente sul diffusore a mare delle acque di raffreddamento della centrale Enel, la cui corrente calda, in superficie, attira pesci e pescatori. L’abitare fa dello scarto, anche il più sordido, una risorsa di sopravvivenza morale.
III. Bucare e riempire: la linea di costa è incessantemente modellata da due azioni contrapposte, alla ricerca di una maggiore estensione delle superfici di contatto tra terra e acqua: scavare nella terra per ricavare darsene e bacini; riempire il mare per costruire moli e isole artificiali. La darsena di Pagliari è stata realizzata tra i quartieri di Pagliari e Fossamastra, scavando in un’area precedentemente occupata da un campo da calcio e da depositi. Le imbarcazioni accedono alla darsena, circondata da un nuovo tratto di viabilità, passando sotto un simbolico ponte levatoio, su cui scorre la vecchia strada litoranea. Progettata come centralità sul mare, la darsena costituisce la nuova scenografia di uno spazio di confine tra i due quartieri.
Spazio che viene usato, nelle pause e nei balbettii della prevista funzione produttiva, come scivolo per i canoisti o come banchina per la pesca. Un uso promiscuo di funzioni non codificate, ammesso da un accesso apparentemente libero, non filtrato né mediato da soglie, segnali, barriere. Una dimensione di non-finito e di sovradeterminazione, ancora sottratta alle interdizioni, ai dispositivi della sicurezza passiva, alle selezioni che accompagnano la delimitazione e il controllo degli usi e dei comportamenti. L’abitare sfrutta, quasi furtivamente, questi spazi di attesa, accampando azioni non prevedibili: il progetto futuro di produzione e sviluppo resta uno sfondo diafano, di fronte all’affermarsi, quotidiano, di questo campo di promiscuità e possibilità.
IV. Contrazioni e recinti: a volte lo spazio abitativo muore. Falliscono le spinte ad infiltrarsi e a resistere. Di fronte alle logiche di razionalizzazione ed espansione delle attività e degli spazi portuali della città-macchina lo spazio delle antiche marine soffoca per eccessiva contrazione. Un progressivo processo di riduzione che in alcuni casi, come al Canaletto, raggiunge la soglia oltre la quale sembra cessare ogni dimensione collettiva dell’abitare. Essa si dissolve in uno spazio di attraversamento recintato, un ultimo frammento che precede la coalescenza e l’assorbimento di ogni residuo di spazialità pubblica nelle aree portuali e della logistica.
Lo spazio pubblico della marina del Canaletto si presenta all’osservatore come una striscia asfaltata delimitata da un doppio ordine di recinti metallici. Uno impedisce l’accesso alla strada del porto, destinata ai TIR, l’altro proibisce, a chi non ha barca, di accedere al mare e alle diverse attività associative, di cantiere e rimessaggio. In maniera parossistica si manifesta la necessità di escludere e appartarsi, di proteggersi da uno spazio ormai decivilizzato dall’incombenza delle infrastrutture portuali, che hanno separato questi luoghi dal quartiere. Una chiusura a doppia mandata che lascia l’osservatore girovago senza approdo e senza riparo.
Senza mare.
V. Piazze, bordi, relitti: Le figure del disporsi attorno o lungo (i) caratterizzano le forme di un insediamento che si raccoglie intorno ad uno spazio aperto, tematizzato come piazza, come strada, come bordo o soglia. Alcuni spazi pubblici aperti sul mare si caratterizzano come luoghi di molteplici attività connesse con il mare, che si alimentano sulla scansione di arrivi e partenze di barche e pescherecci. A Cadimare, nello spazio occupato per lungo tempo da un cantiere navale, è stata recentemente realizzata una nuova piazza affacciata sul mare che restituisce felicemente all’uso pubblico un’area precedentemente interdetta e degradata. Il progetto consiste quasi esclusivamente in una nuova pavimentazione che con leggeri movimenti di quota definisce un ampio spazio aperto in grado di ritessere una relazione mediata tra il mare e il centro storico. Tentativi naif di rievocare un’immagine storica (la piazza è arredata con cannoni d’epoca) contrastano con il permanere e il prevalere del periferico. In posizione centrale, un campetto da calcio in sintetico verde; in margine, l’incombente muro, ineluttabilmente segnato dai writers, che separa dalle aree militari. Un simbolo soverchiante di perifericità che comprime lo sforzo del progetto di ricreare uno spazio pubblico “storico” e centrale sul mare, mettendo in agitazione il fantasma della nostalgia identitaria.
La vista della rovina, così come del relitto, costituisce una intollerabile contraddizione con il progetto di un nuovo spazio centrale che cerca il riscatto da una situazione di marginalità e di degrado. Il progetto di riqualificazione del fronte a mare di Cadimare è stato perciò accompagnato dalla parziale rimozione del relitto dello yacht Maxim, rimasto lì per anni, adagiato su un fianco nelle acque antistanti il vecchio cantiere, in attesa di essere demolito. La distanza che separa dal centro, e che trova nel relitto la sua più compiuta raffigurazione nel rapporto tra terra e mare (ii), è ciò che fa del periferico, oltre che un luogo privilegiato della rimozione, una “preziosa” riserva di errore e di inconsapevolezza(iii), dentro la quale la durata lenta ed estenuante del disfacimento e della corrosione lascia cicatrici affioranti sull’acqua.
[Andrea Vergano&Daniele Virgilio]
(i) P. Colarossi, La costruzione della qualità morfologica nella dimensione medio-piccola dello spazio urbano. Il caso di Roma, in R. Pallottini (a cura), I nuovi luoghi della città. Riqualificazione urbana e sviluppo locale, Fratelli Palombi editori, Roma, 1999.
(ii)F. Dal Co, Tra terra e mare: l’architettura di Sverre Fehn, in “Casabella”, n. 645, 1997.
(iii)P. A. Rovatti, Abitare la distanza. Per una pratica della filosofia. Raffaello Cortina, Milano, 2007.